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La Luce Negli Occhi

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OTTAVA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) - 2022

“Camminare nella misericordia”


 

(Sir 27,5-8 - Sal 91 - 1Cor 15,54-58 - Lc 6,39-45)

 

       La preghiera di colletta di questa domenica recita così: «Concedi, Signore, che il corso degli eventi nel mondo si svolga secondo la tua volontà nella giustizia e nella pace, e la tua Chiesa si dedichi con serena fiducia al tuo servizio». Credo che questa oggi debba essere la nostra invocazione accorata per la situazione che stiamo vivendo e in particolare per la condizione del popolo ucraino.

       Occorre che il cuore dell’umanità sia rinnovato e liberato da sentimenti di rancore, odio, potere, supremazia, invidia, gelosia, meschinità … da tutti quei sentimenti negativi che generano morte, divisione, conflitto, rivalità, separazioni.

       Facile pensare che questo discorso valga per i “potenti” della terra, i capi delle Nazioni, ma di fatto è valido per ogni persona. È nella routine della giornata dove si sperimentano e si mettono in atto atteggiamenti negativi. Non sono solo le situazioni grandi e generali della vita del mondo e degli interessi internazionali dove si sperimentano gli effetti dei sentimenti negativi, ma nelle relazioni a partire dalla famiglia, dalle amicizie, dal lavoro, insomma è nella quotidianità della vita dove gli effetti di un cuore colmo di sentimenti di male porta a generare conflitti e rivalità.

       Il comandamento di Gesù in Lc 6, 36: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso», è esplicitato nella pericope di Lc 6,39-45.

       Se il cuore dell’uomo non è abitato dalla misericordia è destinato al fallimento e alla morte interiore, chiuso in sentimenti di male che generano morte in lui e attorno a lui: «L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda» (Lc 6,45).

       La misericordia impedisce alla stoltezza, alla presunzione e all’ipocrisia di abitare nel cuore dell’uomo e di criticare il prossimo.

       La misericordia salva l’umanità e le permette di sovrabbondare in sentimenti di accoglienza, attenzione, comprensione, condivisione e cooperazione.

       Il giudizio è l’esercizio della ragione, la valutazione è l’atto della coscienza, ma tutto ciò deve essere rivolto in modo severo verso sé stessi, comprendendo quanto bisogno si ha di misericordia per i limiti ed errori personali.

       Dalla consapevolezza di essere bisogni di misericordia si può vivere nella giustizia e si costruisce la pace, perché il limite e l’errore del prossimo, per quanto possa essere difficile da accettare, diventa sopportabile e supportabile.

       Gesù, quindi, ribadisce con parole forti l’urgenza di vivere la misericordia richiamando al limite e peccato personale: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?» (Lc 6,41).

       La misericordia fa comprendere l’errore dell’altro come poca cosa di fronte a quello personale, tanto che Gesù paragona il primo alla “pagliuzza” e il secondo alla “trave”: questa sproporzione deriva dalla lettura di misericordia che deve portare il soggetto a considerare sempre sé stesso in debito verso l’amore di Dio ricevuto.

       Riconoscersi debitori verso l’amore di Dio permette di amare e di accogliere l’altro con i suoi limiti ed errori.

       Senza il debito dell’amore misericordioso verso Dio e i fratelli si cade nella condizione di presunzione e di arroganza, che chiude la porta al prossimo, discrimina e allontana, giudica e condanna.

       Senza la consapevolezza del proprio errore e del debito di amore ci si allontana dalla Verità e si diventa “guide cieche” (Lc 6, 39).

       Spesso, come credenti, dimentichiamo questo insegnamento di Gesù e ci sentiamo forti e sicuri nella fede, “maestri” pronti a indicare il cammino e a giudicare. Gesù ci invita a non allontanarci da Lui, unico vero Maestro che illumina e guida alla Verità, perché è Verità.

         Camminare nella misericordia, per trarre fuori dal tesoro del cuore solo sentimenti buoni che edificano e non uccidono, è possibile solo nella sequela del Cristo, come esorta San Paolo: «Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore» (1Cor 15,58).

          Il peccato da combattere nel proprio cuore e nella Chiesa è l’ipocrisia, che conduce alla chiusura del cuore e alla critica del prossimo.

          L’ipocrisia è il peccato dei peccati, perché non permette di vivere nella Verità e fare verità nella propria coscienza.

       Il peccatore che si confessa presenta a Dio la propria menzogna (il peccato) ed è una forte occasione di verità dinanzi a Dio, che gli permette di essere toccato dalla grazia, dalla misericordia.

        L’ipocrita non è capace di confessare il proprio peccato, perché si nasconde dietro la propria menzogna, come se fosse uno scudo che lo protegge dalle insidie della verità e della luce. Egli si nasconde dinnanzi a Dio e a sé stesso, nella presunzione di ingannare anche gli altri. L’ipocrita è un attore, che recita il copione del credente perfetto, che finge zelo e amore per Dio e il prossimo, ma di fatto si inabissa nella sua falsità, seminando critiche e divisioni.

          Gesù è duro contro l’ipocrisia e non fa sconti, perché essa è contro la Verità, quindi è contro Dio.

         Per vincere il peccato di ipocrisia occorre vivere nella Verità, mettersi alla scuola della Verità e lasciare che essa metta a nudo la propria coscienza, senza paura e senza riserve, nella consapevolezza che la Verità di Dio edifica e non uccide, salva e non condanna.

       Camminare nella misericordia permette di allontanare l’ipocrisia e operare nell’amore vero, senza malizia e senza critiche, accogliendo e perdonando, come Dio fa con chi si apre al suo amore.

SETTIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) - 2022

“Misericordiosi: Amare senza misura”


 

(1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23 - Sal 102 - 1Cor 15,45-49 - Lc 6,27-38)

 

          Si parla tanto di amore; si desidera l’amore; si chiede amore, ma cosa è amore? Cosa vuol dire amare? In che misura amare?

       L’amore umano è certamente un sentimento positivo che coinvolge e genera felicità, ma fa i conti con la persona, con il suo bisogno naturale di “possedere”, di sentire “proprio”, assoggettando l’altro al proprio amor proprio: l’egoismo.

       Quando non si entra nella reciprocità della relazione, della accoglienza dell’altro, l’amore diventa “possesso”, “gelosia”, “proprietà”. Non si vive più nella donazione di sé, ma nella schiavitù.

L’amore non è più un sentimento positivo, aperto alla vita, ma segna la perdita della dignità e genera morte interiore.

       Amare in funzione di sé stessi porta inevitabilmente a vivere sentimenti contrastanti l’amore: diffidenza, arroganza, presunzione, facilità di giudizio di condanna, rancore, risentimento, odio.

       Costruire relazioni a partire dall’individualità, basate sulla visione del soggettivismo, difficilmente si vivrà appieno la reciprocità, perché essa sarà sempre condizionata dalla valutazione soggettiva e partirà sempre dal sé e dal suo interesse e valutazione. L’altro sarà sempre un altro “Io” con il quale confrontarsi e scontrarsi, e non diventerà mai il “noi” che genera reciprocità e amore pieno.

       La proposta di vita cristiana rivoluziona la comprensione dell’amore umano e presenta una modalità di amore che non parte mai dall’IO ma dall’altro.

       Il brano evangelico di Luca riporta l’insegnamento di Gesù sull’amore cristiano, l’amore secondo Dio: l’agape!

       «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Dà a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro» (Lc 6, 27-30).

       In questi tre versetti è espresso ciò che opposto al soggettivismo. Amare chi è opposto a me, contro di me, chi mi usa, mi deruba, mi fa del male: tutto questo è contrario alla visione e comprensione dell’IO, impossibile secondo la logica umana.

       Gesù propone, quindi, una vera e propria rivoluzione di mentalità, di volontà, di cuore!

       Una “rivoluzione copernicana” che deponga l’IO e ponga al centro di tutto Dio! L’unica modalità per vivere nell’amore cristiano e operare secondo la fede è aprire il cuore, la mente e la volontà a Dio e lasciare che Lui sia il centro del nostro esistere, operare, volere.

       Per arrivare a questo occorre incontrare, accogliere e seguire Gesù Cristo! Riconoscersi “figli nel Figlio”, amati e destinati alla vita in Dio. Occorre riconoscersi amati e perdonati da Dio, quali peccatori, egocentrici e incapaci di donare senza ricompensa ed interesse: «Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi» (Lc 6, 35).

       Amare senza interesse, senza tornaconto, senza gratitudine, senza misura: questo modo di amare è oltre la capacità umana, il modo naturale di amare secondo la logica dell’essere umano. Appena capaci di esprimere il concetto e il sentimento, l’essere umano si esprime con il “mio”: papà è “mio”, mamma è “mio”, il giocattolo è “mio”. Gli stessi capricci sono espressione dell’amore egocentrico. Impariamo a provare sentimenti a partire da noi stessi! L’altro è in funzione di noi.

       La comprensione dell’amore secondo Dio è partire dall’altro, da Dio, dal prossimo per superare il limite naturale della nostra capacità di amare.

         “Amare i nemici” è contrario ad ogni logica umana: è innaturale!

         “Fare del bene e donare senza tornaconto” è irrazionale!

       Solo nella comprensione di sé a partire da Dio tutto questo si può realizzare, sebbene non nella massima espressione, perché l’IO scalpiterà sempre per essere ascoltato e considerato!

       «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6, 36).

       Il tema della misericordia è oggetto di continua riflessione teologica. Soffermiamoci brevemente a comprendere questo versetto nel testo greco.

       Il versetto in greco è: «γνεσθε οκτρμονες καθς πατρ μν οκτρμων στν».

       Il verbo γνεσθε da γνομαι (ginomai) significa “; divenire, cioè iniziare ad esistere; divenire, essere fatto”, indica uno “stato”, una “condizione” in divenire. Il processo di crescita interiore verso “l’essere misericordioso”, come “è misericordioso il Padre”, è un cammino nella fede sotto la guida dello Spirito.

       La misericordia si vive solo in un continuo e costante cammino di crescita interiore e di rinnovamento interiore per l’azione della Grazia di Dio, dello Spirito Santo che è Amore.

       Il termine οκτρμων (oiktirmôn) misericordioso deriva da οκτρω (oiktirô) compatire, avere compassione. La compassione di Dio a cui tendere è amore senza riserve, senza limiti, senza tornaconti. È amore gratuito, compassionevole, pronto a rialzare nella difficoltà e perdonare perché prende in considerazione solo la persona e non il suo atto.

       Essere misericordiosi significa amare il prossimo in quanto persona, prendersi cura a partire dalla sua persona e non dai suoi atti. Significa essere pronti ad amare perché consapevoli di essere amati e perdonati continuamente da Dio, pertanto, amare il prossimo è rispondere all’amore di Dio verso noi stessi.

       Essere misericordiosi è di fatto un processo di continua conversione interiore, un operare in primis su sé stessi per arrivare ad amare il prossimo con la “misura di Dio”.

       Divenire misericordiosi è lasciarsi amare da Dio e amare con l’amore ricevuto da Dio, liberi da logiche di interessi, calcoli matematici di misure d’amore, perché Dio ama sempre in misura maggiore.

       Gesù esplicita la modalità di essere misericordiosi nei versetti seguenti: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6, 37-38).

         Assenza di giudizio: che non è assenza di valutazione, ma di condanna. Non si tratta di non riconoscere l’errore, ma non ridurre la dignità della persona all’errore commesso. Questo richiede umiltà di cuore, apertura a Dio e piena consapevolezza del proprio limite e capacità di errore. Richiede essere capaci di scandalizzarci del proprio peccato piuttosto che di quello altrui!

           Assenza di condanna: possibile solo se si ha la piena consapevolezza del proprio limite e dei propri errori; consapevolezza e coscienza di quanto bisogno personale abbiamo di essere accolti, perdonati e non condannati! Solo partendo da una forte e profonda esperienza di perdono da parte di Dio e avendo una coscienza morale formata e matura si potrà evitare di condannare!

         Capacità di perdonare: il perdono non è una possibilità e capacità naturale dell’essere umano, proprio per la sua naturale egocentricità. Il perdono è “dono” di Dio gratuito e rigenerante. Solo se si è fatta una profonda esperienza di perdono da parte di Dio si è capaci di perdonare. Per questo occorre un cammino di fede serio, nell’ascolto della Parola, lasciando che essa illumini la propria coscienza e divenga il criterio di valutazione e discernimento della vita.

        Usare la misura alta e grande dell’amore: questa è la specificità della fede cristiana! L’amore, l’agape come misura del vivere, del relazionarsi con il prossimo.

       Il cammino di fede autentica, dunque, non consiste nelle pratiche religiosi, nelle devozioni, ma in un continuo e costante lavoro interiore per raggiungere l’essere misericordioso, nella misura e modalità di Dio Padre.

        La preghiera e la vita sacramentale, se non sono vissute come apertura all’amore, cammino di conversione e presa di coscienza del bisogno di perdono da Dio, restano solo pratiche religiose vuote e diventano esse stesse “giudizio di condanna” per la propria vita.

        La specificità della vita cristiana è vivere nell’Amore di Dio incontrato, ricevuto e donato; è un cammino in divenire per giungere alla pienezza dell’essere “misericordiosi”, partendo dalla esperienza personale di perdono ricevuto.

SESTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) - 2022

“Efficienza o Identità?”


 

(Ger 17,5-8 - Sal 1 - 1Cor 15,12.16-20 - Lc 6,17.20-26)

 

       «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore» (Ger 17, 5).

       L’ultima redazione del testo del profeta Geremia risale al V secolo a.C. e questa espressione è quanto mai attuale a oltre duemila anni di distanza.

       L’uomo che confida in sé stesso e nel suo simile è di fatto la realtà della vita umana di sempre, ma nella nostra società è ancor più pesante perché aggravata da una soggettività sempre più esasperata che porta l’uomo a essere idolo di sé stesso.

       Un’altra forte sottolineatura del profeta è quanto mai attuale: “porre nella carne il proprio sostegno”. Nella nostra società la vita è basata e ruota tutto attorno alla efficienza fisica, al punto che venuta meno perde di senso il vivere e la persona non più efficiente è considerata un peso per la società.

       Di fatto se oggi la fede è vissuta dalla minoranza delle persone è inequivocabile la ragione di fondo: al centro del cuore dell’uomo c’è l’Io e di conseguenza non c’è spazio per Dio!

       L’uomo confida in sé stesso e ha per idolo il suo essere, il corpo sano, forte, atletico, scevro dalla sofferenza e dall’invecchiamento, in piena efficienza.

       Il culto per la propria efficienza e aspetto fisico viene celebrato con la medicina estetica, la lotta contro i segni dell’età che avanza, pretendendo di apparire giovani, quasi immortali.

       La sofferenza, compagna naturale della vita, insita nella condizione umana, viene esorcizzata insieme alla fine stessa della vita, la morte, sulla quale si pretende di avere il controllo, decidendo quando e come deve verificarsi.

       In questa prospettiva di vita, tutta basata sulla efficienza, perde di valore la componente spirituale, psichica, morale dell’esistere. Relazioni, sentimenti, affetti, scelte di vita e giudizi etici sono tutti sottoposti alla comprensione della vita in termini di efficienza e qualità. La metafisica, cioè il ragionare sugli aspetti più autentici e fondamentali della realtà, oltre, quindi, l’esperienza sensibile, materiale, è assente dal pensiero comune, anche trattando questioni sentimentali, relazioni affettive e valori morali. Tutto è sottoposto alla materialità, alla “carne”, alla vita fisica nella sua espressione piena ed efficiente.

       Il discorso di Gesù sulle beatitudini, come riportato dall’evangelista Luca, contrapposto a quello dei “guai”, è comprensibile e attuabile per l’uomo di oggi solo se incontra e riconosce Gesù come il Cristo, il Signore, il Maestro, morto e risorto.

       Solo nella vita di fede si comprende ed attua l’insegnamento delle beatitudini. Senza l’incontro con la persona del Cristo, che rigenera e apre ad una comprensione piena della vita, oltre il limite della efficienza fisica, si riesce a comprendere quanto è pieno e liberante vivere la vita nella logica della “povertà”, della “indigenza”, della “sofferenza” ed “esclusione”.

       Vivere nella “logica della povertà” richiede umiltà e consapevolezza di non essere niente, se non destinati alla morte, per cui la vera ricchezza: non si identifica nella ricchezza materiale, ma in quella morale; non si raggiunge a danno del prossimo, ma favorendo una comunione, condivisione di vita.

       Vivere nella “logica della indigenza” significa riconoscersi nel bisogno, nell’avere fame e sete di amore, di rispetto e di perdono. Significa comprendere che senza il prossimo e senza Dio non ha valore ciò che si è e si ha. Vivere nella logica dell’indigenza significa sentire fame e sete dell’altra persona, del prossimo, in quanto fonte di amore e di senso per la propria vita.

       Vivere nella “logica della sofferenza e dell’esclusione” significa riconoscersi fragili, deboli, mortali. In questa logica si comprende il vero valore della vita e si impara a lottare per quello che conta davvero, per valori che sono oltre il materiale e il tempo.

       Cristo risorto, nostra salvezza e redenzione, ci invita a non dimenticare che siamo destinati alla vita in Dio e che in questa esperienza terrena abbiamo il tempo per educarci e formarci alla vita in Dio mediante la relazione di amore, di attenzione, di perdono, di accoglienza verso il nostro prossimo, sempre tesi alla vita futura.

       La sapienza e la pienezza del vivere non sono dunque espresse nella prestanza ed efficienza di quanto possiamo fare ed ottenere in questa esistenza, ma in ciò che di più alto e bello possiamo esprimere, considerando la nostra natura umana creata ad “immagine e somiglianza” del Cristo, del Maestro, del Pastore bello, che ci insegna ad amare oltre ogni interesse e possibilità.

       Felicità, beatitudine e realizzazione di sé si raggiungono vivendo nella logica dell’essere e non del fare; del dono e non del possedere.

       All’uomo di oggi, ancor più ricurvo e confidente sulla sua condizione umana, tutta centrata sull’apparire e sull’efficienza, come credenti siamo chiamati a donare la gioia di riconoscersi amati e perdonati da Dio, appartenenti a Lui e destinati alla vita in Lui.

       Al mondo che esalta una vita per la prestanza fisica e nel pieno delle possibilità di fare, esorcizzando sofferenza e morte, siamo chiamati, come credenti, a donare la testimonianza di una vita riconosciuta come dono di Dio, dove l’essenziale non è apparire, ma essere. All’idolatria del corpo e dell’efficienza fisica rispondiamo con la fede nel Dio di Gesù Cristo, testimoniata dalla vita secondo le beatitudini, tutta centrata nell’amore di Dio per accogliere il prossimo e dare senso ad ogni età della vita fino al suo epilogo.

       Alla cultura dell’efficienza rispondiamo con la forza dell’identità, per cui la dignità umana non dipende da quello che può fare, ma da quello che è. L’identità e la dignità dell’essere umano è molto di più di quello che può fare, realizzare e desiderare, perché è espressione dell’amore che lo ha chiamato ad esistere: l’amore di Dio, in primis, e quello di chi lo ha generato. Nella logica della donazione e dell’identità si realizza in pienezza l’essere umano, vivendo da “beato” perché capace di operare per il bene proprio e del prossimo.

QUINTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) - 2022

“Annunciare il Vangelo nell’oggi personale e della storia”


 

(Is 6,1-2.3-8 - Sal 137 - 1Cor 15,1-11 - Lc 5,1-11)

 

         La fede si trasmette mediante l’annuncio, la predicazione, la testimonianza. Il Vangelo, la buona notizia, va annunciato con la parola e con la vita.

          L’annuncio della fede, l’evangelizzazione non ha mai fine ed è sempre attuale, nell’oggi della storia.

       Oggi parlare di evangelizzazione è quanto mai necessario non solo nei luoghi in cui non è conosciuta la fede cristiana, ma molto più urgente proprio dove il cristianesimo è radicato e si è sviluppato, come nell’Italia e nell’Europa.

        Parlare di evangelizzazione non significa rivolgersi esclusivamente e necessariamente a chi ignora o non conosce il Vangelo, ma è divenuto urgente e fondamentale anche per chi si professa cristiano e afferma di vivere la fede e ciò perché la nostra cultura è di fatto scristianizzata ed è facile presumere di vivere la fede, ma di fatto si è appena nella condizione di una prassi religiosa, di una religiosità tradizionale, tante volte anche priva di fondamenti teologici e valoriali.

        Evangelizzare è l’essenza del cristiano. San Paolo lo ricorda con fermezza quando afferma: «guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Cor 9,16. Si veda tutta la pericope 9,16-23)

         Il Vangelo scardina gli schemi e le sicurezze umane, le logiche e i punti di riferimento del pensare e agire umano; si impone come fonte e riferimento nuovo della vita in virtù dell’incontro con il Cristo.

       Per vivere il Vangelo e annunciarlo occorre partire dall’incontro con Cristo. Si tratta di riconoscerlo Maestro e di fidarsi di Lui: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,5).

        Gesù incontra l’uomo nella sua storia di limite e di fatica; di successo o fallimento; di povertà o di ricchezza. Nella concreta esperienza di vita Egli sovverte ogni logica e ogni schema, offrendo una possibilità e una prospettiva diversa a partire dal suo Amore, dalla relazione di fiducia con Lui.

        A ben comprendere è Lui che per primo si fida dell’umanità, si propone avendo fiducia nell’essere umano offrendogli la possibilità di vivere nella fiducia verso di Lui, verso la sua Parola e il suo Amore.

        Questa relazione di fiducia parte sempre dalla consapevolezza di ciò che si vive e, di conseguenza, di ciò che si è. Il profeta Isaia si riconosce “uomo dalla labbra impure” e Pietro di “essere un peccatore”. Da questa consapevolezza inizia la vera evangelizzazione, e cioè rendersi disponibili ad accogliere, vivere e annunciare la Parola di Dio!

         La fede non annulla la fragilità, il peccato, ma rende capaci di comprendere la fragilità e riconoscere il peccato presente nella propria vita, ma di riconoscere che nonostante questo Dio offre la possibilità di vivere nel suo Amore. La fede diventa capacità di lottare contro il peccato e nello stesso tempo rende disponibili ad annunciare quello in cui si crede, senza nascondere il proprio limite; senza negare il proprio peccato; con la fiducia piena in Colui che ama e perdona chi lo accoglie in umiltà e semplicità di cuore.

          Spesso si presenta la fede come “perfezione”, l’avere fede come uno stato di “eliminazione di ogni errore e peccato”. Si concepisce la vita di fede come uno stato di grazia in cui non c’è errore, per cui il credente è “perfetto” per il solo praticare la fede, mentre chi non ha fede e non vive secondo la religione è nella perdizione, perdendo la sua dignità di persona, di figlio di Dio.

       Questa logica, che spesso si registra nei credenti, non permette di certo una autentica evangelizzazione, anche perché spesso la presunzione di perfezione è accompagnata da errori e scandali che allontano e impediscono la conversione di chi non crede, è scettico o indifferente alla religione.

         Nel contesto agnostico attuale, nella pluralità di pensiero e di esperienze, nel confronto diretto con altre religioni per convivenza e non per la semplice conoscenza culturale, è necessario che la fede sia annunciata con semplicità, disponibilità, senza riserve e presunzioni, nella disponibilità totale del cuore e nella consapevolezza di “essere impuri, peccatori” e “bisognosi della Grazia di Dio”.

         Dio ha scelto di fidarsi e affidarsi a uomini fragili, peccatori, irascibili, rozzi, ma anche di cultura, con padronanza di lessico e di dialettica, ma pur sempre con il limite umano, e questo perché deve essere Lui ad essere annunciato, fatto conoscere e seguito.

         «Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!»» (Is 6,8)

         Avere fede comporta sentire l’urgenza di essere inviati da Dio ad annunciare, parlare al cuore del prossimo, testimoniare le meraviglie di Grazia compiute in noi.

       La fede esige l’evangelizzazione che è parlare “cuore a cuore”, mostrando e facendo toccare la propria miseria rigenerata e rinnovata dall’incontro con Cristo.

         La fede si vive e si dona mediante l’umano perché si possa comprendere e incontrare l’Amore misericordioso di Dio e lasciarlo operare in noi, rendendoci “sorgenti vive e zampillanti” della Grazia.

       San Paolo ci dona la sua testimonianza indicando chiaramente che evangelizzare è un atto di amore verso Dio e i fratelli, ed è solo nella consapevolezza che è Dio che opera in noi, mediante la fragilità del nostro essere, che si può raggiungere il cuore del prossimo: «[…] apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io, infatti, sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.» (1Cor 15,7-10).

       Chiamati nella fede da Dio ad annunciarlo al prossimo, teniamo ferma l’attenzione sul proprio peccato e fragilità, per essere veri evangelizzatori nell’oggi della storia e raggiungere il cuore del prossimo, senza giudizio e senza esclusione.


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