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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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VI Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

“ADIRARSI PER IL MALE, TENDERE LA MANO PER ACCOGLIERE LA PERSONA”


 

(Lv 13,1-2.45-46; Sal 31; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45)

 

        «Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1Cor 10, 31).

         L’espressione di Paolo esprime la finalità dell’agire cristiano: la gloria a Dio e il bene del prossimo.

       Dare gloria a Dio non consiste, quindi, in una pratica rituale o nell’offerta di sacrifici, ma nell’agire conforme alla fede, imitando Cristo. Dare gloria di Dio significa vivere nella sua volontà, nel suo amore e nell’obbedienza alla sua Parola.

       La conseguenza di ciò è il cercare il bene del prossimo, evitando innanzitutto lo scandalo, cioè rispettando la coscienza dell’altro e operando per il suo bene.

         Nel capitolo 10 della Prima ai Corinti, Paolo esorta proprio al rispetto della coscienza del prossimo a cui il cristiano, per la fede in Cristo e nella sua libertà di coscienza, deve fare attenzione.

       Dare gloria a Dio significa, quindi, vivere il rispetto e l’attenzione al prossimo, operando cercando sempre il suo bene: sforzandosi di piacere a tutti in tutto, senza cercare il personale interesse ma quello di molti (cfr v. 33). Tutto questo porta ad evitare lo scandalo, cioè ciò che pone inciampo nel cammino di fede, che fa allontanare da Dio, che non permette di incontrarlo attraverso la nostra testimonianza, che non accoglie e inserisce nella comunione vera di fede nella Chiesa.

        Per operare dando gloria a Dio e per il bene del prossimo occorre accogliere senza giudicare, conoscere per indirizzare, istruire con amore per accompagnare nella fede.

       Il brano evangelico di Marco ci aiuta ad approfondire questo concetto presentandoci Gesù che “tocca” colui che è affetto dal male, dalla lebbra.  

       «Secondo la concezione ebraica, la lebbra era una “primogenita della morte” (Gb 18, 13). Chi veniva segnato da questa malattia doveva tenersi separato dagli altri e non poteva avvicinarsi a nessuno»[1].

        Gesù non giudica il lebbroso, ma tende la mano e lo libera dalla sua piaga, dal male, dalla malattia.

       Gesù lo accoglie, lo guarisce e lo invia al sacerdote e gli impone il silenzio. Non vuole essere conosciuto come un taumaturgo, ma le sue opere non possono essere taciute, perché la sua azione non si limita a guarire ma ridona dignità, libera e inserisce di nuovo nella comunità.

       Nella traduzione della CEI leggiamo che Gesù ha compassione di lui: σπλαγχνισθεὶς «Ne ebbe compassione», da σπλαγχνίζομαι (splagchnizomai) essere commosso nelle viscere, essere commosso con compassione, avere compassione. In un codice del NT il verbo usato è ὀργισθεὶς – adiratosi, da ὀργίζομαι (adirarsi). Questo verbo non sta ad indicare l’ira di Gesù di fronte al lebbroso che lo implora e gli chiede la guarigione, ma l’ira di fronte al male, allo stato di sofferenza e d’isolamento in cui giaceva il lebbroso.

       Dovrebbe essere la stessa nostra reazione di fronte alle tante situazioni di emarginazione, di giudizio, di sfruttamento, di ingiustizia nelle quali vivono tante persone.

    Dovrebbe essere la nostra stessa reazione di fronte al giudizio che spesso viviamo come cristiani verso il prossimo giudicandolo, allontanandolo dalla comunità.

       Gesù ci insegna ad accogliere l’altro nella sua condizione, perché la persona è sempre più del suo limite, del suo peccato, della condizione in cui vive, fosse anche la più aberrante e pericolosa.

       Di fronte al prossimo bisogna sempre porsi con rispetto e accoglienza, pronti a “stendere la mano” per rialzarlo dalla sua condizione, per accoglierlo, per ascoltarlo, per amarlo.

       L’evangelista Marco ci invita a soffermarci anche sull’effetto della grazia in colui che l’accoglie. Il lebbroso guarito diventa annunciatore al punto che tutti coloro che lo ascoltano si pongono alla ricerca di Gesù. Il lebbroso non è biasimato, diventa annunciatore, pienamente reinserito nella comunità.

      Spesso nei cristiani assistiamo invece al contrario di fronte a chi si ravvede e si riaccosta alla fede. Riscontriamo giudizi e chiusure, condanne e allontanamenti proprio nelle comunità, in coloro che maggiormente frequentano e sono impegnati nelle parrocchie.

      Il cristiano è figlio della resurrezione e quindi non può permettere che nessuno viva ai margini, lontano dalla grazia di Dio, escluso dall’amore. Il cristiano che vive dell’Eucaristia, del dono della libertà dei figli di Dio per la passione, morte e resurrezione di Cristo, non può chiudere mai il proprio cuore, escludere qualcuno e considerarlo indegno dell’amore di Dio.

        Cristo si adira di fronte alla condizione di emarginazione e male e noi suoi seguaci non possiamo cadere nella condizione di porre l’altro ai margini. Siamo chiamati a “tendere la mano”, a “toccare” la sofferenza dell’altro e ad offrire la nostra testimonianza di fede, accogliendo, ascoltando, operando perché il prossimo sia rialzato dalla sua condizione e rispettato nella sua dignità di persona.

        «(Adiratosi) Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”» (Mc 1, 41).

“Signore Gesù,

come il lebbroso, ti chiedo di guarirmi,

di mondarmi nel profondo della mia coscienza,

affinché allontani da me

ogni forma di giudizio e di discriminazione

a cui spesso cedo dimenticando

di essere tuo discepolo.

 

Fa che sappia essere testimone credibile,

capace di accogliere senza giudicare,

consigliare senza imporre la mia opinione,

sostenere senza legare a me,

aiutare senza pretendere riconoscenza.

 

Insegnami a rispettare sempre la dignità della persona,

guardando nel prossimo la tua presenza,

riconoscendolo come fratello,

figlio di Dio Padre.

Amen!”

 

[1] R. Schnackenburg, Vangelo secondo Marco, Città Nuova, Roma 2002, p.49.


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