XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021
“Riconoscere Cristo - professarsi cristiani”
(Is 50,5-9 - Sal 114 - Giac 2,14-18 - Mc 8,27-35)
«La gente, chi dice che io sia?» «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mc 8, 27.29)
Se ponessimo oggi, nel 2021, queste domande quale sarebbe la risposta? I credenti cosa risponderebbero? Sarebbero veramente consapevoli della risposta data?
Credo sia necessario partire da queste domande per riflettere sulla Parola di Dio di questa liturgia domenicale, non tanto per fare un’indagine sociologica o un censimento della percentuale di credenti e non nella nostra società e meno che mai addurre critiche o puntare il dito su chi o cosa non porta a credere oggi.
Ritengo sia necessario partire da queste domande perché non solo interpellano personalmente, ma anche rimandano alla responsabilità che ciascun credente ha di professare con coraggio, determinazione, verità e radicalità la propria fede, consapevole che questo porta a condividere la stessa sorte di Cristo Signore.
Il battezzato, alla domanda posta da Gesù, ritiene scontato rispondere come Pietro: “Tu sei il Cristo!”. La risposta deriva dalla conoscenza catechetica o dalla esperienza e relazione vitale con Cristo?
Dire che Gesù è il Cristo significa riconoscere che Egli è Dio, il Salvatore, Colui che ha rivelato il volto del Padre, che ha indicato la Via da seguire per vivere in piena comunione con Dio.
Rispondere che Gesù è il Cristo comporta aver intrapreso il cammino di conversione personale verso la piena maturità di fede, lasciando a Cristo il primato sulla propria vita, accogliendo la sua Parola come guida, luce, verità da seguire.
Riconoscere Gesù come il Cristo significa che tutto è sottoposto al suo giudizio e tutto è illuminato da Lui, Verità, Vita e Via.
Rispondere che Gesù è il Cristo significa professare la propria fede in Lui e camminare secondo la sua Legge, rinunciando a tutto ciò che non è secondo il Vangelo: «Avete inteso che fu detto … Ma io vi dico … Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Mt 5, 21-37).
Riconoscere Gesù come il Cristo non si può limitare a dirlo, professarlo con le labbra: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7, 21); richiede una conoscenza profonda, una disponibilità d’animo e una obbedienza consapevole e razionale.
Gli stessi discepoli, cresciuti nella fede ebraica, osservanti della Legge, non comprendono subito e completamente cosa significhi che Gesù è il Cristo, infatti Pietro, dopo averlo professato, lo rimprovera per il suo discorso sulla passione perché non è secondo quello che rappresentava secondo quanto si aspettavano i giudei: una messianicità di carattere politico.
Anche oggi si può rischiare di ridurre la messianicità di Cristo ad una questione di interesse personale, ritenendo che debba rispondere alle richieste espresse, fare i miracoli che si aspettano o desiderino, oppure ad una questione di carattere socio-politico, pensando che sia un “giustiziere”, che debba intervenire per punire o debellare situazioni, restaurare una “moralità” fatta piuttosto di norme che di sequela.
Questo tipo di visioni e riduzioni della messianicità sono redarguite da Cristo con la stessa espressione rivolta a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8, 33).
La Chiesa, pertanto, non è chiamata ad un dominio politico, bensì la sua missione è di testimoniare in favore dell’amore e della volontà di pace, in una inesorabile sequela del Cristo crocifisso.
A questa sequela Gesù richiama con il discorso che fa subito dopo la risposta di Pietro sulla sua persona e le espressioni successive rivolte alla folla e ai discepoli da parte del Cristo, impegnano ogni singolo battezzato, nella diversità di carismi e ministeri.
«Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8, 34-35).
Gesù insegna che se si vuole essere suoi discepoli, vivere una sequela autentica, bisogna essere pronti a vivere come Lui, disposti a dare tutto di sé per il Regno di Dio.
L’imperativo aoristo ἀπαρνησάσθω ἑαυτὸν (rinneghi sé stessi) risulta ostico soprattutto per l’uomo moderno e difficilmente si comprende il senso. Il termine ἀπαρνησάσθω, dal verbo ἀπαρνέομαι (aparneomai), significa dimenticare sé stesso, perdere di vista sé stesso e i propri interessi, per fare propri quelli di Dio, di Cristo. Non significa annientarsi, annichilirsi, ma trovare senso per sé nell’insegnamento di Cristo. Il soggetto non annulla sé stesso, ma si realizza nella relazione con Cristo, facendo suoi i desideri, il volere e la modalità di essere e di amare insegnati da Cristo. Significa, in sostanza, rinunciare ad una logica egoistica, di amore possessivo, di interesse tutto rivolto a sé stesso e alla propria affermazione, per assumere la prospettiva di Cristo, il suo modo di amare, la sua donazione totale per la salvezza di tutti: in una parola significa “amore agapico”!
Da qui si comprende il senso del “prendere la croce”, che indica “amare senza riserve”, “donarsi”, vivere nella piena “obbedienza d’amore” alla volontà del Padre, “vivere da veri figli di Dio”.
L’espressione conclusiva “salvare o perdere la vita” si comprende nella visione della sequela e del “rinnegare sé stessi”, perché chi si preoccupa unicamente di affermare il proprio io e di salvarsi amando sé stesso, perderà questa sua vita fallendo la meta a cui tende. Chi, invece, vive pienamente la sequela di Cristo preferendola alla logica di affermazione terrena e vive la sua vita nella carità, raggiungerà la piena realizzazione della vita: la salvezza!
Da qui si comprende che essere cristiani richiede un continuo confronto con il Cristo per comprendere se si sta vivendo la giusta sequela. Non basta essere battezzati, consacrati, presbiteri, vescovi per vivere la vera sequela, ma occorre essere pienamente innestati in Cristo, vivere della sua carità.
Come Pietro ogni credente, nella diversità di ministeri e mansioni, si può correre il rischio di fare la parte di “Satana”, cioè di non pensare come Dio, di opporsi alla sua volontà, preferendo l’interesse e l’affermazione personale.
Si comprende così l’espressione dell’apostolo Giacomo: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Giac 2, 18); la fede esige opere secondo l’amore di Dio. Professare la propria fede in Dio e vivere in modo egoistico, cercando la propria affermazione, usando la fede per affermare sé stessi è contrario alla sequela del Cristo crocifisso.
Una fede senza opere di carità, senza attenzione e amore verso il prossimo, è vuota e produce morte, divisione, non è secondo Dio, ma secondo Satana.
Essere credenti e vivere senza carità, non riuscendo a perdonare, creando divisione e seminando zizzania, significa operare secondo il male e non secondo Dio.
Vivere un ministero, un ruolo nella comunità come un prestigio e non come un servizio, non potrà mai generare vita di fede, ma divisione, dispersione, dolore e morte spirituale.
«A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo?» (Giac 2, 14).
La salvezza viene da Cristo crocifisso, per riceverla occorre lasciare che l’amore di Cristo sia la ragione del proprio agire, la modalità di discernimento e di giudizio. Per questo occorre, come dice Giovanni il Battista: «Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3, 30).