XIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
“La croce come obbedienza all’amore”
(2Re 4,8-11.14-16; Sal 88; Rm 6,3-4.8-11; Mt 10,37-42)
Chi non ha mai sentito questa espressione: “Cosa ho fatto di male per meritare questo da Dio?”. Emerge una idea di Dio tiranno, vendicatore o almeno che gode nel vedere gli uomini soffrire.
Certamente non è questo il Dio cristiano! Egli non è di vendetta, né di condanna, ma di misericordia e di amore. Nell’Antico Testamento, molte volte letto in modo sbagliato, Dio è sempre di misericordia e di giustizia, anche quando viene presentato come giudice che punisce, non è mai per la distruzione dell’uomo. Prima del castigo, esorta alla conversione e indica il cammino da compiere. Solo di fronte alla caparbietà e durezza di cuore dell’uomo, Dio punisce per richiamarlo alla verità e alla fedeltà all’alleanza.
Dio ci ha chiamati alla verità e all’amore. L’alleanza che Dio ha fatto e definitivamente sancito nell’offerta sacrificale del Figlio, è di amore e fedeltà. Dio non verrà mai meno a questa alleanza, altrimenti contraddirebbe sé stesso.
L’alleanza nel sangue di Cristo, nella sua croce, è eterna e definitiva. Nonostante la miseria e fragilità, l’umanità può vivere nell’alleanza per il “Si definitivo in Cristo”, per la sua “obbedienza” nella quale tutti noi siamo inseriti per la fede.
L’espressione: «chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10, 38) non deve essere interpretata come una chiamata alla sofferenza. Prendere la propria croce significa vivere nell’obbedienza di Cristo e vivere la vita da credenti, attuando nella routine della esistenza e nelle situazioni concrete il Vangelo.
Prendere la propria croce è dire il proprio “Si” a Dio, non con opere straordinarie o con sofferenze cruente, ma essendo sé stessi senza mai dimenticare di essere figli suoi, quindi vivendo nella verità e nella carità.
Da questo comprendiamo il seguito del discorso di Gesù nella pericope evangelica: «Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà» (Mt 10, 38). Chi pensa di vivere la propria vita in modo egocentrico, cercando solo il proprio interesse e la personale affermazione, perderà di fatto sé stesso, perché non avrà vissuto nella relazione di fede e l’essere figlio di Dio.
Ovviamente questo discorso è valido se la persona crede e vuole vivere la fede. La relazione con Dio non è, quindi, qualcosa di marginale o legato alla pratica di culto, ma essenziale e costitutiva della propria vita, determinando ogni cosa della sua esistenza.
Il Battesimo che abbiamo ricevuto, ci ricorda San Paolo nella Lettera ai Romani, ci ha inseriti in Cristo e, perciò, viventi in Lui.
Chiamarsi cristiani ed esserlo implica centrare la propria esistenza in Lui, rendere tutto relativo a Lui, valutare tutto in funzione di Lui.
La vita quotidiana, nella sua specificità personale e nella differenza di ruolo e responsabilità nella società, trova nella fede non un ostacolo, ma una diversa angolatura e prospettiva di valutazione.
Tutto conta, tutto serve, tutto è lecito, ma se non è contro l’appartenere a Cristo, se non conduce alla separazione da Lui perché opposto al suo insegnamento.
In questa prospettiva comprendiamo il fondamento della morale cristiana e perché è in contrasto con alcune correnti di pensiero.
La morale cristiana è fondata su una persona, Cristo, e indica la modalità della sequela. Non si basa sull’uomo, ma indica ciò che permette all’uomo di essere veramente umano, sé stesso!
Il peccato non è “trasgressione della legge”, ma “tradimento dell’amore”, di cui la Legge indica la modalità per vivere in pienezza l’amore di Dio.
L’espressione di San Paolo: «voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6, 11), indica la specificità del cristiano, che vive ogni cosa in riferimento a Dio, in Cristo. Amati e redenti da Cristo, non possiamo accontentarci di evitare di compiere il male, ma dobbiamo impegnarci a fare il massimo possibile che riusciamo a comprendere in ogni occasione di vita.
“Vivere in Dio” è accettare la misura alta della “santità”, cioè di cercare e operare il bene, anche se questo possa voler dire rinunciare a sé stessi. Ecco cosa significa “prendere la croce ogni giorno” e “perdere la vita per Cristo”: vuol dire anteporre al proprio interesse e tornaconto il bene comune, a volte il bene per gli altri a scapito di quello personale.
Significa vivere “l’agape” rinunciando “all’eros”, cioè vivere l’amore di donazione rinunciando all’amore per sé stessi.
In questa prospettiva diventa chiara l’espressione di Gesù: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me» (Mt 10, 37). Gesù non dice di non amare i propri genitori, figli, sposi, amici, ma di amarli in Lui. In questo modo le relazioni umane non saranno minate da interessi e tornaconti, ma guidate dalla verità, giustizia e carità secondo l’insegnamento evangelico.
Ogni giorno rinnoviamo davanti a Dio, nella preghiera, la volontà di camminare nella verità e operare nella carità. Le promesse battesimali, di vivere da figli di Dio, vanno realizzate nelle relazioni quotidiane e nella operatività responsabile di ciascuno.
Consapevoli di questa alta vocazione che ci appartiene per la fede che professiamo, impegniamoci a “prendere ogni giorno la nostra croce”, fatta di obbedienza all’amore e di opere di agape, dando senso ad ogni momento della vita, sia bello che brutto, gioioso o triste, vivendolo come “Si a Dio” uniti al “Si di Cristo”.
In questa logica lo slogan «I can» assume la corretta espressione: «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4, 13).