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La Luce Negli Occhi

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T. Ordinario 2024 (Anno B)

XI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) – 2024

“Seminatori del Regno con coscienza retta e formata”


 

(Ez 17,22-24 - Sal 91 - 2Cor 5,6-10 - Mc 4,26-34)

 

       «Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male» (2Cor 5, 10).

       L’uomo, fin quando non accade qualcosa che gli fa fare i conti con la propria debolezza e finitudine, si sente capace e potente, invincibile e sicuro. La superiorità del suo essere lo porta a ritenere che tutto può e nulla gli può o deve impedire di raggiungere il suo obiettivo. Se ci riflettiamo questa visione è alla base di ogni conflitto, di ogni abuso di potere, di ogni violenza.

       La consapevolezza della propria finitudine apre invece ad una prospettiva di relatività positiva, perché nulla diventa più importante e necessario di trascorrere una vita in serenità e nella felicità.

       Quando poi l’uomo si apre alla trascendenza e accoglie Dio nella propria vita, la prospettiva si apre ad un orizzonte di eternità con cui imparare a fare i conti in ogni momento della propria esistenza terrena. Dio diventa la ragione di vita e la misura di ogni cosa.

       Quando lo sguardo si eleva da sé a Dio tutto assume un senso e un valore diverso, perché tutto trova senso e valore in Dio e non più per il proprio tornaconto.

       San Paolo, nella lettera ai Corinti, parla del “tribunale di Cristo”. Questo termine per la cultura moderna e postmoderna è motivo di allontanamento da Dio, visto come un giudice che limita la libertà e che è pronto a condannare e umiliare l’uomo.

       Il “tribunale di Cristo” non è un giudizio di condanna, quanto piuttosto un giudizio di ratifica, infatti San Paolo associa al tribunale il concetto di “ricompensa” sia per opere di bene che di male.

       La scelta resta della persona ed è lei stessa che determina il proprio giudizio e la propria ricompensa in bene o in male.

       Dio, quindi, non condanna ma prende atto, sottoscrive, convalida, ratifica ciò che ciascuno liberamente decide di fare della propria vita e le azione che derivano dalle sue scelte.

       La religione, infatti, non è una imposizione ma una scelta. La fede è una adesione libera e fedele alla proposta d’amore di Dio e di conseguenza diviene uno stile di vita, una modalità di essere e una regola su cui uniformare le proprie scelte, il proprio pensiero e i propri valori di riferimento.

       Dalla propria adesione libera e fedele a Dio si comprende anche la categoria del Regno di cui parla il brano evangelico di questa domenica.

       Gesù presenta il Regno di Dio come un “seme” che viene piantato e cresce portando frutto. Il Regno di Dio è frutto della fede e espressione dell’adesione di fede a Dio.

       Il concetto di Regno di Dio non ha nulla a che vedere con i regni degli uomini, in cui il potere di uno o di pochi assoggetta il resto dell’umanità

       Il potere di Dio non umilia, ma esalta e il suo Regno non soggioga nulla, ma rende libero e responsabile chi ne fa parte.

       Il credente, quindi, è protagonista e costruttore del Regno di Dio, oltre che esserne il custode. I credenti sono presenza del Regno di Dio con la propria esistenza. Il Regno cresce se la comunità dei credenti opera e vive la fede in modo giusto e vero.

       Sono le opere dei credenti a rendere visibile il Regno di Dio nella quotidianità e mediante esse si espande coinvolgendo altri ad aderire alla proposta di amore di Dio.

       Il credente non vive la fede per paura del giudizio di Dio, ma vive la fede amando secondo il cuore di Dio, come da Dio è amato, e contagiando con l’amore tutto ciò che interagisce con la sua vita. È così seminatore del Regno.

       Per questo il credente non può “vivere del mondo”, ma “vive nel mondo” con la forza dell’Amore di Dio e in esso semina l’Amore dandone ragione con la propria vita, le scelte e le opere che compie.

       Di conseguenza il credente deve curare e formare la propria coscienza affinché sia sempre desta e capace di discernere il bene nelle situazioni di vita, che sono sempre più complesse.

       La priorità del credente deve essere, dunque, quella di vivere con piena responsabilità, in libertà e fedeltà, la propria vita per essere “sale e luce” nel mondo e cooperare all’edificazione del Regno di Dio.

       Con una coscienza matura, retta e costantemente formata, ogni battezzato, nella diversità di ruoli e carismi, è seminatore del Regno con le opere di amore e con la vita orientata a Dio, nella tensione verso l’eternità.

X Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) – 2024

“Testimoni dell’amore che libera”


 

(Gen 3,9-15 - Sal 129 - 2Cor 4,13-5,1 - Mc 3,20-35)

 

       «In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna» (Mc 3, 28-29).

       Oggi parlare di peccato è quasi anacronistico a causa del soggettivismo etico nel quale si vive. Ognuno è regola di sé stesso e, di conseguenza, la categoria di peccato è inconcepibile. Più che di peccato si parla di errore, di sbaglio, di colpa o di rimorso, perché manca il riferimento con Dio. Se l’IO è la misura di valore, il peccato è una categoria incomprensibile, inutile.

       Oggi occorre che Dio torni ad avere il primato nella vita del soggetto e ciò è possibile solo attraverso una evangelizzazione che non parta dall’accusa e dalla denuncia dei peccati, ma dal Kèrygma (dal greco κρυγμα kêrugma, kêrygma), dall’annuncio del Vangelo. L’uomo contemporaneo non conosce Dio o al massimo ha una idea errata di Dio e della religione. Il cristianesimo è considerato piuttosto un limite alla realizzazione della persona che una elevazione e qualificazione di essa, pertanto è urgente che ogni battezzato senta il dovere morale di annunciare il Vangelo.

       L’annuncio parte dalla propria esperienza di amore e di redenzione. Solo chi ha sperimentato l’amore di Dio e la sua misericordia annuncia con gioia Dio e il suo Amore.

       Quando questo manca nell’esperienza religiosa del credente, si vive una religione fatta di frustrazioni, di rimorsi, di regole e doveri vissuti come un peso da portare per evitare il giudizio funesto di Dio.

       Si vive così una fede senza gioia, senza sorriso, fatta solo di penitenze e rinunce per propiziarsi Dio.

       In questa prospettiva non si parla più di sequela di Cristo che libera, ma di un asservire da parte di Dio, di una religione che schiavizza e annulla il credente.

       Il cristianesimo non è questo! Seguire Cristo, conformarsi a Cristo significa raggiungere la piena e autentica libertà dell’uomo perché tutto ciò che è e che fa è orientato al bene, alla edificazione di sé e del prossimo.

       Gesù, infatti, non ha usato la categoria di “schiavo” per definire il rapporto del credente con Lui, ma quella di “amico”: «Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 14-15).

       Il credente è colui che si riconosce amato e ama a sua volta Dio e il prossimo. Gesù considera il credente parte di sé, in un legame di amore, di famiglia. Lo dice con fermezza nel brano evangelico: Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3, 31-35).

       Il peccato, allora, cos’è?

       È un tradimento dell’Amore! Un non vivere nella volontà di Dio, che è vivere nel suo Amore!

       Per questo il peccato che mai verrà perdonato è quello contro lo Spirito Santo, che è la manifestazione dell’Amore del Padre e del Figlio. Il peccato contro lo Spirito è negare l’Amore di Dio, non riconoscerlo possibile e ritenere di non averne bisogno. È il peccato di disperazione di Giuda, di non riconoscere possibile per sé la misericordia di Dio. È il chiudersi a Dio perché non necessario per la propria esistenza, avendo l’IO quale misura e ragione di vita.

       Il mondo da sempre ha bisogno dell’Amore. L’umanità è alla ricerca dell’Amore e anela a trovare il vero Amore. In questa ricerca il Dio cristiano è la risposta che appaga la sete dell’uomo di Amore.

       A questo mondo assetato di Amore i battezzati sono chiamati a testimoniarlo vivendo dell’Amore di Dio e avendo l’Amore come regola e misura della vita.

       Anche quando tutto grida assenza di Amore, per la troppa violenza, per gli innumerevoli atti di violenza nei rapporti di amore, di familiarità, di amicizia, i battezzati non devono scegliere la strada dell’accusa, ma quella dell’annuncio dell’Amore di Dio, del suo Vangelo che libera, della sua Misericordia che è pronta ad accogliere e perdonare a condizione di aprirsi all’amore.

       In questa società, che appare sempre più assoggettata al male, persa e depravata, l’annuncio del Vangelo diventa l’urgenza da vivere, per far sperimentare all’uomo di oggi che è possibile vivere la gioia, vivere la felicità vera.

       Il mondo ha sete di Dio, è alla ricerca dell’Amore, ma nel mondo manca chi lo annuncia con la propria vita, chi dà testimonianza di averlo incontrato e di aver sperimentato quanto è bello vivere nell’Amore di Dio.

       Al mondo mancano credenti gioiosi e testimoni dell’amore! Spetta ai battezzati testimoniare l’Amore redentivo incontrato, che libera e dà gioia vera.

SOLENNITÀ SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO (Anno B) - 2024

“Vivere in Comunione per essere salvati”


 

(Es 24,3-8 - Sal 115 - Eb 9,11-15 - Mc 14,12-16.22-26)

      

       Celebriamo in questa domenica la Solennità del Corpus Domini, festa istituita nel 1246 in Belgio per la visione mistica della beata Giuliana di Retìne, priora nel Monastero di Monte Cornelio presso Liegi ed estesa a tutta la Chiesa da Papa Urbano IV a seguito del miracolo di Bolsena (1263).

       Una prima considerazione va fatta distinguendo la Solennità del Giovedì Santo, in Coena Domini, e quella del Corpus Domini. Nella Solennità del Giovedì Santo, la riflessione è tutta centrata all'Istituzione dell'Eucaristia, scrutando il mistero di Cristo che ci amò sino alla fine donando sé stesso come cibo e sigillando il nuovo Patto nel suo Sangue; nella Solennità del Corpus Domini l'attenzione si sposta sulla relazione esistente fra Eucaristia e Chiesa, fra il Corpo del Signore e il suo Corpo Mistico.

       Per soffermarci su questa relazione tra Eucaristia e Chiesa, voglio partire dall’affermazione della Lettera agli Ebrei: «Per questo egli è mediatore di un'alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l'eredità eterna che era stata promessa» (Eb 9, 15).

       In questo versetto due termini sono posti in rilievo, che evidenziano il fondamento del Cristianesimo: quello di “Alleanza nuova” e quello di “Mediatore” riferito a Cristo.

       Il tema dell’Alleanza è fondamentale dal punto di vista della spiritualità. Esso evidenzia il sorgere e lo svilupparsi del rapporto Dio-uomo, che definisce una religiosità consapevolmente vissuta.

       Dio stipula una alleanza di “comunione” con l’umanità finalizzata alla salvezza, alla redenzione piena e definitiva in Cristo.

       L’Alleanza nuova in Cristo è il compimento dell’Alleanza antica istituita con il popolo ebraico e sancita nella Legge donata sul monte Sinai. L’Alleanza nuova ha in Cristo la Legge Nuova dell’Amore.

       La Lettera agli Ebrei privilegia il tema dell’Alleanza sottolineando la mediazione sacerdotale per la remissione del peccato. Cristo è il mediatore della nuova e definitiva alleanza a motivo della sua Obbedienza al Padre, che rende il suo sacrificio l’unico, perfetto e gradito a Dio per la remissione delle colpe degli uomini.

       L’Alleanza in Cristo è, dunque, alleanza di “comunione” nello Spirito, che dà vita. Nel dono dello Spirito, l’Alleanza è impressa nel cuore, per cui la Legge non è più “incisa su pietra” ma viva e edificante nella coscienza del credente. Ciò non significa che la legge divina dei precetti è superflua, ma la legge interiore dello Spirito ne permette l’effettiva realizzazione.

       L’Alleanza nuova in Cristo è perpetuata nel dono dell’Eucaristia, fonte di “comunione” con Dio e con i fratelli.

       La nuova alleanza in Cristo non è una “sterile” osservanza di precetti, ma è una vitale e feconda vita secondo lo Spirito, per generare e vivere l’unione con Dio e con il prossimo.

       L’Eucaristia, fonte di “comunione”, educa ed esige un impegno a costruire relazioni di amore e di vera condivisione, nella libertà e nella carità, frutti dello Spirito.

       L’obbedienza alla Legge nuova in Cristo è una “obbedienza nella libertà” perché la vita secondo la Legge di Dio prorompe dall’energia di un cuore rigenerato e rinnovato da Dio secondo Dio, di una volontà “accordata” alla volontà di Dio.

       Questo “accordo”, dono dello Spirito, per vivere in piena unione ed armonia, è il dono dell’Amore, è “Carità”.

       La vita di comunione con Dio e con i fratelli è una vita di “Libertà nella Carità”. È una vita di dignità del credente, che porta nel cuore la Legge dello Spirito vivendo nell’Allenza nuova del Cristo.

       Nell’obbedienza all’Amore di Cristo, il credente trova la vera libertà e vive di essa in una totale relazione di Amore con Dio e il prossimo. In questa prospettiva, partecipare alla Celebrazione Eucaristica è molto più che espletare un precetto di “Santificare le feste” perché è decisione libera di adesione a Dio e impegno a camminare nell’Amore.

       La vita della Comunità dei credenti, la Chiesa, è segno di questa “vita di comunione” nell’Alleanza nuova di Cristo.

       Se Essa non è luogo di comunione e di vita non è immagine di Cristo e frutto della Alleanza nuova. Là dove non si vive la comunione non c’è lo Spirito e, di conseguenza, non c’è vita di Dio nei suoi membri.

       L’Eucaristia, presenza reale di Cristo, che in questa Solennità adoriamo e lo portiamo per le vie delle città, dei paesi, è fonte di vita di carità. Dall’Eucaristia nasce e si rinnova la Chiesa, chiamata ad essere presenza dell’Amore di Dio nel mondo.

       La Chiesa, nei suoi singoli membri, è chiamata a portare a compimento la legge dell’amore. “Portare a compimento la legge”, concetto ben espresso in San Paolo (Rm 13, Gal 5), è ciò che Cristo ha compiuto («Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento» Mt 5, 17) e che ogni credente è chiamato a fare con la propria vita vivendo nella piena comunione con Dio e i fratelli. La vita di fede è scelta e impegno di “comunione”. Se non generiamo comunione in noi e attorno a noi non viviamo nell’alleanza con Dio in Cristo. La vita di fede in Cristo, per il dono dell’Eucaristia, non è vita sterile ma feconda; non è semplice osservanza di precetti e tradizioni, ma è impegno di libertà nel tessere relazioni di “carità”.

       Dall’Eucaristia troviamo forza per una vita di “carità”, per vivere relazioni di autentica “comunione”, per essere operati di pace e di giustizia nella Verità e nella Carità di Cristo.

       Celebriamo questa solennità rinnovando l’impegno a vivere nella nuova Alleanza in Cristo, in uno stile di vita di “comunione” con Dio e con i fratelli per essere salvati.

Solennità della Santissima Trinità (Anno B) - 2024

“Creati dall’Amore per amare”


 

(Dt 4,32-34.39-40 -Sal 32 - Rm 8,14-17 - Mt 28,16-20)

      

       La Solennità della Santissima Trinità si è celebrata nella Chiesa dapprima come devozione singola di alcune diocesi o comunità monastiche, come nell’ Abbazia di Cluny. Papa Alessandro II (153° Pontefice dal 1061 al 1073), pur rilevando la sua ampia diffusione, non la ritenne obbligatoria per la Chiesa universale. Fu introdotta nella liturgia cattolica nel 1334 da papa Giovanni XXII.

       Per comprendere il significato profondo di questa Solennità lo spiega in modo semplice e profondo Benedetto XVI nell’Angelus del 07 giugno 2009. Egli afferma: «Quest’oggi contempliamo la Santissima Trinità così come ce l’ha fatta conoscere Gesù. Egli ci ha rivelato che Dio è amore “non nell’unità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza” (Prefazio): è Creatore e Padre misericordioso; è Figlio Unigenito, eterna Sapienza incarnata, morto e risorto per noi; è finalmente Spirito Santo che tutto muove, cosmo e storia, verso la piena ricapitolazione finale. Tre Persone che sono un solo Dio perché il Padre è amore, il Figlio è amore, lo Spirito è amore. Dio è tutto e solo amore, amore purissimo, infinito ed eterno. Non vive in una splendida solitudine, ma è piuttosto fonte inesauribile di vita che incessantemente si dona e si comunica. […] Tutto proviene dall’amore, tende all’amore, e si muove spinto dall’amore, naturalmente con gradi diversi di consapevolezza e di libertà. “O Signore, Signore nostro, / quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!” (Sal 8,2) – esclama il salmista. Parlando del “nome” la Bibbia indica Dio stesso, la sua identità più vera; identità che risplende su tutto il creato, dove ogni essere, per il fatto stesso di esserci e per il “tessuto” di cui è fatto, fa riferimento ad un Principio trascendente, alla Vita eterna ed infinita che si dona, in una parola: all’Amore. “In lui – disse san Paolo nell’Areòpago di Atene – viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28). La prova più forte che siamo fatti ad immagine della Trinità è questa: solo l’amore ci rende felici, perché viviamo in relazione per amare e viviamo per essere amati. Usando un’analogia suggerita dalla biologia, diremmo che l’essere umano porta nel proprio “genoma” la traccia profonda della Trinità, di Dio-Amore»[1].

       Queste parole di Benedetto XVI ci stimolano a riflettere sulla nostra vita, su quali valori la fondiamo e come viviamo la nostra fede.

       Nel contesto culturale occidentale in cui viviamo, i valori su cui fondiamo la vita sono sempre meno assoluti. Sebbene restino importanti, come l’amore, la famiglia, l’onesta, il rispetto, cadono in una valutazione relativa alle situazioni e soggettiva a seconda del proprio tornaconto.

      Anche la fede rischia di essere vissuta in modo soggettivo e relativo. Piuttosto che unire divide; più che generare amore e serenità diventa motivo di giudizio e di condanna. Ciò accade non solo per le situazioni più in generale a livello mondiale, divenendo motivo di guerra, ma anche e soprattutto nella quotidianità della vita comunitaria di fede, nelle parrocchie, gruppi e associazioni.

       Se ci soffermiamo a riflettere sullo stile delle comunità di fede, dal modo di vivere le relazioni e la fede nelle parrocchie, nei gruppi laicali, nel presbiterio, nelle comunità religione, possiamo affermare con assoluta certezza che sono realtà in cui si vive l’Amore trinitario?

Purtroppo, la componente che più si evidenzia è la fragilità umana, che offusca la presenza dell’Amore di Dio. Sicuramente la scelta di fede è piena e consapevole, ma la componente umana, fragile e caduca, diventa sempre quella rilevante e predominante. La motivazione spesso è da ricercare nel “dare per scontato che credere sia sufficiente a vivere da credenti”, mentre è sempre necessario e indispensabile vivere un attento e profondo esame di coscienza personale e comunitario per orientare meglio il cammino di fede in Dio.

       La vita del credente è vivere nell’Amore trinitario ed esserne espressione nelle relazioni interpersonali di amore.

      L’impegno del credente deve essere tutto orientato a conservarsi nell’amore trinitario in cui è inserito per il dono del Battesimo ricevuto e vivendo secondo gli insegnamenti del Cristo: «[…] Andate, dunque, e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20).

       La vita di fede è operare nell’amore trinitario generando comunione di vita con i fratelli: la fede si attua nella carità!

       La fede non è semplicemente pratica religiosa, devozione o tradizione di pietà, ma vita di carità, di comunione. Ogni atto di culto trova senso e fondamento nell’amore di Dio ricevuto e accolto, e rimanda ad una vita di amore verso i fratelli, senza la quale ogni preghiera e atto di culto a Dio Trinità perde di significato: «[…] Se dunque tu presenti la tua offerta all'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5, 23-24).

       La preghiera è mozione dello Spirito, è risposta d’amore all’amore ricevuto da Dio: «[…] avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!»» (Rm 8, 15).

       Gesù ci ha insegnato a chiamare Dio “Padre”; ci ha donato lo Spirito che ci fa pregare; ci ha insegnato ad amare e perdonare, liberandoci dalla giustizia farisaica (cfr. Mt 5, 20).

       Gesù ci ha insegnato ad amare senza riserve, superando la logica del “dare ed avere”, amando e perdonando con la stessa gratuità con la quale siamo stati amati e perdonati da Dio.

       Vivendo in questo amore siamo inseriti nella vita in Dio, costituiti dallo Spirito “eredi di Cristo”: «[…] se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8, 17).

       Partecipare alle sofferenze di Cristo, significa amare con la sua misura, perdonare oltre ogni logica, donare sé stessi in una relazione fraterna ponendosi a servizio di carità del prossimo.

       In questa Solennità, in cui celebriamo l’essenza del Dio in cui crediamo, l’Amore, invochiamo il dono dello Spirito perché ravvivi in ciascun battezzato il desiderio e l’impegno a vivere nell’Amore trinitario.

       Invochiamo il dono dell’Amore per vivere nella vera comunione con Dio e con i fratelli chiedendo l’intercessione della Vergine Maria, lei che, come afferma Benedetto XVI all’Angelus del 2009, «nella sua docile umiltà, si è fatta ancella dell’Amore divino: ha accolto la volontà del Padre e ha concepito il Figlio per opera dello Spirito Santo. In Lei l’Onnipotente si è costruito un tempio degno di Lui, e ne ha fatto il modello e l’immagine della Chiesa, mistero e casa di comunione per tutti gli uomini. Ci aiuti Maria, specchio della Trinità Santissima, a crescere nella fede nel mistero trinitario».

[1] https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/angelus/2009/documents/hf_ben-xvi_ang_20090607.html


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