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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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IV DOMENICA DI PASQUA (ANNO A) - 2023

“La vita da redenti”


 

(At 2,14.36-41 - Sal 22 - 1Pt 2,20-25 - Gv 10,1-10)

 

       «[…] io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10).

       Nella comprensione comune il termine vita indica lo spazio temporale tra la nascita e la morte.

       La cultura materialista, che si è precisata con l’affermazione della rivoluzione scientifica dei secoli 17° e 18°, che ha fornito un saldo fondamento teorico all’opera di scristianizzazione e secolarizzazione intrapresa dal pensiero laico, riduce il concetto di vita alla somma di esperienze dimostrabili.

       Il senso e il fine della vita sono ridotti ai momenti concreti che si vivono, alle occasioni che si susseguono e che occorre saper cogliere al momento giusto.

       La vita, essendo compresa come un susseguirsi di azioni e momenti che ognuno determina e sceglie, è sottoposta ad un “karma” che si ripete fino a quando il soggetto non dimostra di aver imparato quello che deve fare per creare un futuro diverso, quindi, un “destino” inteso come il complesso di situazioni che l’uomo si crea mediante il suo operato.

       Questa concezione del termine vita, sempre più comune nella cultura odierna, è lontana dalla concezione cristiana.

       L’affermazione di Gesù, di essere venuto per dare la vita e in abbondanza, risulta incomprensibile dalla mentalità comune di oggi, pertanto, è compito del credente darne ragione e visibilità con la propria esistenza.

       Questa frase mostra il fine della venuta del Cristo: donare la vita all’umanità!

       Il Verbo, Gesù il Cristo, non è venuto per condannare il mondo, ma per salvarlo (Gv 12, 47; 1Gv 4, 14).

       La salvezza è il dono della vita eterna in Dio, che si ottiene mediante la fede nel Cristo, aderendo alla sua persona e attuando la sua Parola nella propria vita.

       Il dono della vita da parte di Gesù è, dunque, la visione piena e completa del senso del vivere.

       La vita che Gesù dona è una vita secondo il suo insegnamento; è una vita da vivere nella prospettiva del suo Amore.

       Gesù apre la vita dell’uomo alla reciprocità vera con il prossimo e la libera da tutto quello che la chiude in una comprensione egoista e individualista.

       La vita dell’umanità, accogliendo Gesù Via, Verità e Vita (Gv14, 6), non si estranea dalla materialità e dalle vicende quotidiane con il loro carico di fatica, errore e dolore, ma assume una visione e una prospettiva “oltre” la materialità e caducità.

       Diventa una vita capace di dare un senso nuovo alle vicende dell’umanità.

       La vita che Gesù dona in abbondanza è, quindi, carica di valori che permettono un discernimento della storia e un agire nel Bene che edifica, facendo propri gli insegnamenti del Vangelo.

      

       Il battezzato, che professa la sua fede nel Cristo, è chiamato a portare nel mondo questa novità di vita con il suo agire.

       La responsabilità del battezzato è quella di essere “sale e luce” (Mt 5, 13-16) per il mondo con la propria vita rigenerata dal Cristo per il dono della Grazia ricevuta nel Battesimo.

      

         «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10, 9).

         Gesù si definisce la “porta” ponendosi, così, come l’unica Via per la quale conoscere veramente Dio e poter dare a Lui culto.

       La porta del Tempio era il simbolo fondamentale, per la cultura giudaica, dell’incontro con Dio. Attraversando la porta del Tempio si entrava in stretto contatto con Dio.

      Gesù si presenta come la porta per la quale arrivare alla piena comunione con il Padre, mediante l’ascolto della sua Parola, del suo insegnamento.

        Gesù il Cristo e Signore è l’unico vero Mediatore con il Padre per l’umanità. È l’unico che permette all’umanità di accostarsi a Dio e trovare vita. Per il Cristo l’umanità può vivere la relazione con Dio e stare alla sua presenza; può vivere una relazione da figli di Dio nel Figlio!

       L’unico vero culto gradito a Dio, che dona vita all’umanità, è il Cristo! Un sacrificio non esteriore all’uomo, perché vivendo appieno secondo la Sua Parola, ogni battezzato diventa offerta al Padre “con Cristo, per Cristo e in Cristo”, come si proclama nella Dossologia.

      Ogni credente in Cristo è chiamato a vivere la sua vita in questa unione con il Verbo incarnato, ad operare nel suo Amore e discernere il quotidiano con la Verità del suo insegnamento, così facendo “entrerà” nella comunione con il Padre e “riceverà in dono” la vita nuova dei redenti dal Cristo.

III DOMENICA DI PASQUA (ANNO A) – 2023

“Ascolto che tocca il cuore”


 

(At 2,14.22-33 - Sal 15 - 1Pt 1,17-21 - Lc 24,13-35)

 

       «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24, 32).

       L’esperienza dei discepoli di Emmaus è emblema della esperienza che dovrebbe fare ogni persona che incontra un cristiano.

       L’annuncio del Kerygma, la testimonianza della fede, deve fare ardere il cuore, cioè deve far comprendere quanto l’incontro con il Cristo ha trasformato la vita del credente.

       In questa domenica, quindi, è questa la domanda che ogni battezzato, nella diversità di carismi e ministeri che vive, deve porsi: “Chi mi incontra, chi mi sente parlare della fede, percepisce quanto l’incontro con Cristo ha cambiato la mia vita?”.

      

       L’obiezione mossa da chi è lontano dalla fede e, in particolare, dai giovani è che quanto riportato dai testi sacri, i miracoli e tutto quanto concerne la fede non trovano riscontro nella vita, non viene dimostrato, ma risultano cose assurde e non credibili dalla ragione.

      

       Sono affermazioni che spesso nascono dalla non conoscenza della Parola, dal non aver ricevuto un annuncio autentico del kerygma.

       Spesso nella catechesi, nell’insegnamento e nella predicazione non si fa la corretta esegesi della Parola.

       Le omelie non sempre toccano il cuore!

      

       Quanta conoscenza c’è della Parola di Dio?

       Se la Parola non è letta, pregata, studiata non può essere trasmessa in modo credibile!

       L’annuncio della Parola richiede conoscenza approfondita altrimenti non si trasmette la fede, ma una religiosità senza senso.

      

       La Chiesa è la comunità dei credenti, ma come è intesa da chi è lontano dalla fede e, purtroppo, anche da chi crede?

       Come un luogo di potere dei ministri; un luogo dove non si vive una vera fraternità e accoglienza.

       I giudizi sulla Chiesa e sui credenti sono spietati, ma spesso fondati e frutto di esperienze vissute.

       Sono ferite che dovrebbero stimolare a rivedere in che modo si vive da cristiani.

       Le accuse mosse alla Chiesa, ai ministri e ai singoli fedeli deve essere uno sprono ad una seria e profonda riflessione e ad un esame di coscienza comunitario.

      

       Una fede che fa parte della tradizione o di usi e costumi di un popolo non coinvolge e, per la cultura odierna, è considerata inutile e senza senso.

       La fede va annunciata con la vita, cioè deve essere ascolto della Parola che cambia lo stile di vita.

       Vivere la fede è ascolto che tocca il cuore!

II DOMENICA DI PASQUA o della Divina Misericordia (ANNO A) - 2023

“Vivere la Gioia della fede”


 

(At 2,42-47 - Sal 117 - 1Pt 1,3-9 - Gv 20,19-31)

 

       «Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”» (Gv 20, 21-23).

       Oggi molte parole che appartengono al linguaggio della fede hanno perso di significato, o meglio non hanno più la stessa valenza perché, oltre ad aver smarrito Dio, l’uomo contemporaneo ha perso l’identità della coscienza, ridotta al massimo ad un flebile senso di colpa, e svuotato di senso la categoria di peccato, perché l’unico criterio di valutazione e di giudizio è la propria soggettività.

       Quello che ancor più allontana da Dio, in un contesto di soggettivismo etico giunto a livelli elevati, è l’insistenza sul castigo, la pena eterna, l’inferno.

       Queste categorie teologiche sono rifiutate se manca una relazione autentica e personale con il Dio cristiano che è “Amore”, come afferma San Giovanni: «Dio è amore; chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4, 16).

       Solo quando si fa esperienza dell’amore di Dio si può comprendere la categoria di peccato e quelle di castigo e pena eterna.

       Infatti, il peccato non è altro che un tradimento dell’amore! Il peccato non è trasgressione di una Legge, ma è tradimento dell’amore gratuito e misericordioso di Dio.

       Solo nella relazione di amore si comprende il peccato e si evita di commetterlo.

       Il peccato, dunque, è un atto di egoismo, una chiusura in sé e una interruzione, o rottura, della relazione con Dio.

       Nella consapevolezza ed esperienza dell’amore da parte di Dio, la persona vive cercando di crescere in esso e di evitare di perderlo, di conseguenza tutto di sé è orientato a evitare ciò che offende, tradisce e rompe la relazione d’amore con Dio.

       In questa condizione si comprende cosa significa peccato e si riesce a crescere e maturare nella fede.

       Oggi il Sacramento della Riconciliazione è poco richiesto e celebrato per due ragioni: la prima per la perdita di relazione d’amore con Dio e, quindi, del senso del peccato; la seconda perché non c’è educazione a vivere e disponibilità a celebrare il Sacramento della Riconciliazione da parte dei presbiteri.

       La crisi della coscienza è dovuta anche ad una perdita di formazione e guida da parte di coloro che sono costituiti a tale servizio. La vita ministeriale dei presbiteri non è deputata in primis a presiedere la celebrazione del culto, ma alla educazione e formazione delle coscienze.

       «[Quelli che erano stati battezzati] erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti» (At 2, 42-43).

       Dall’insegnamento e dalla comunione di vita scaturisce la corretta celebrazione del culto sia sacramentale che personale.

       Il servizio alle coscienze è primario e costitutivo del ministero ordinato, ma è identificativo ed esistenziale per ogni battezzato.

       Ogni battezzato, per la sua vita di comunione con Dio e con i fratelli nella fede, deve sentire l’urgenza e la responsabilità della formazione della coscienza propria e altrui.

       Solo in un impegno responsabile di formazione della coscienza si vive la corretta relazione d’amore con Dio, perché la formazione si realizza nella testimonianza, nell’annuncio e nell’accompagnamento.

       La crisi di fede, presente nella società di oggi, deriva da una perdita di identità dei battezzati e, di conseguenza, da una inesistente o, perlomeno, inefficace testimonianza di fede.

       L’annuncio è sterile perché non corroborato da una vita carica di amore per Dio e ridotto ad una trasmissione di contenuti non facilmente riscontrabili nella vita concreta delle comunità di fede.

       L’accompagnamento nella fede è difficilmente vissuto perché manca una vita di comunione e condivisione nelle comunità cristiane.

       «Un senso di timore era in tutti» (At 2, 43). Il timore, in questo versetto degli Atti, non è sinonimo di paura. Il timore di Dio è consapevolezza del suo Amore gratuito, fedele e misericordioso e della propria fragilità, finitudine e infedeltà.

       Papa Francesco così definisce il timore di Dio: «Non significa avere paura di Dio: sappiamo bene che Dio è Padre, e che ci ama e vuole la nostra salvezza, e sempre perdona, sempre; per cui non c’è motivo di avere paura di Lui! Il timore di Dio, invece, è il dono dello Spirito che ci ricorda quanto siamo piccoli di fronte a Dio e al suo amore e che il nostro bene sta nell’abbandonarci con umiltà, con rispetto e fiducia nelle sue mani. Questo è il timore di Dio: l’abbandono nella bontà del nostro Padre che ci vuole tanto bene»[1].

       «Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime» (1 Pt 1, 8-9).

       La caratteristica del battezzato è e deve essere la “gioia”, che nasce dalla consapevolezza di essere amati da Dio.

       La “gioia” della fede deve caratterizzare ogni momento della vita del credente, anche quello della persecuzione, del dolore, della morte, perché egli vive nella consapevolezza e certezza di essere amato da Dio e, di conseguenza, ogni cosa della sua vita trova senso e fine nell’amore di Dio.

       Celebriamo questa II Domenica di Pasqua, Domenica della Misericordia, rinnovando la nostra fede e impegnandoci a vivere nell’amore di Dio e verso il prossimo, perché le comunità di fede siano luoghi dove conoscere e fare esperienza della Misericordia di Dio.

       «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi» (1 Gv 4, 10-12).

 

[1] Papa Francesco, Udienza generale di mercoledì 11 giugno 2014. https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2014/documents/papa-francesco_20140611_udienza-generale.html

DOMENICA DI PASQUA - RISURREZIONE DEL SIGNORE (ANNO A) - 2023

“Celebrare o Vivere la Pasqua?”


 

 

       «E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio» (At 10, 42).

 

           Celebrare o Vivere la Pasqua?

          Può sembrare una domanda assurda, ma non lo è perché la differenza tra il celebrare e il vivere è determinante e fondante per la vita di fede.

          Ogni anno ci ritroviamo a festeggiare la Pasqua con i suoi riti intensi e coinvolgenti.

           In varie parti della nostra bella Italia si rivivono forti e consolidate tradizioni popolari durante il Triduo Pasquale fino al giorno di Pasqua.

       In molti vengono coinvolti emotivamente e direttamente, al punto che si attendono anno dopo anno preparandosi con devozione a celebrarli.

         Celebrare, appunto, la Pasqua! Cioè rivivere un memoriale o più precisamente una devozione popolare ispirata ai momenti fondanti la fede cristiana.

       Celebriamo la Pasqua, dunque, quando ci soffermiamo a svolgere dei riti, delle tradizioni, sebbene importanti e con molta devozione, ma che si limitano ai giorni della Settimana Santa per poi tornare alla routine quotidiana in attesa di celebrarli il prossimo anno.

         La Pasqua solo celebrata resta sempre il momento fondamentale della religione cristiana, ma non è il fondamento della vita del credente.

         Vivere la Pasqua, invece, vuol dire vivere ogni giorno da “risorti”, da “rinati” con Cristo per il Battesimo ricevuto.

         Vivere la Pasqua significa celebrare ogni giorno con la vita il dono della fede ricevuta nella fedeltà al Cristo.

       Vivere la Pasqua da “risorti” in Cristo per il Battesimo significa vivere la gioia della fede, annunciarla e testimoniarla con una vita da “redenti”.

       Vivendo ogni giorno nel dono della fede, nella fedeltà al Battesimo, facciamo costante memoria della Pasqua del Signore Gesù Cristo e viviamo da “rigenerati per la fede”, “risorti con Cristo”, in una costante tensione verso la vita in Dio, fissando lo sguardo alle cose di Dio (cfr. Col 3, 1-4) per essere “sale e luce” nel mondo, “portatori di speranza” in ogni occasione della vita.

      

       Celebrare o Vivere la Pasqua indicano, dunque, due ben distinte modalità di vita: la prima è una vita di religiosità che non investe e coinvolge la quotidianità, ma si limita a rivivere ritualità e tradizioni; la seconda rinnova l’esistenza facendo di ogni momento l’occasione irrinunciabile per annunciare e testimoniare la fede nel Cristo risorto.

       Nel giorno di Pasqua la liturgia ci fa rinnovare le nostre promesse Battesimali perché è per il Battesimo che siamo “risorti con Cristo” e costituiti a pieno titolo “annunciatori e testimoni” della vita nuova in Cristo per la sua Pasqua.

      

         Aspersi e purificati nel Battesimo, viviamo la Nuova Alleanza con Dio nella offerta del suo Figlio per l’umanità.

       Nella fede cristiana il sacrificio non è più esteriore, come nell’ebraismo, ma è interiore, è il dono della propria vita in comunione con il Cristo morto e risorto.

        Vivere la Pasqua è offrire a Dio il sacrificio spirituale della nostra vita unita a Cristo nella obbedienza al suo insegnamento, nella comunione con Lui per la vita sacramentale.

       Offriamo a Dio il sacrificio spirituale della nostra vita rinnovando le promesse del Battesimo e impegnandoci a dare testimonianza della nostra appartenenza a Lui con una vita da “rigenerati e risorti” nell’Amore misericordioso di Dio.

         Annunciamo con la vita la nostra fede in Cristo perché che ci è accanto possa gustare la “gioia” della risurrezione di Cristo e nostra in Lui.

       San Serafino di Sarov salutava i suoi visitatori in ogni momento dell’anno dicendo: “Gioia mia, Cristo è risorto” e nella sequenza di Pasqua cantiamo “Surrexit Christus, spes mea”, “Cristo è risorto, mia speranza”, siano la gioia e la speranza a fondamento del vivere quotidiano di ogni credente, doni della Risurrezione di Cristo ricevuti nel Battesimo.

       Buona Pasqua!

TRIDUO PASQUALE – ANNO A - 2023


 

 

       In due millenni di cristianesimo cosa è cambiato nella vita dell’umanità?

       Forse ci si aspetta che Dio nella sua onnipotenza intervenga a togliere il male e stabilire una condizione di bene assoluto per tutti?

       Diventa difficile accettare un Dio che ci lascia liberi indicandoci la via dell’Amore e del Bene!

       Non siamo in grado di accettare questa condizione di vera libertà nella scelta responsabile del Bene o del Male. Si pretende una scelta di libertà che debba essere accolta a prescindere dalle conseguenze che essa comporta; per il solo fatto che è una scelta personale si pretende che essa debba essere giusta e corretta a prescindere da quello che comporta perché considerata “bene soggettivo”.

       In questi giorni del Triduo Pasquale, Dio ci insegna a comprendere cosa sia effettivamente amare e scegliere per il Bene.

 

       Giovedì Santo.

Nell’ultima cena ci insegna che amare è partire dall’altro. Nel segno della “lavanda dei piedi” è espressa la vera forza dell’amore: amare l’altro a partire dalla fragilità e caducità. Il male vince quando riesce a farci arrendere di fronte al limite e all’errore dell’altro.

       «Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque Io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto Io, facciate anche voi» (Gv 13, 12-15).

       “Lavarsi i piedi gli uni gli altri” significa essere consapevoli che nessuno è scevro da errori e cadute, nessuno è puro e limpido. Per il semplice essere umani siamo soggetti all’errore, per la incapacità naturale di conoscere e comprendere ogni cosa a priori.

       Il gesto del lavare i piedi da parte di Gesù è il segno della modalità dell’amare vero: solo quando sappiamo accogliere il limite e l’errore dell’altro nella consapevolezza di non essere esenti noi da ciò, sappiamo amare senza limiti e senza riserve, anche quando l’altro non vuole essere amato e ci rifiuta.

       L’Eucaristia, il dono della sua presenza nella nostra esistenza, è il testamento dell’amore di Dio, che ci offre il suo amore a prescindere dalla nostra decisione di accoglierlo o meno.

       L’Eucaristia è la fonte a cui attingere la capacità di amare senza riserve e condizioni. Solo quando impariamo a riconoscere nel pane e nel vino consacrati la presenza reale di Cristo e ci accostiamo con fede e trepidazione per lasciarci amare e guarire interiormente dalle ferite causate dalla nostra fragilità e caducità, riusciremo a vivere in pienezza la vita quotidiana e a determinare la nostra esistenza nell’amore di Dio.

 

       Venerdì Santo.

       «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9, 23).

       Questa affermazione di Cristo è difficile da accettare. Sembra che ci condanni ad una esistenza di dolore, di sofferenza, di penitenza, di fatica.

       Nella visione edonistica nella quale siamo immersi, questa espressione di Cristo è talmente difficile da accettare che si preferisce rinunciare a Lui.

       Soffermandoci a leggere con attenzione, alla luce del Venerdì Santo, la “croce” da prendere ogni giorno non è un patibolo, ma la via dell’amore.

       La croce di Cristo è il trono regale da cui Dio effonde il suo amore. È la Via dell’obbedienza per vivere in pienezza la propria esistenza. È la Via dell’amore per essere una umanità che impara a riconoscere l’altro non come nemico, rivale, ma come fratello e cooperatore per la costruzione di una società in cui nessuno si senta escluso.

       La croce di Cristo è la Via dell’Amore che sa andare oltre l’errore, pronto a rialzare ed accogliere chi cade.

       La croce di Cristo è il segno di rottura della logica dell’egoismo e dell’interesse; della vanagloria e della meschinità; del potere e del sopruso sul prossimo.

       La croce è il segno di contraddizione che separa di netto la scelta dell’Amore da quella dell’egoismo.

       La croce è forza dirompente per vivere la felicità perché apre ad una logica di perdono e di accoglienza: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34).

 

       Sabato Santo.

       Il Sabato Santo è il giorno del grande silenzio. Il Salvatore, il Cristo, Colui che doveva liberare il popolo fedele dall’oppressore, dal nemico e dal male è morto! Tutto tace! La speranza sembra essere stata distrutta!

       Nel silenzio del Sabato Santo comprendiamo cosa significa vivere senza Dio. Tutto perde senso, valore, finalizzato solo al tempo contingente e passeggero.

       Tutto diventa inutile e assurdo. La morte di Dio segna la condizione della vita umana e lo smarrimento esistenziale a cui è destinata.

       Il Sabato Santo, con il suo silenzio penetrante ed assordante, è il tempo favorevole per focalizzare la propria esistenza su ciò che dà pienezza e senso.

       È il tempo per fermarsi con sé stessi e orientare la propria esistenza verso ciò che dà senso e valore.

       È il tempo favorevole per liberarsi dall’effimero e focalizzarsi su ciò che edifica in pienezza la vita.

       È tempo di ristoro e per rigenerarsi nell’amore di Dio e nel suo silenzio per fare della propria vita una continua ricerca di ciò che è essenziale.

       È il tempo di far tacere in sé e attorno a sé tutto ciò che genera morte per aprirsi alla vita, alla risurrezione e risorgere con Cristo a vita nuova.


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