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La Luce Negli Occhi

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XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“La fede: un cammino di crescita interiore”


 

(Sap 1,13-15; 2,23-24 - Sal 29 - 2Cor 8,7.9.13-15 - Mc 5,21-43)

 

       In vari momenti della giornata o in determinate circostanze in cui mi ritrovo a fare i conti con il mio carattere e i miei limiti, mi domando: «Ho veramente fede? Quanto la fede determina la mia vita?». La risposta, che in coscienza mi do, è che, sebbene possa affermare di avere fede, non sempre lascio che essa determini realmente la mia vita.

       Perché? È il conflitto interiore di ogni essere umano tra la sua autonomia e la felice esperienza dell’amore di Dio: un conflitto a cui neanche i Santi sono stati esenti, ma che hanno risolto riuscendo a far vincere l’amore di Dio sul proprio egoismo e bisogno di autonomia, attraverso un costante lavoro interiore.

       La fede, dunque, richiede un continuo impegno e lavoro interiore, perché si arrivi all’abbandono all’amore di Dio.

       Il brano evangelico di Marco, contenente il miracolo della guarigione della emorroissa e della risurrezione della figlia di Giairo, permette di capire quanto la fede viene in aiuto alla caducità e alla piena realizzazione di sé.

       L’evangelista pone in risalto alcuni particolari nel raccontare questi miracoli, e su due vi invito a porre attenzione: il primo è la fede che permette di ottenere da Gesù il dono sperato; il secondo è espresso con il particolare dell’età della fanciulla e gli anni di malattia della emorroissa che coincidono.

        Gesù invita il capo della sinagoga, Giairo, ad avere fede, a non dubitare: questo invito rimanda al dubbio e alla paura dei discepoli durante la tempesta e insegna che la fede è fiducia, abbandono, certezza che Dio non ritira la sua promessa.

        L’emorroissa è elogiata da Gesù per la sua fede, che le ha permesso di vincere la paura, farsi spazio tra la calca della folla e toccare il mantello, certa di poter così ottenere la guarigione, che finora nessun medico era riuscito a darle.

        La fede, a cui il brano evangelico richiama, è la convinzione che Dio agisce nella storia umana attraverso il suo Figlio Gesù, per l’amore che ha per l’umanità e chiamandola alla liberante esperienza del suo amore.

        Giairo e l’emorroissa non conoscono Gesù come il Figlio di Dio, ma sanno che Egli è Maestro e compie miracoli, guarigioni. Si affidano con fiducia. Il verbo σζω (sôizô) significa sia “salvare”, che “guarire”. L’Evangelista vuole far capire che non si tratta semplicemente di una guarigione fisica, ma della “salvezza”, come dono della vita che viene da Dio.

       Il miracolo, ottenuto per la fede di Giairo e della emorroissa, è da intendere, dunque, come la novità di vita che la fede genera, la liberazione dalle strettoie dell’egoismo, del peccato, della caducità.

        La liberazione dalla malattia per l’emorroissa significa il tornare alla vita sociale, la ripresa della propria identità, il non essere emarginata, considerata immonda. La fede genera il cambiamento di prospettiva e apre l’orizzonte e la visuale a valori alti, oltre la materialità e gli interessi terreni.

       La risurrezione della figlia di Giairo indica la vita nuova che la fede genera, che non conosce più la morte generata dal male, dall’egoismo, dalla cattiveria, dal potere, dall’ingiustizia. Una vita nuova contrassegnata dalla “libertà” donata dalla Verità che è Cristo.

       Da dodici anni la donna era prigioniera della sua malattia; dodici anni aveva la figlia di Giairo: questa coincidenza, forse debitamente voluto dall’evangelista, sta ad indicare la caducità, la precarietà, la debolezza della vita dell’uomo, che solo Gesù può definitivamente togliere. Il numero 12, nella simbologia biblica, indica la totalità e rappresenta il numero dell'elezione, quello del popolo di Dio. Gesù ci inserisce nella condizione piena di eletti, di figli di Dio. La fede in Lui ci permette di vivere nella condizione di santità, di comunione con Dio, per la quale Egli ha dato sé stesso per noi, in una relazione spirituale con Dio di dialogo, di ascolto, di opere secondo la sua volontà.

       La fede ci salva e ci inserisce nel popolo di Dio, nella moltitudine di salvati che “hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello” (Ap 7, 14).

       Abbiamo tante volte bisogno di “toccare”, come l’emorroissa, come Tommaso, ma questa esigenza deve esprimere il vero significato della fede: cioè il contatto personale con Gesù, da cui ricevere il dono che riabilita e fa rinascere. Non deve essere un “toccare” magico, un amuleto, come spesso si riduce nella espressione della pietà popolare.

       Toccare Gesù in una relazione personale deve essere un cammino costante e quotidiano fatto di ascolto, meditazione, revisione, impegno, preghiera, abbandono, e soprattutto riconoscere in umiltà la propria fragilità, il proprio peccato.

       La fede, a cui siamo invitati da Gesù a vivere e conservarci, deve essere la forza per saper “guardare in alto”, saper superare il proprio limite, trovare il senso al proprio esistere, che è molto oltre il potere e l’avere, come invece il mondo vuole che viviamo.

       La fede ci permette di fissare l’attenzione su ciò che siamo e ci indica la bellezza dell’essere figli amati di Dio, che «[…] non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. […] Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura» (Sap. 1,13.2,23).

       La fede è un cammino di crescita interiore: inizia con la consapevolezza della propria pochezza e la fiducia nell’amore di Dio, che si è rivelato in pienezza in Gesù; diviene un incontro personale con Gesù, un dialogo che ci rapporta a Lui e crea un legame che dà accesso alla conoscenza del mistero della sua persona e genera fiducia e abbandono alla sua volontà; raggiunge il livello alto nell’affidarsi totalmente all’amore fedele di Dio, che è la vita in Dio, la santità, intesa non come perfezione personale, ma come abitazione di Colui che è Perfetto in noi.

       Desiderando di crescere in questo cammino di fede, impegnarsi nella relazione con Cristo, perché tutto l’essere sia rigenerato dall’amore di Dio, consapevoli del proprio limite e fragilità, ciascuno trovi sprono nelle parole di San Paolo, tenendo sempre fisso lo sguardo su Colui che ci ama e ha dato sé stesso per tutti noi: «[…] quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3, 7-14).


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