IV DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO A) - 2023
“Apparire o Essere?”
(1Sam 16,1.4.6-7.10-13 - Sal 22 - Ef 5,8-14 - Gv 9,1-41)
«[…] l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1Sam 16, 7).
Apparire o essere?
Oggi, più di ieri, questa domanda è necessaria perché l’uomo possa ritrovare sé stesso e il motivo del suo esistere.
Nella nostra società “apparire” è il leitmotiv del modo di vivere della maggioranza delle persone, in particolare dei giovani.
Nell’era della comunicazione virtuale, l’apparire è la struttura fondamentale su cui si poggia l’esistenza. L'immagine è la prima cosa che su cui si investe nel contattare l'altro.
Il bisogno di apparire è così vitale da basare la propria identità dai “follower” e dai “like” che si hanno sui propri profili social.
La moda dei tatuaggi, che imperversa da diversi anni soprattutto tra le ultime generazioni ma che coinvolge anche gli adulti, è un esempio eclatante di come l’apparire ha una valenza maggiore dell’essere.
Nel bisogno di apparire esprimiamo, di fatto, non ciò che siamo, ma quello che altri chiedono, esigono, preferiscono. È di fatto una omologazione a cliché imposti da altri!
Apparire significa mostrarsi agli altri e, dunque, essere accettati, ammessi, legittimati al bisogno d'amore.
Fondando tutto sull’accettazione da parte degli altri, inizia quel tormentato processo di travestimento per la recita di un copione, che non identifica la nostra reale persona. Inseriti in un determinato contesto, indossiamo una maschera non sempre scelta da noi, obbligandoci a muoverci secondo schemi ben definiti che accettiamo per convenienza senza avere mai il coraggio di rifiutarli, anche quando contrastano con la nostra natura.
Se l’apparire è l’espressione della personalità dell’odierna società, maggiormente per quella occidentale, si comprende il motivo della fragilità delle personalità, in particolare delle giovani generazioni.
La crisi esistenziale, lo stato di depressione sempre più in aumento tra la popolazione, i disturbi alimentari, sono tutti segno di quanta importanza si dà all’apparire, non riuscendo a comprendere e conoscere sé stessi.
A quanto pare, Pirandello è moderno ancora oggi. Egli basava il suo pensiero tra “vita e forma”, “maschera e volto”, “apparire ed essere”. Per lo scrittore la personalità degli uomini non è una, ma molteplice: cambia cioè a seconda delle circostanze e delle convivenze. L’individuo ha per natura il bisogno di confermare la propria esistenza e ciò è dato dal vedere ed essere visti.
Il personaggio di “Uno, nessuno e centomila”, Vitangelo Moscarda, è l’emblema dell’uomo di questa società, prigioniero delle opinioni altrui, dipendente dal plauso e giudizio degli altri.
Essere, invece, è l’identità della persona, la sua intima natura, ciò che si è.
Attraverso l’essere esprimiamo la nostra identità, un modo di vivere personale e necessario, la nostra unicità.
È vero che la nostra personalità è modellata dalla relazione e dal giudizio delle persone con cui ci relazioniamo, ma fondare la propria esistenza sull’essere significa determinare da sé la propria esistenza, decidere con consapevolezza e libertà chi e cosa si vuole essere!
Scegliere di fondare la propria vita sull’ “essere” richiede capacità di introspezione, di ascolto, di riflessione, ma soprattutto fondare la propria vita su valori assoluti.
“Essere” chiede un lavoro costante di discernimento, di analisi valutativa e di scelta consapevole e determinata per il Bene.
Decidere di essere e non di apparire significa impegno per formare la propria coscienza, porre ascolto a ciò che edifica e valutare le circostanze in base a ciò che è essenziale e genera benessere.
Se tutto questo discorso vale in generale per la vita della persona, a maggior ragione vale per il cristiano.
Avere fede in Dio significa determinare la propria vita nel Bene, che è Dio, e scegliere di “essere” secondo la volontà di Dio e non “apparire” per piacere agli uomini.
Gesù lo dice chiaramente: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c'è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 6, 1).
San Paolo ci ricorda che la fede si basa sulla sequela, sull’accogliere il Vangelo di Cristo e afferma: «Infatti, è forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo!» (Gal 1, 10).
Spesso, purtroppo, si identifica la vita cristiana in base allo stereotipo del “buon cristiano” che segue regole, abitudini, consuetudini, e vive pratiche di religiosità che poco incidono sull’identità personale.
Si vive “l’apparire del buon cristiano” piuttosto che “l’essere vero cristiano”.
Si ritiene comunemente che il buon cristiano sia colui/colei che recita preghiere, vive con devozione e trasporto le celebrazioni, frequenta regolarmente, meglio se quotidianamente, la celebrazione eucaristica, rispetta e vive regole, precetti e usanze, trascurando invece la vita morale, i valori di riferimento su cui imposta le proprie scelte quotidiane, l’attenzione alla relazione con il prossimo vivendola nella autentica “carità nella verità”, sapendo andare “contro corrente” pur di non rinunciare alla propria adesione al Vangelo.
Il rischio è di vivere un “fariseismo”, condannato da Cristo, piuttosto che la corretta sequela di Cristo.
Comprendiamo, allora, l’affermazione forte di Gesù ai farisei dopo la guarigione del cieco nato: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane» (Gv 9, 41). Vivere la fede seguendo una religiosità significa essere “ciechi”, incapaci di discernimento e di comprendere e riconoscere il proprio errore, il proprio limite e peccato.
Scegliamo di “essere” credenti formando la nostra coscienza con l’ascolto della Parola e la vita secondo lo Spirito nella fedeltà agli insegnamenti del Magistero. Scegliamo di “essere” veri cristiani avendo il coraggio di andare contro corrente e di saper scegliere sempre il bene, consapevoli che questo non ci farà acquisire notorietà tra gli uomini, ma sicuramente ci permetterà di vivere nell’Amore di Dio e ricevere da Lui la ricompensa della vita eterna.
Facciamo, dunque, nostre le parole di San Paolo: «Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire ciò che è gradito al Signore» (Ef 5, 8-10) e viviamo la nostra adesione a Cristo con responsabilità e impegno per “essere” e non “apparire” cristiani; per “essere” segno di Cristo nel mondo, lievito vivo per la società, testimoni autentici del Vangelo.