T. di Quaresima 2024
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Quinta Domenica di Quaresima (Anno B) - 2024
“Obbedienza o Sacrificio?”
(Ger 31,31-34 - Sal 50 - Eb 5,7-9 - Gv 12,20-33)
«In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà» (Gv 12, 24-26)
Seguire Gesù e servire Gesù: in questo consiste la vita cristiana! La sequela del Cristo comporta, di conseguenza, il morire a sé stessi, cioè la capacità di anteporre a tutto e ai personali interessi il Cristo e il suo insegnamento.
Amare la propria vita, dice Gesù, significa perderla, perché a servizio del mondo, di ciò che non è secondo Dio, secondo una logica e una prospettiva lontana dal Vangelo.
Sequela e Servizio si possono tradurre in ascolto e obbedienza. Seguire chiede un ascolto attento e consapevole dell’insegnamento di Cristo e servirlo significa, appunto, obbedire, mettere in pratica l’insegnamento ascoltato ed accolto.
La pericope giovannea si conclude con l’affermazione di Gesù: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12, 32).
Il sacrificio di Cristo esprime la forza attrattiva dell’Amore di Dio Padre, che ha sancito la nuova e definitiva alleanza (Ger 31, 31.33) con l’umanità nel dono di obbedienza del Figlio unigenito: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5, 8-9).
La salvezza ci è donata per l’obbedienza alla volontà di Dio e non facendo sacrifici. La novità del cristianesimo è data dalla esclusività di un Dio fatto uomo che non chiede sforzi e sacrifici esteriori, offerte e mortificazioni, ma esige l’obbedienza al suo Amore, al suo insegnamento.
Pregare, celebrare, digiunare ed ogni altra espressione di devozione e culto sono graditi a Dio solo se espressione di una vita obbediente al Cristo, rinnegando ciò che ostacola questa totale donazione: l’egocentrismo, l’ipocrisia, la menzogna, il giudizio e tutto ciò che non genera amore e vita!
«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9, 23; Mc 8, 34; Mt 16, 24).
Prendere la propria croce! Quante volte abbiamo sentito questa affermazione. Quante volte ci siamo sentiti dire, nei momenti difficili, di prova, di malattia, questa frase. Quindi, Dio ci vuole nella sofferenza? Ci chiede sacrifici grandi, pesanti da portare, che ci schiacciano, che ci uccidono? Ma Dio non vuole la felicità dell’uomo?
Chi, di fronte alla prova, al dolore, alla malattia, alla sofferenza di qualsiasi genere, prova gioia, compiacimento?
La lettera agli Ebrei afferma che anche Cristo «offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte» (Eb 5, 7), dunque, anche Lui, nella sua umanità, ha provato fatica, angoscia, paura ed ha invocato il Padre di essere liberato dal patibolo della croce. Solo nella obbedienza ha raggiunto il vero e pieno significato della sua morte, del suo sacrificio d’amore per l’umanità.
Quindi, quale croce siamo chiamati a prendere ogni giorno? Quella della obbedienza alla volontà di Dio, che, a ben riflettere, è molto più impegnativa e onerosa dell’offrire una preghiera o un digiuno.
L’obbedienza è più del sacrificio perché è un impegno su noi stessi di modellare la propria vita, la propria volontà, la propria intelligenza, il proprio cuore su Cristo, che comporta una rinuncia a quei desideri, obiettivi, sentimenti che sono contrari all’Amore di Dio e del prossimo.
La croce di ogni cristiano è l’impegno diuturno a lottare contro il proprio egoismo, i sentimenti negativi, brutti, che nascono nel cuore e ci chiudono a Dio e al prossimo.
Solo quando si è riusciti a prendere la croce dell’obbedienza si potrà accettare la prova, la malattia, le sconfitte e la morte offrendoli a Dio come adesione piena alla sua volontà.
San Paolo ci insegna a “sopportare” le sofferenze che derivano dall’impegno di vivere la fede e di testimoniarla, come partecipazione al sacrificio d’amore del Cristo.
«Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24)
Importante è comprendere che non ci uniamo al sacrificio di Cristo con il nostro sacrificio, ma vivendo l’obbedienza. Paolo lo dice chiaramente quando afferma “do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne”. È nell’unione con Cristo che possiamo vivere la pienezza della fede e raggiungere la salvezza. L’unione con Cristo è data da una vita di obbedienza, di conformazione (concetto paolino) a Cristo per il bene di tutti, della Chiesa, suo corpo.
Il Dio di Gesù Cristo non chiede nulla di eroico e di cruento, nessun sacrificio esteriore, ma esige un costante impegno di obbedienza perché la propria vita sia espressione della appartenenza a Lui, della Carità e della Verità.
Solo nell’unione piena al Cristo la propria offerta sarà gradita al Padre. Nella celebrazione della Messa non offriamo a Dio il pane e il vino, ma la nostra vita unita a quella di Cristo. L’unico e perfetto sacrificio gradito da Dio Padre è quello di Cristo, al quale ciascun battezzato è chiamato ad unirsi per essere salvati, santificati.
La partecipazione alla celebrazione e l’accostarsi all’Eucaristia, perciò, devono essere vissute nella purezza del cuore e dei gesti, cioè in comunione con Dio, senza peccato grave. Pertanto, la vita cristiana è un cammino impegnativo e costante di lotta interiore perché “Cristo cresca e l’Io diminuisca” nella piena obbedienza all’insegnamento di Dio (cfr Gv 3, 30).
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Quarta Domenica di Quaresima – Laetare (Anno B) - 2024
“Fare la verità”
(2Cr 36,14-16.19-23 - Sal 136 - Ef 2,4-10 - Gv 3,14-21)
“Credere in Dio cosa comporta? Cosa occorre “fare” per vivere da credenti?”
Sicuramente ci siamo posti queste domande o qualcuno ci ha posto questi interrogativi.
La risposta più scontata ed immediata che si dà di fronte a tale interrogativo è: “andare a Messa la domenica o almeno a Pasqua e confessarsi almeno una volta l’anno”.
Per i più devoti: “pregare ogni giorno, andare a messa ogni giorno, fare gesti di carità secondo le opere di misericordia corporali e spirituali”.
Risposte esatte, sicuramente, dal punto di vista “cultuale”, ma non necessariamente esaustive se il “fare” non coinvolge “l’essere”.
Nicodemo, l’interlocutore con Gesù della pericope evangelica, si pone lo stesso dubbio esistenziale. Da pio israelita, ben inserito nella fede in Jaweh, si reca da Gesù “di notte”, dice l’evangelista. Questo dettaglio indica la sua ricerca di senso e della fede in Gesù, che riconosce come «venuto da Dio come maestro» (Gv 3, 2), ma a cui non sa come dare l’assenso della fede.
Nicodemo è l’immagine dell’uomo in ricerca, di chi comprende la possibilità di credere in Dio, ma non riesce a comprendere come vivere questa fede.
Gesù risponde alla sua ricerca di senso indicando la necessità di una “rinascita dall’alto” (v. 3), cioè di un vivere nella Luce e un agire nella Verità. Il dialogo si conclude con l’espressione:
«Chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3, 21).
Il credente è chiamato a “fare la verità”. Questa espressione indica il “vivere nel bene”, “vivere nella luce.
Il credente è chiamato a “Fare la verità”, che comporta “conoscere la Verità”.
La “Verità” è il Cristo, come Lui stesso si definisce: «Io sono la Via, la Verità e la Vita» (Gv 14, 6).
“Il fare”, per il cristiano, nasce “dall’essere”. “Si è”, dunque, “si fa”!
Ignace de la Poterie, esperto esegeta del Vangelo di Giovanni, afferma: «La locuzione “Fare la verità” significa accogliere, interiorizzare e assimilare la verità del Cristo, aderire progressivamente a quella verità».
Essere cristiani, dunque, significa incontrare, accogliere e aderire a Cristo, al suo insegnamento, e operare secondo la Verità.
Il “fare” del cristiano è tutto centrato sulla sequela del Cristo, sulla Sua conoscenza, sullo studio della Parola per aderire alla Sua Volontà.
È un “fare” che impegna la vita intera, nelle sue minime sfaccettature, nei singoli momenti ed eventi: tutta la vita deve essere un “fare” su di sé per divenire “conforme” a Cristo, come afferma San Paolo (Rm 8, 29; Fil 3, 10).
La vita cristiana, dunque, è molto più impegnativa del celebrare riti e tradizioni, vivere devozioni, novene, processioni, recitare giaculatorie o preghiere; tutto questo, senza un vivere secondo la Parola, gli insegnamenti di Cristo, rischia di essere privo di senso e valore o, addirittura, diventare motivo di condanna: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli […] Allontanatevi da me, voi che operate l'iniquità!» (Mt 7, 21-23).
L’impegno del cristiano, che deve coinvolgere tutta la sua esistenza, in ogni sua componente, consiste nell’accogliere la Verità.
Per questo “fare la Verità” significa essere disposti a rinunciare a sé stessi, a ciò che non ci permette di “amare come Cristo”: il nostro Io!
La rinuncia al proprio Io è il punto di partenza fondamentale affinché possa compiersi la “rinascita dall’alto”, che Cristo ha indicato a Nicodemo (Gv 3, 3).
La “nascita dall’alto” è dono dello Spirito Santo e avviene solo quando permettiamo a Dio di “abitare” in noi, rinunciando al nostro Io. Lo Spirito Santo ci è donato nel Battesimo, ma occorre che questo dono lo lasciamo operare con la personale adesione.
Il cristiano è il battezzato nello Spirito, che è rinato dalla Grazia di Dio per vivere secondo l’insegnamento di Cristo, nel suo Amore.
Ridurre questa alta condizione del credente ad una sterile, seppur devota, partecipazione a riti e tradizioni, per poi non vivere secondo la Parola di Dio, secondo il suo Amore, non è altro che una religiosità morta.
Aderire a Cristo, rinunciare a sé stessi, al proprio ego, per camminare nella Verità e agire nella Carità: ecco la vera identità del cristiano.
“Fare al verità” significa essere nella società, in ogni momento della quotidianità, presenza vivente e coerente del Cristo, mediante la propria capacità di adesione a Cristo, ma in una costante tensione di crescita e lotta interiore per raggiungere la piena conformità, la piena adesione all’Amore di Dio.
Ecco cosa è la vita cristiana, ecco cosa significa vivere la Quaresima, ecco cosa è necessario per vivere la Pasqua ed essere annunciatori della risurrezione di Cristo.
Chiediamo a Cristo di realizzare in noi tutto ciò, “mortificando” il proprio Io giorno per giorno, per “fare la Verità nella Carità”, che «è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera» (Caritas in Veritate, 1).
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Terza Domenica di Quaresima (Anno B) - 2024
“Essere Tempio vivo dell’Amore”
(Es 20,1-17 - Sal 18 - 1Cor 1,22-25 - Gv 2,13-25)
Nella preghiera di colletta dell’anno B, la Chiesa prega Dio Padre chiedendo di rendere i suoi figli “Tempio vivo” del suo amore.
Essere “Tempio del Signore” è la definizione che meglio chiarisce l’identità del cristiano: credere nel Dio di Gesù Cristo è lasciarsi abitare da Lui, dal suo Amore. Non è dunque un culto esteriore, fatto di sacrifici, di riti e devozioni, ma un culto che si deve esprimere innanzitutto con la propria vita, le proprie scelte, l’adesione piena e convinta alla sua Parola, ai suoi insegnamenti, ai suoi comandamenti, alla sua Legge.
La Legge Nuova, che Cristo ci ha donato, non ha abolito la legge mosaica, ma l’ha portata a compimento, sancendo l’Alleanza Nuova nel suo sangue, nel suo sacrificio sulla Croce.
La presenza di Dio, per il cristianesimo, non è più l’Arca dell’Alleanza, conservata nel Tempio di Gerusalemme, contenente le Tavole della Legge, ma ciascun credente che vive in pienezza la Legge nuova dell’Amore, compimento della Legge del Decalogo.
Il dono della presenza reale del Cristo nella Eucaristia, fa del cristiano, che vive nella piena comunione con Dio, presenza stessa di Dio: questa è la meravigliosa novità del cristianesimo.
Il cristianesimo non è una religione dal culto esteriore, ma interiore: è la vita del credente a dover essere “culto spirituale da offrire a Dio” (Rm 12,1) e, per questo, è “presenza di Dio” nel mondo.
Da qui nasce la domanda di riflessione personale: “Sono Tempio di Dio, sua presenza nel mondo?”.
Per fare una riflessione profonda e rispondere con onestà di coscienza, ci viene in aiuto San Paolo con il brano della seconda Lettura.
«i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza» (1Cor 1, 22).
Il cristiano è chiamato a essere “tempio di Dio” in mezzo a chi “cerca segni” per credere o rifiuta di accettare Dio perché pone tutta la sua adesione su ciò che è razionale, scientificamente dimostrabile. L’affermazione di S. Paolo ci aiuta a descrivere la società attuale e a capire come il credente deve distinguersi: annunciando «Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (v. 23) e riconoscendo che Cristo «è potenza di Dio e sapienza di Dio» (v. 24).
L’annuncio va vissuto prima con “la propria vita”, con uno stile di comportamento che si distingue e si riconosce per la sua piena adesione al Vangelo, e poi con “la parola”, che deve comunicare l’Amore di Dio che ha cambiato la propria vita, dando senso e valore.
Riconoscere Cristo “potenza” e “sapienza” di Dio si traduce nelle scelte di vita e dei valori, che distinguono il credente dalla logica del mondo. Non si tratta di una sterile proclamazione di parola, ma un impegno nella vita del mondo per portare la novità del Vangelo e fare scelte coerenti al Vangelo, che possono portare a dover essere controcorrente, generando avversione e, perfino, persecuzione.
“Essere Tempio vivo dell’Amore” non è, dunque, né scontato né una espressione enfatica, è un impegno che richiede: costante verifica interiore e impegno per aderire al Vangelo; discernimento continuo per scegliere ciò che è secondo Dio.
Essere cristiani non significa, dunque, semplicemente credere in Dio, vivere riti, elevare preghiere, fare atti di devozione.
Essere cristiani significa rinnovare la propria vita in un impegno di conversione costante, perché la Parola di Dio sia la guida e la fonte del vivere nella quotidianità ed essere, per il prossimo, “presenza di Dio”, “Tempio del suo Amore”, affinché mediante ogni persona arrivi a conoscere Dio e ad accoglierlo nella sua vita.
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Seconda Domenica di Quaresima (Anno B) - 2024
“Trasfigurati per la fede”
(Gen 22,1-2.9.10-13.15-18 - Sal 115 - Rm 8,31-34 - Mc 9,2-10)
Quando proviamo a chiedere, soprattutto ai giovani, del perché non credono in Dio, la risposta che maggiormente si riceve è che “Dio non si vede!”.
Hanno ragione! Si, Dio non si vede!
Come si può credere in un Dio che resta nascosto, che pretende di essere accettato e creduto solo perché c’è un testo considerato sacro, ma scritto dagli uomini e che spesso è in netta contraddizione con le affermazioni scientifiche? Oppure come è possibile credere in Lui e nella sua presenza reale in un po’ di farina mescolata ad acqua o in un po’ vino?
Si, hanno ragione, è una cosa assurda, irrazionale!
Non c’è da scandalizzarsi! È proprio così, credere nel Dio rivelato è possibile solo se chi lo ha incontrato ed accolto la Sua Parola lo annuncia con la propria vita.
Hanno ragione perché i cristiani, che dovrebbero essere “Trasfigurati” per la fede che professano, di fatto non sono nella società “presenza di Dio”!
Essere “Trasfigurati”: ecco l’identità del cristiano! Questo significa che la propria vita torva senso e guida nel Signore e nella sua Parola. Quando la vita del credente è tutta orientata secondo l’insegnamento di Dio e vissuta nella consapevolezza di essere destinata alla vita eterna in Dio, diviene “presenza stessa di Dio” nel mondo, è la condizione della “santità” che appartiene di fatto a chi crede perché è abitazione di Dio in sé.
Il brano evangelico della Trasfigurazione evidenzia lo stupore e la paura dei discepoli presenti (Mc 9, 6), ma catturati da ciò a cui stavano assistendo tanto da chiedere di restare perché è “bello” per loro.
La fede è incontrare Dio, imparare a stare alla sua presenza, vivere una relazione personale e profonda. Il termine greco usato dagli evangelisti sinottici è καλόν da καλός, che significa bello, utile, encomiabile, ammirabile, ma anche moralmente buono, nobile, che influenza la mente in modo buono, confortante e confermante.
Pietro, Giacomo e Giovanni hanno vissuto una esperienza che, sebbene abbia generato spavento, timore, ha di fatto toccato le loro vite e l’hanno considerata tanto necessaria da non volerla far finire e desiderando di restare in quella condizione ergendo le tende (Mc 9, 5; Mt 17, 4; Lc 9, 33).
Dovrebbe essere questa l’esperienza del credente che incontra Dio: viverla come bella ed essenziale per la propria vita e impegnarsi a “restare” in quella condizione.
La vita sacramentale è proprio questo! Celebrare i Sacramenti significa entrare in piena comunione con Dio ed essere “trasfigurati” dalla sua Grazia.
Il Battesimo è l’inserimento nella “Gloria di Dio” e ogni giorno il credente dovrebbe tenere presente questa condizione e vivere nella fedeltà al dono di grazia ricevuto.
La Riconciliazione è il “lavacro interiore”, la rigenerazione della propria coscienza mediante l’esperienza della “misericordia di Dio” che Egli dona abbondantemente a chi riconosce il proprio errore e si l’Amore gratuito e fedele di Dio che ha tradito con il suo comportamento.
L’Eucaristia, celebrata e adorata, è il “Tabor” a cui Dio ci chiama per lasciarci “trasfigurare” dalla sua Grazia mediante la sua presenza reale nell’ostia consacrata. L’Eucaristia è l’esperienza del Tabor a cui Cristo ci invita per “ascoltare la Parola” e “vivere la comunione con Lui”. L’Eucaristia è il dono della “trasfigurazione” a cui accostarci con cuore disponibile e puro, con la coscienza libera e vera, con sentimenti di carità e umiltà, liberi da tutto ciò che genera divisione e esclusione.
La vita da trasfigurati, però, non è una condizione da “privilegiati”, ma un dono da “condividere” con il prossimo perché, mediante la testimonianza del cristiano, ad ogni persona sia data la possibilità di vivere l’incontro con Dio ed essere immerso nella Sua Grazia.
L’esperienza del Tabor esige di “scendere dal monte” per vivere nella quotidianità da “trasfigurati”.
Una condizione di vita che si traduce in una esistenza vissuta nella fedeltà all’insegnamento di Dio, alla Verità, sapendo scegliere sempre ciò che è secondo la volontà di Dio, accettando di andare “controcorrente”, di essere “segno di contraddizione” nel mondo, per non conformarsi alla mentalità del mondo e restare fedeli a Dio.
In questa seconda domenica di Quaresima siamo chiamati e riflettere se siamo “trasfigurati” e se sappiamo rinunciare alla mentalità del mondo per vivere la “fedeltà dei Figli di Dio”.
La vita di fede è fedeltà a Dio e cammino nel suo “timore”, cioè consapevolezza del suo Amore per noi e impegno a non tradirlo. Ciò che deve stimolare ogni giorno nel vivere da “trasfigurati” è essere riconosciuti “figli di Dio nel Figlio Gesù” e sentirci dire ciò stato detto al patriarca Abramo: «Ora so che tu temi Dio» (Gn 22, 12).
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Prima Domenica di Quaresima (Anno B) - 2024
“La lotta interiore tra Bene e Male”
(Gen 9,8-15 - Sal 24 - 1Pt 3,18-22 - Mc 1,12-15)
La Prima Domenica di Quaresima ci invita a meditare sulle Tentazioni di Gesù nel deserto.
Questo racconto evidenzia la continua lotta tra il Bene e il Male a cui l’umanità è sottoposta. Gesù, nella sua vera umanità, è tentato come ogni altro essere umano e ci insegna a saper rispondere, così da scegliere il Bene.
Il tema della lotta tra il Bene e il Male è presente in ogni religione fin da quelle primitive, perché è la domanda esistenziale che ogni essere umano si pone: perché esiste il Male e come vincerlo?
Si tratta della lotta interiore che in ogni essere umano avviene tra le tendenze egoistiche e appropriative e la rinuncia ad esse, per una scelta di amore e di vera libertà.
L’umanità da sempre vive in questa lotta, che non sempre riesce a vincerla con la scelta del Bene lasciando spazio alle scelte egoistiche e di potere, di supremazia sul prossimo e di esaltazione di sé in una costante scalata al successo e al potere.
Da qui la domanda, che penso ciascuno si è posto almeno una volta nella vita, del perché Dio, che è infinito Bene, permette tanto male e violenza nel mondo?
La risposta a questa domanda non è oltre di sé, ma è nel profondo di sé, della propria coscienza, del proprio cuore.
Il Male può essere vinto solo se sappiamo fare scelte di amore, di attenzione, di apertura, di condivisione, cioè se sappiamo scegliere di vivere in una relazione di reciprocità e di cooperazione con il prossimo, con l’umanità totale, diversa in ogni individualità, ma uguale per dignità e identità.
Il brano delle Tentazioni di Gesù nel deserto, che nel Vangelo di Marco è soltanto riportato in un solo versetto (Mc 1, 13), esprime la vera umanità di Gesù e l’insegnamento a vincere il Male con una attenta ricerca di ciò che qualifica l’essere umano.
Gesù vince Satana non perché è vero Dio, ma perché come vero uomo sceglie la via dell’Amore e della fedeltà a Dio, al Sommo Bene, a Colui che libera veramente l’uomo rendendolo capace di amare sé stesso e il prossimo nel modo più autentico e libero.
La lotta tra il Bene e il Male è, dunque, la costante tensione interiore tra la ricerca di affermazione di sé e la realizzazione di sé. La differenza tra le due scelte è sottile ma è all’origine di una vita spesa per il Male o per il Bene.
La ricerca di affermazione di sé è la scelta egoistica ed egocentrica in cui non c’è posto né per Dio né per il prossimo. È la radice di ogni male del mondo e della deriva della dignità umana alla ricerca della libertà come autodeterminazione, come autonomia e indipendenza da influenze esterne e diritto di non subire interferenze nella sfera intangibile e privata delle scelte personali.
La realizzazione di sé, invece, è determinata dalla presa di coscienza di ciò che si è, delle proprie attitudini, capacità, desideri, valori e possibilità da spendere in una cooperazione con il prossimo per un arricchimento reciproco e nella ricerca della Verità. La realizzazione di sé è anche affermazione di sé, ma non senza l’affermazione del prossimo, in una costante attenzione a favorire l’interesse, il bene di sé e del prossimo. È la ricerca del Bene non solo personale, ma anche di tutta l’umanità, aperta a scegliere il bene per gli altri a scapito di sé, nella rinuncia al proprio interesse.
Come vincere la lotta scegliendo il Bene? Come essere capaci di scegliere il Bene come realizzazione di sé e non affermazione di sé? Come saper rinunciare alle scelte egoistiche per scegliere ciò che edifica sé stessi e il prossimo contemporaneamente?
La risposta è nella scelta fondamentale che ognuno fa, nella decisione di fondare la propria vita sull’Io o su Dio.
«ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi» (Gn 9, 9-10).
L’esperienza di fede cristiana è adesione all’Alleanza di Amore con Dio, a cui il credente aderisce con l’adesione della volontà, senza altro sforzo e senza alcun aggravio né materiale né spirituale.
L’adesione della fede a Dio è risposta ad una chiamata di Amore da parte di Dio, in cui l’unica rinuncia è all’Io personale, ma nella autentica realizzazione di sé come persona, come essere umano, nella libertà e felicità.
L’Alleanza di Dio è chiamata alla felicità personale data dalla gioia di sentirsi amati da Lui e dalla scelta di vivere relazioni interpersonali fondate ed orientate al Bene, cioè nella Carità e nella Verità.
La lotta tra il Bene e il Male sarà vinta da noi con la vittoria del Bene solo se siamo disposti a fare nostra la logica dell’Amore di Dio e a convertire mente, cuore e volontà lasciandoci guidare dalla Parola di Dio.
«convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1, 15): questo invito di Gesù sia l’impegno continuo affinché la nostra vita di fede sia una piena adesione alla volontà di Dio per vivere nell’Amore, nella felicità e nella libertà dei figli di Dio.