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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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Quinta Domenica di Quaresima (Anno B) - 2024

“Obbedienza o Sacrificio?”


 

(Ger 31,31-34 - Sal 50 - Eb 5,7-9 - Gv 12,20-33)

 

       «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà» (Gv 12, 24-26)

       Seguire Gesù e servire Gesù: in questo consiste la vita cristiana! La sequela del Cristo comporta, di conseguenza, il morire a sé stessi, cioè la capacità di anteporre a tutto e ai personali interessi il Cristo e il suo insegnamento.

       Amare la propria vita, dice Gesù, significa perderla, perché a servizio del mondo, di ciò che non è secondo Dio, secondo una logica e una prospettiva lontana dal Vangelo.

       Sequela e Servizio si possono tradurre in ascolto e obbedienza. Seguire chiede un ascolto attento e consapevole dell’insegnamento di Cristo e servirlo significa, appunto, obbedire, mettere in pratica l’insegnamento ascoltato ed accolto.

       La pericope giovannea si conclude con l’affermazione di Gesù: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12, 32).

       Il sacrificio di Cristo esprime la forza attrattiva dell’Amore di Dio Padre, che ha sancito la nuova e definitiva alleanza (Ger 31, 31.33) con l’umanità nel dono di obbedienza del Figlio unigenito: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5, 8-9).

       La salvezza ci è donata per l’obbedienza alla volontà di Dio e non facendo sacrifici. La novità del cristianesimo è data dalla esclusività di un Dio fatto uomo che non chiede sforzi e sacrifici esteriori, offerte e mortificazioni, ma esige l’obbedienza al suo Amore, al suo insegnamento.

       Pregare, celebrare, digiunare ed ogni altra espressione di devozione e culto sono graditi a Dio solo se espressione di una vita obbediente al Cristo, rinnegando ciò che ostacola questa totale donazione: l’egocentrismo, l’ipocrisia, la menzogna, il giudizio e tutto ciò che non genera amore e vita!

       «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9, 23; Mc 8, 34; Mt 16, 24).

       Prendere la propria croce! Quante volte abbiamo sentito questa affermazione. Quante volte ci siamo sentiti dire, nei momenti difficili, di prova, di malattia, questa frase. Quindi, Dio ci vuole nella sofferenza? Ci chiede sacrifici grandi, pesanti da portare, che ci schiacciano, che ci uccidono? Ma Dio non vuole la felicità dell’uomo?

       Chi, di fronte alla prova, al dolore, alla malattia, alla sofferenza di qualsiasi genere, prova gioia, compiacimento?

       La lettera agli Ebrei afferma che anche Cristo «offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte» (Eb 5, 7), dunque, anche Lui, nella sua umanità, ha provato fatica, angoscia, paura ed ha invocato il Padre di essere liberato dal patibolo della croce. Solo nella obbedienza ha raggiunto il vero e pieno significato della sua morte, del suo sacrificio d’amore per l’umanità.

       Quindi, quale croce siamo chiamati a prendere ogni giorno? Quella della obbedienza alla volontà di Dio, che, a ben riflettere, è molto più impegnativa e onerosa dell’offrire una preghiera o un digiuno.

       L’obbedienza è più del sacrificio perché è un impegno su noi stessi di modellare la propria vita, la propria volontà, la propria intelligenza, il proprio cuore su Cristo, che comporta una rinuncia a quei desideri, obiettivi, sentimenti che sono contrari all’Amore di Dio e del prossimo.

       La croce di ogni cristiano è l’impegno diuturno a lottare contro il proprio egoismo, i sentimenti negativi, brutti, che nascono nel cuore e ci chiudono a Dio e al prossimo.

       Solo quando si è riusciti a prendere la croce dell’obbedienza si potrà accettare la prova, la malattia, le sconfitte e la morte offrendoli a Dio come adesione piena alla sua volontà.

       San Paolo ci insegna a “sopportare” le sofferenze che derivano dall’impegno di vivere la fede e di testimoniarla, come partecipazione al sacrificio d’amore del Cristo.

       «Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24)

       Importante è comprendere che non ci uniamo al sacrificio di Cristo con il nostro sacrificio, ma vivendo l’obbedienza. Paolo lo dice chiaramente quando afferma “do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne”. È nell’unione con Cristo che possiamo vivere la pienezza della fede e raggiungere la salvezza. L’unione con Cristo è data da una vita di obbedienza, di conformazione (concetto paolino) a Cristo per il bene di tutti, della Chiesa, suo corpo.

       Il Dio di Gesù Cristo non chiede nulla di eroico e di cruento, nessun sacrificio esteriore, ma esige un costante impegno di obbedienza perché la propria vita sia espressione della appartenenza a Lui, della Carità e della Verità.

       Solo nell’unione piena al Cristo la propria offerta sarà gradita al Padre. Nella celebrazione della Messa non offriamo a Dio il pane e il vino, ma la nostra vita unita a quella di Cristo. L’unico e perfetto sacrificio gradito da Dio Padre è quello di Cristo, al quale ciascun battezzato è chiamato ad unirsi per essere salvati, santificati.

       La partecipazione alla celebrazione e l’accostarsi all’Eucaristia, perciò, devono essere vissute nella purezza del cuore e dei gesti, cioè in comunione con Dio, senza peccato grave. Pertanto, la vita cristiana è un cammino impegnativo e costante di lotta interiore perché “Cristo cresca e l’Io diminuisca” nella piena obbedienza all’insegnamento di Dio (cfr Gv 3, 30).


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