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Quinta Domenica di Quaresima (Anno C) - 2022

“Vivere nella giustizia di Dio”


 

(Is 43,16-21 - Sal 125 - Fil 3,8-14 - Gv 8,1-11)

 

         In una società in cui l’individualismo è imperante risulta quasi impossibile il riferimento a Dio e alla sua Legge. Le stesse leggi statali e gli interessi collettivi sono posti in discussione ed eliminati per assoggettarli alle valutazioni e agli interessi personali.

        Il giudizio verso la realtà, le situazioni e i comportamenti altrui sono relativi a condizione che non influiscano sulla libertà dell’altro. Nella libertà personale la morale, il giudizio etico e i valori fanno riferimento all’individuo, per cui anche la categoria di peccato in riferimento a Dio non ha più una valenza sulla vita del soggetto.

       Oggi la categoria di peccato, come offesa a Dio, tradimento dell’Amore di Dio è difficile che sia considerata, soprattutto nella società occidentale.

         Anche tra i credenti praticanti risulta evidente uno scollamento tra la pratica religioso e l’adesione alla morale cristiana, pur registrando molto forte il giudizio di condanna da parte dei credenti verso chi sbaglia.

       Se da una parte nella società si registra un’etica soggettivista, tra i credenti praticanti cresce un rigorismo etico, una rigidità morale insieme ad una interpretazione soggettiva degli insegnamenti morali cristiani.

         Il brano dell’adultera, nel vangelo di Giovanni, permette di comprendere l’importanza di saper riconoscere il peccato senza giustificarlo e aiutare chi ha sbagliato a riprendere in mano la propria dignità e rialzarsi dalla caduta.

        Gesù evidenzia come è nella condizione dell’essere umano errare, ma nella giustizia di Dio e nella sua misericordia ha la possibilità di rialzarsi e camminare in piena dignità e valore di vita.

        «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei […] Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? […] Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8, 7.10-11).

        Il male va riconosciuto e condannato, ma nello stesso tempo va sempre salvato il peccatore e posto nella condizione di poter rialzarsi e convertirsi.

        Per edificare nel bene la propria vita e la società occorre saper riconoscere il male e lottare contro esso, nella consapevolezza di essere fragili e soggetti al peccato, alla devianza, ma sempre capaci di rialzarsi e riprendere con slancio il cammino nel bene.

         Per camminare nel bene occorre avere lo sguardo fisso su Gesù ed essere consapevoli che siamo stati costituiti da Dio suo “popolo”: «Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi» (Is 43, 21).

         Essere popolo: non ci si salva da soli e non si è credenti da soli, ma siamo corresponsabili del nostro prossimo, educatori e compagni di viaggio.

         Avere lo sguardo fisso su Gesù: San Paolo ci indica la modalità. «Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede» (Fil 3, 8-9).

         Conoscere Cristo e camminare nella giustizia di Dio, non per una fedeltà sterile alla Legge, a precetti, a tradizioni, ma per una ricerca della Verità nella fedeltà a Dio, al suo Amore nella condivisione e carità verso il prossimo.

          Non una giustizia derivante dalle opere, ma dalla fede cioè non per merito personale, ma per l’azione dello Spirito in noi. La giustizia che deriva dalla fede è amorevolezza, carità, disponibilità, accoglienza, perdono, sostegno, supporto, vicinanza, rispetto della dignità del prossimo.

          La giustizia derivante dalla fede non è ostentazione di perfezione, di devozione e di pratiche di culto sterili, ma è coscienza della fragilità personale da cui partire per lasciare che sia lo Spirito di Dio ad operare e convertire il cuore.

        Senza esclusioni e condanne, ma come Cristo condannare il peccato salvando sempre il peccatore, accogliendolo con amorevolezza e misericordia, indicando il cammino da compiere per riappropriarsi della dignità deturpata dall’errore commesso.

         Operare nella giustizia di Dio partendo dalla coscienza personale della propria fragilità, ma confidando nell’Amore di Dio per cui tutto è possibile a chi crede e si apre al Dio.

          La vita di fede è un cammino di continua lotta con la propria fragilità, confidando nell’Amore di Dio in una tensione di speranza derivante dal perdono di Dio in Cristo crocifisso, morto e risorto per amore.

         Vivere nella giustizia di Dio per la fede è camminare nel bene, consapevoli del proprio limite, ma sempre orientati a Dio, conformi al suo Cristo, maestro, pastore e Signore.

         Vivere nella giustizia di Dio senza puntare il dito, accogliendo e amando con l’amore di Dio, che non condanna, ma rialza; non esclude, ma accoglie; non uccide, ma salva!

         Qual è la nostra giustizia?

QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO C - 2022

“Dall’egocentrismo al Cristocentrismo”


 

(Gs 5,9-12 - Sal 33 - 2Cor 5,17-21 - Lc 15,1-3.11-32)

 

         Di fronte alle situazioni di violenza, di guerra, di abusi, di peccato, la domanda che tutti si pongono, anche i credenti, è “Dov’è Dio e come fa a restare indifferente di fronte a tanto male?”.

        Nella scorsa domenica abbiamo avuto modo di riflettere su questo in modo diretto. Questa domenica siamo posti a confronto con la “misericordia di Dio”, che ancor più ci fa porre la domanda di come è possibile accettare un Dio giusto e misericordioso e vivere la misericordia quando il male ti investe in modo forte e brutale, come in questi momenti di guerra.

          Risuona forte l’insegnamento di Gesù, il suo comando a vivere nell’Amore di Dio e cambiare mentalità, prospettiva: «Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano […] A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l'altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. […] Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell'Altissimo […] Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6, 27.29.35a.36).

            Cambiare prospettiva! Cambiare logica di giudizio!

       La novità della fede consiste proprio in questo. La fede è un atto di fiducia, di affidamento, ma soprattutto è “conversione”, cambiamento di rotta!

         San Paolo lo afferma chiaramente ai Corinti: «se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2Cor 5, 17).

       Accogliere la fede e vivere nella fede comporta una nuova nascita, una nuova creazione. Il Battesimo è questo: genera alla vita nuova della Grazia in Cristo Gesù; è morire al peccato e rinascere alla vita in Dio.

         Siamo rinati alla Grazia? Viviamo da persone nuove nella logica e prospettiva di Dio?

       Per arrivare a questo, dice San Paolo, occorre “lasciarsi riconciliare con Dio” (2Cor 5, 20). Questo processo di riconciliazione con Dio richiede la disponibilità a guardarsi dentro, nelle profondità della propria coscienza, riconoscendo il proprio limite, facendo i conti con le proprie fragilità e accogliere in novità la proposta d’Amore di Dio.

       La fatica sta proprio nel riconoscersi fragili, peccatori, bisognosi e essere disposti a convertire mente, cuore e volontà passando dall’Io a Dio!

       Riconciliarsi con Dio è permettere a Dio di essere al centro della esistenza personale e divenire il tutto per cui vivere: svuotarsi di sé per riempirsi di Dio; far tacere l’Io e parlare Dio; passare dall’egocentrismo al cristocentrismo.

       La parabola del “Padre misericordioso” ci aiuta a comprendere bene questa rivoluzione copernicana che deve avvenire nel credente. Entrambi i figli hanno peccato di egocentrismo e il Padre, che ama in modo autentico, invita a porre al centro della propria esistenza l’Amore, che genera vita: «[…] bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15, 32).

       L’egocentrismo genera morte perché non apre alla relazione, all’altro nella sua originalità e particolarità. Chiude alla vita perché ogni cosa è a servizio di sé, quindi la reciprocità è esclusa, così come il donarsi all’altro.

       La vita in Dio, la fede in Cristo, apre alla vita perché la prospettiva non è più limitata al soggetto, ma è aperta all’altro nella donazione di sé, nella misericordia ricevuta e nella libertà acquisita per la Verità incontrata.

       Dio nella sua misericordia non giustifica l’errore e non riduce la responsabilità personale, ma guarda alla persona nella sua dignità di figlio! Essere cristiani è essere misericordiosi! Capaci di riconoscere il male, denunciarlo, ma sempre guardando alla persona come figlio di Dio, fratello in Cristo!

       Essere in Cristo, creature nuove rigenerate dall’amore misericordioso di Dio, significa amare, perdonare e donare come Dio Padre ha fatto in Cristo.

       Amare: in modo gratuito, senza interessi, senza tornaconti. Nella libertà e senza meschinità, falsità. Amare come finalità dell’esistere: questa è la misura e modalità dell’amore per il credente!

       Perdonare: chi ha sperimentato cosa significa riconciliarsi con Dio non può non perdonare, non lasciare sempre aperta la porta del cuore e abbracciare il fratello che torna, che chiede di essere riaccolto. Chi ha fatto esperienza di Dio e si è convertito all’Amore di Dio, non può escludere!

       Donare: «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). Chi può arrogarsi il vanto, il merito della perfezione, di aver ricevuto da Dio perché giusto? Chi è in Cristo vive nella logica del dono! È aperto all’altro in piena gratuità e condivisione, consapevole che ciò che è e ciò che ha è dono di Dio.

         Per il cristiano deve valere la regola di vita indicata da Giovanni Battista: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3, 30).

        Passare dall’egocentrismo al cristocentrismo è possibile solo se si è disposti a liberarsi dalle ristrettezze del proprio cuore e aprirsi alla prospettiva di Dio.

        Avere lo sguardo del Padre misericordioso che non smette mai di vedere in noi l’essere suoi figli, chiede un impegno costante di liberarsi dalla logica del guadagno, del tornaconto e della arroganza dell’individualismo, per acquisire la logica del dono, della gratuità, della reciprocità e della condivisione come vera ricchezza per tutti.

       Papa Francesco, nell’udienza generale del 21 settembre 2016, affermava: «L'amore misericordioso è perciò l'unica via da percorrere. Quanto bisogno abbiamo tutti di essere un po' più misericordiosi, di non sparlare degli altri, di non giudicare, di non “spiumare” gli altri con le critiche, con le invidie, con le gelosie. Dobbiamo perdonare, essere misericordiosi, vivere la nostra vita nell'amore. Questo amore permesso ai discepoli di Gesù di non perdere l'identità ricevuta da Lui, e di riconoscersi come figli dello stesso Padre. Nell'amore che essi praticano nella vita si riverbera così quella Misericordia che non avrà mai fine (cfr 1 Cor13,1-12). Ma non dimenticatevi di questo: misericordia e dono; perdono e dono. Così il cuore si allarga, si allarga nell'amore. Invece l'egoismo, la rabbia, fanno il cuore piccolo, che si indurisce come una pietra. Cosa preferisci? Un cuore di pietra o un cuore pieno di amore? Se preferite un cuore pieno di amore, siate misericordiosi!».

(https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2016/documents/papa-francesco_20160921_udienza-generale.html)

TERZA DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO C) - 2022

“Partire dal proprio cuore”


 

(Es 3,1-8.13-15 - Sal 102 - 1Cor 10,1-6.10-12 - Lc 13,1-9)

 

       Quando accadono terremoti, pandemie, disastri naturali oppure guerre, violenze, genocidi, soprusi la domanda che credenti e non fanno è da sempre la stessa: “dov’è Dio e perché permette questo?”.

       Di fronte alle immagini strazianti della guerra, di bambini malati, di gente costretta a scappare; di fronte ad atti di violenza, ad omicidi, ad abusi diventa difficile non dubitare di Dio, nel suo Amore.

       Facilmente si grida all’indifferenza di Dio per cui non vale la pena credere in Lui. Quanti hanno dichiarato di aver perso la fede dopo la morte ritenuta ingiusta di un figlio, di un genitore, di un coniuge.

       Nel brano evangelico alcuni presentano a Gesù questi stessi dubbi pretendendo da Lui risposte in merito alla bontà o alla cattiveria e su come poter aver fiducia di Dio Padre di fronte alla sofferenza degli innocenti.

       La risposta di Gesù è un rimandare alla presenza del male nell’uomo e nelle cose, ma esso è possibile vincerlo solo aprendosi alla Grazia di Dio. Il male, presente nell’esistenza del mondo e dell’umanità, è il problema che non trova risposte razionali e la difesa da esso costituisce il live motive della storia umana.

       È la sfida per la fede: può crollare o rafforzarsi, morire o maturare.

       Cosa fare di fronte al male e come interpretarlo? Occorre imparare a leggere i “segni dei tempi”, cioè saper trovare nelle situazioni di male il Signore che ci invita alla conversione.

       La pace, il bene, l’amore non nasce senza l’impegno personale di ciascuno e ciascuno ha la responsabilità particolare e generale, mondiale di comprendere e costruire il bene in sé e attorno a sé.

       Il male è e resta una realtà da deplorare, che produce sofferenza e morte, ma esso va vinto a partire dal proprio cuore. Infatti, chi può affermare di non aver mai avuto sentimenti negativi, pensato male e desiderato il male, forse in nome di una giustizia superiore?

       Solo se ognuno si impegna a vivere il bene e a operare per esso si arriverà a sconfiggere il male nella vita dell’umanità, nelle relazioni interpersonali.

       Anche la condizione di finitudine, di fragilità e di caducità, che appartengono all’essere umano, trovano senso se la vita è orientata al bene: la morte non segnerà la fine e la sconfitta dell’uomo, ma il compimento, l’epilogo di bene della vita.

       Di fronte alle situazioni negative della vita, il discernimento degli eventi separa i buoni dai cattivi a seconda di quale giustizia si persegue, di quale considerazione di utilità e di bene si valuta e si accoglie.

       Oggi di fronte alla pandemia, alla guerra, quali sono state le valutazioni e le decisioni prese? Dalla pandemia ad oggi assistiamo a ragionamenti che non sempre perseguono il bene di tutti, ma solo quello egoistico personale. La stessa cosa sta accadendo con il conflitto in atto ora, a cui tutti si sentono chiamati in causa per la paura di una estensione a livello mondiale, dimenticando, allo stesso tempo, altri focolai di guerra che perdurano da anni, come in Siria.

       Il bene, la pace, la fraternità non si raggiungono se non con un impegno personale e, di conseguenza, collettivo: occorre partire dal proprio cuore!

       La soluzione al male non sta nell’analisi corretta delle cause e delle conseguenze, ma nel cambiare mentalità, o usando una simbologia biblica, cambiando “lievito”: è necessario cambiare il senso della vita, centrando tutto in Dio; fare che il suo Amore sia il “lievito” che fa fermentare la massa, i cuori dell’umanità per giungere alla piena fraternità dei figli di Dio, alla edificazione del suo Regno.

       Questo certamente può apparire utopia, ma è l’essenza del Vangelo. Il male esisterà sempre fino alla fine del mondo e la lotta tra bene e male contraddistinguerà sempre le scelte dell’umanità, ma i cristiani saranno sempre chiamati a portare il lievito nuovo dell’Amore di Dio perché il mondo viva nella Pace!

       Dopo la riflessione sul bene e male presenti nella vita dell’umanità, Gesù presenta l’Amore misericordioso di Dio che si prende cura del cuore dell’uomo con il racconto della parabola del fico che non porta frutto (Lc 13, 6-9).

         L’umanità che non decide di portare frutti di conversione è come il fico sterile che non dà frutti.

       Nella sua misericordia, il Padre ha mandato il suo Figlio perché l’umanità possa comprendere e conoscere il suo Amore e decidere di portare frutti di bene.

         Di fronte al male, a non dare frutti di bene, Dio potrebbe far cessare tutto. Di fronte al male invochiamo il suo intervento pretendendo che ponga fine alle ostilità, alle ingiustizie, alle sofferenze, agli orrori e consoli il grido degli innocenti.

       Dio potrebbe tagliare il fico, far cessare ogni cosa con la fine dell’umanità, ma sceglie la via dell’Amore paziente e misericordioso e concede tempo: «lascia/perdona ancora per quest’anno» (Lc 13, 8).

        Dio confida nell’uomo perché lo ama, sa che il suo cuore può amare e scegliere il bene. La responsabilità dell’uomo è nel riconoscere e scegliere il bene evitando il male e lottando contro di esso con opere di misericordia.

         La responsabilità dei cristiani è di vivere e testimoniare l’amore di Dio incontrato operando il bene, come invita San Paolo nella prima lettera ai Corinti: «Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. Non diventate idolatri […] Non abbandoniamoci all'impurità […] Non mettiamo alla prova il Signore […] Non mormorate» (1Cor 10, 6-10).

        La responsabilità del credente è più alta di colui che non crede, perché a chi crede Dio ha donato il suo Amore e lo chiama a vivere in esso donandolo al prossimo mediante un comportamento tutto orientato a Dio.

        Per vivere pienamente nell’Amore di Dio e portare frutti occorre, dunque, partire dal proprio cuore! Fare in modo che esso sia aperto, rinnovato dall’Amore di Dio, capace di dare Amore ed educare all’Amore.

       Partire dal proprio cuore significa aprirsi alla misericordia, riconoscere con umiltà il proprio peccato, il proprio limite e lasciarsi rinnovare interiormente per vivere nel continuo discernimento per scegliere sempre il bene.

           «Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (1Cor 10, 12).

       Partire dal proprio cuore significa essere consapevoli che è facile cadere, allontanarsi dall’Amore di Dio, quindi occorre vigilare, discernere e conservarsi nell’umiltà di chi sa di essere amato da Dio e bisognoso del suo perdono sempre!

SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO C) - 2022

“Trasfigurati per la fede”


 

(Gen 15,5-12.17-18 - Sal 26 - Fil 3,17- 4,1 - Lc 9,28-36)

 

       La fede cristiana è fede nel Cristo risorto e il cammino da compiere come credenti ha come meta la vita eterna in Dio, che, come insegna San Paolo ai Filippesi, è il luogo della nostra trasfigurazione completa da raggiungere vivendo da “risorti” alla vita nuova in Cristo: «La nostra cittadinanza, infatti, è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3, 20-21).

       La condotta di vita nella fede, la vita morale, non è impegno di perfezione mediante opere, pratiche religiose o comportamenti secondo “cliché del buon credente”; essa è vita in Cristo, sequela di Cristo, cammino di rinnovamento nello Spirito Santo: «Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna» (Tt 3, 4-7).

           Il cristiano è un “trasfigurato” per fede!

       Essere trasfigurati significa che l’Amore di Cristo ha rinnovato completamente la vita per cui i sentimenti di Cristo sono diventati i sentimenti del credente.

         Questa è la vera essenza della vita cristiana!

        L’impegno del credente deve essere tutto rivolto in questa direzione: nel lasciarsi trasfigurare da Cristo, rinnovando il proprio essere per arrivare a dire con San Paolo: «non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20).

        Tutto questo non è altro che riconoscere Cristo come il Signore e Maestro, il Figlio eletto del Padre da ascoltare e imitare nel suo modo di amare. Si tratta di un rapporto personale, reale, non ideologico. La fede è una relazione con la persona di Cristo, non con l’idea di Lui.

        Essere “conformati a Cristo”, espressione paolina (cfr Rm 8) che spiega il concetto del vivere da “trasfigurati”. Il trasfigurato è colui che si lascia modellare da Cristo, che cambia la sua “forma”, cioè il suo modo di essere, di vivere, di agire, di pensare, di valutare, per acquisire quella di Cristo.

         È un processo costante che dura tutta la vita, ma essenziale e irrinunciabile. È il cammino autentico della fede, che nell’ascolto e meditazione della Parola, nella preghiera e nella vita sacramentale trova la sua fonte, e che si concretizza in un impegno di testimonianza nella quotidianità di ciascuno.

        Essere trasfigurati per la fede significa fidarsi ed affidarsi a Dio avendo come fine e misura la vita eterna. Ciò comporta vivere il presente consapevoli che nulla è paragonabile alla vita in Dio, ma tutto deve concorrere per raggiungerla.

        Essere trasfigurati significa aver fatto esperienza della “bellezza di Dio”, come gli apostoli sul monte Tabor: «Maestro, è bello per noi essere qui» (Lc 9, 33): si tratta di avere una conoscenza vera di Dio basata sull’ascolto della sua Parola, accogliendo la sua Alleanza definitiva nel Figlio Gesù Cristo. Non basta, quindi, una religiosità devota, ma occorre una relazione personale e profonda che apre ad una visione nuova della esistenza derivata, appunto, da Dio.

        La novità di vita e il cambiamento di visione delle cose conducono ad essere veri testimoni, esempi di vita autenticamente cristiana. San Paolo arriva a chiedere ai cristiani di Filippi di “imitarlo” e lo può dire proprio perché la sua vita è stata trasfigurata dalla sua completa adesione al Vangelo.

         Essere “trasfigurati per fede” nella realtà di oggi vuol dire vivere il presente, nella particolare condizione di vita, imparando a discernere il tempo presente alla luce del Vangelo, prendendo ciò che è buono e rigettando ciò che è contrario al Vangelo, senza la paura di essere scartati dalla società, ma con l’unica volontà di restare radicati in Cristo ed essere rinnovati nello Spirito Santo.

         Essere trasfigurati oggi richiede lo stesso impegno e la stessa radicale scelta dei discepoli al tempo di Cristo e nel corso dei secoli finora: il Vangelo resta sempre lo stesso; il cammino da compiere è il medesimo; le scelte per il bene sono uguali sempre e richiedono amore e adesione piena a Dio.

       L’amore di Dio, il dono della Pace nei cuori, la scelta per il bene restano invariati nei secoli. Il progresso della società, le scoperte scientifiche, le modalità di vita odierne non modificano l’essenzialità del Vangelo, ma chiedono solo maggiore attenzione, conoscenza e discernimento per la complessità della situazione attuale, delle circostanze e del progresso delle conoscenze tecnico scientifiche.

         Oggi è possibile vivere da “trasfigurati per la fede”: basta aprire il cuore a Dio e impegnarsi nella conoscenza, meditazione e attuazione del Vangelo.

         Il cammino quaresimale è sempre l’occasione opportuna per riprendere l’impegno d’amore con Dio e lasciarsi “trasfigurare” e “rinnovare” dall’azione dello Spirito Santo.

      

PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO C) - 2022

“Umanità redenta”


 

(Dt 26,4-10 - Sal 90 - Rm 10,8-13 - Lc 4,1-13)

 

        Abbiamo iniziato il nuovo cammino quaresimale in preparazione alla Pasqua di resurrezione. Questo tempo forte del cammino di fede è segnato quest’anno anche dalla guerra in Ucraina e la minaccia di un conflitto mondiale. Tensioni a livello politico, sociale e religioso vanno contraddistinguendo questi giorni facendosi passare, quasi in modo automatico, dalla tensione emotiva della pandemia a quella di una guerra mondiale (nucleare) presentata come imminente.

       Le emozioni, i sentimenti, la speranza unite alla paura dovrebbero aiutare a comprendere il vero aspetto della vita e il suo valore; dovrebbero aiutarci a leggere la storia in chiave di fraternità universale imparando dai tanti momenti bellici che si sono succeduti nei secoli; dovrebbero spronarci a crescere nei valori autentici di condivisione e di pace.

       Nel tempo della pandemia si gridava da ogni angolo, da ogni finestra o balcone, che tutto sarebbe andato per il meglio, convinti che l’umanità sarebbe migliorata.

         Ora una nuova tensione e calamità sta muovendo a pietà i cuori di coloro che aborriscono la guerra e sentono compassione per le vittime del conflitto. Si prega per la Pace, si sfila per le piazze, si cerca di far sentire la propria voce contro la guerra.

        Si desidera una umanità migliore!

        La prima domenica di quaresima ci pone di fronte alla contrapposizione tra “bene e male”, presentando l’episodio delle tentazioni da parte del demonio a Gesù nel deserto.

          Questa contrapposizione, o conflitto, tra il bene e il male è alla base della qualità della vita che si determina concretamente nelle scelte quotidiane.

        La Pace o la Guerra sono realtà che si generano dalla scelta di bene o di male: a nessuna delle due si arriva come per magia, ma attraverso un processo costante di scelta fondamentale e particolare della vita.

           Una umanità migliore non è utopia, ma frutto di concreto discernimento e valutazione a partire dal bene o dal male.

           La quaresima non è il “tempo della penitenza”, ma è il “tempo della conversione”.

         Tempo di conversione che parte appunto dalla considerazione su cosa e da cosa siamo spronati nella vita: dal bene o dal male?

           Istintivamente risponderemo con convinzione e forza che siamo spronati dal bene, rifiutando il male. Non è una risposta a priori errata, ma non è del tutto vera se proviamo a leggere la nostra vita a partire dal brano evangelico.

       Le tentazioni, rivolte a Gesù dal demonio alla sua umanità, evidenziano la realtà della nostra vita e le tentazioni a cui siamo costantemente sottoposti per soddisfare la naturale esigenza dell’uomo di fame: “di avere”, rispetto alle cose; “di potere”, rispetto alle persone; “di volere”, rispetto a Dio.

           Chi si può dire esente da queste tre tentazioni?

         Tutto ciò non significa che non bisogna possedere cose, avere responsabilità o scegliere liberamente, ma vuol dire non assolutizzare nulla di tutto questo; vuol dire non fondare la propria esistenza su queste tre realtà.

       La prima tentazione sull’avere, a cui Gesù risponde: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”» (Lc 4,4), si basa sul bisogno, sulla necessità, sull’affidamento alle cose per realizzarsi nella vita.

        Gesù con la sua risposta non condanna il possedere cose, né nega l’aver bisogno di sostentamento, di pane, di beni materiali, ma afferma che il bisogno primario è e deve essere Dio, per imparare a non diventare schiavi dei beni, a non essere avidi di beni materiali.

        I beni materiali devo essere al servizio dell’uomo e non viceversa. In una logica consumistica, in cui possedere è sinonimo di benessere e di prestigio, Dio non ha spazio e con lui il rispetto del prossimo e di conseguenza la condivisione, la carità e la pace non saranno valori di riferimento assoluti, ma relativi al personale benessere: “nella misura in cui sono nella possibilità di possedere, condivido, amo e vivo in pace, altrimenti l’altro è rivale, nemico, usurpatore”.

      La seconda tentazione del potere evidenzia l’indole naturale del comando sulla propria vita, su quella degli altri e sulla natura: è l’idolatria di sé stesso; è la bramosia di potere e di gestire tutto. L’uomo vive l’idolatria ponendo i mezzi come fine del proprio esistere e sé stesso al posto di Dio: si vive per il potere, unico fine e senso della esistenza!

        L’uomo non è di fatto mai ateo, bensì idolatra perché sostituisce Dio con sé stesso, con il bisogno di potere. Nella nostra cultura in cui Dio è sempre più assente, l’uomo prende il posto di Dio con la bramosia di potere e con l’egocentrismo sempre più esasperato.

        Gesù risponde al tentatore: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”» (Lc 4,8), volendo indicare, così, che solo se si adora Dio e si dà a Lui il primato sulla propria vita si può vincere la bramosia del potere. Quando Dio è al centro del proprio esistere, quando tutto è a Lui riferito, l’autorità che si può rivestire a vario titolo sarà vissuta come “servizio” e non come “potere”. Di conseguenza non ci saranno sudditi, sottoposti, schiavi, ma sempre “persone” con diversi compiti, ma con uguali diritti e dignità.

       Senza Dio l’uomo diventa “dio” di sé stesso e il suo prossimo un inferiore o un rivale. Con Dio l’uomo vive nella piena consapevolezza di dover agire per il bene di tutti e quindi il potere che si esercita con la responsabilità che ne deriva sono vissuti nella logica di un servizio per la comune crescita e benessere dell’umanità.

       La terza tentazione del volere, a cui si arriva a sottomettere anche Dio, è molto comune soprattutto nella cultura individualista. È di fatto la tentazione che capovolge il rapporto uomo-Dio: non è più l’uomo ad obbedire a Dio, ma è Dio che deve essere a servizio dell’uomo. Molto di più il volere dell’uomo è assoluto e inconvertibile.

      È l’arroganza e la presunzione di essere sempre nel giusto, per il semplice fatto che è una decisione personale, liberamente voluta e determinata, oppure perché ci si riconosce “credenti osservanti e praticanti”.

       Quando la libertà della persona e la sua scelta di volontà sono concepiti come valori assoluti, il pensiero degli altri e i loro bisogni possono facilmente diventare ostacoli e riduzioni, limiti da superare e/o eliminare. In questo contesto culturale Dio è il limite assoluto alla libertà personale e la sua volontà ostacolo di quella individuale; perciò, viene estromesso in modo definitivo dal proprio vissuto.

      Per il credente questa tentazione si realizza cadendo nella “presunzione religiosa” di chi, forte della sua pratica di fede, dimentica che è in cammino verso la santità e non già nella condizione di perfezione. In questo contesto la libertà e la grazia diventano il paravento per il peccato, di fatto non si progredisce nella obbedienza alla volontà di Dio, alla sua Parola, e non si cresce nella fedeltà a Lui, ma Egli diventa motivo di ostentazione della propria “presunzione di giustizia e di santità” cadendo in una religiosità ipocrita.

      Gesù risponde con la citazione di Dt 6,16: «“Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”» (Lc 4,12), ribadendo così che il credente deve obbedire a Dio: la salvezza dell’uomo sta nella sua obbedienza alla Parola, al volere di Dio, all’insegnamento del suo Cristo.

       Quando l’uomo si apre alla volontà di Dio e gli obbedisce, impara a riconoscere il suo prossimo come fratello e a cercare ciò che unisce e edifica. La propria volontà non perde di valore, ma si apre ad un valore più grande perché non più ridotta a soddisfare i bisogni personali in modo egoistico, ma a realizzarli nella condivisione e nella cooperazione. La volontà di Dio non elimina quella individuale, ma la apre alla reciprocità riconoscendo che la vera realizzazione del singolo si compie nella possibilità di realizzazione dell’intera umanità.

       In questa visione la Pace, la cooperazione e la condivisione sono indispensabili per ciascuno e da ciascuno perseguiti. Se si esclude la volontà di Dio per affermare quella personale non ci potrà essere spazio per nessuno se non sottomesso.

        Solo in Dio e nell’obbedienza alla sua volontà si potrà costruire la vera Pace e una umanità migliore.

       Il cammino quaresimale, dunque, è il tempo forte di “conversione” in cui riconoscere che il vero volto dell’umanità è quello di essere amata e redenta da Dio in Cristo.

       La penitenza quaresimale deve essere tutta orientata a favorire questa presa di coscienza e consapevolezza di essere stati redenti.

      Nella consapevolezza di essere amati da Dio e stati redenti in Cristo si potranno effettivamente costruire relazioni fraterne e una umanità migliore, dove nessuno è sottomesso e giudicato, ma tutti cooperano alla crescita e realizzazione comune.

       Per una umanità migliore occorre riconoscersi e vivere da umanità redenta!


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