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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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I DOMENICA DI AVVENTO (ANNO A) - 2022

“Vegliare: destare la coscienza!”


 

(Is 2,1-5 - Sal 121 -Rm 13,11-14 -Mt 24,37-44)

 

         «Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà» (Mt 24, 42).

         Eccoci all’inizio di un nuovo Anno Liturgico. Iniziamo un nuovo cammino di fede con la preparazione alla Solennità del Natale.

       Il ripetersi degli eventi, delle grandi celebrazioni e dei momenti “forti” della Liturgia possono far incorrere nel rischio di vivere tutto con monotonia o, peggio ancora, con indifferenza e superficialità.

        Per questo la Parola di questa prima domenica di Avvento ci invita alla “Vigilanza”: il rischio di cadere nella monotonia e apatia spirituale è per tutti e di fatto non tanto per il susseguirsi delle stesse celebrazioni ed eventi, ma proprio perché manca l’atteggiamento stimolante e attivo della vigilanza, che spesso è soppiantato dal dare per scontato di camminare con Dio per il semplice fatto che ci riteniamo credenti!

       Se ci guardassimo attorno e dentro di noi, con una corretta e seria introspezione ed esame di coscienza, noteremmo di certo quanto è reale e facile cadere nell’apatia spirituale, data dalla routine e dalla ripetizione di eventi che poco incidono, ormai, sulla quotidianità della vita.

       La società, in particolare quella occidentale, è tutta orientata al consumismo e a vivere gli eventi come occasione di svago e di commercializzazione.

       Gli scaffali dei negozi sono già pronti per il commercio delle feste natalizie: tutto per vivere un momento che sempre meno ha a che fare con Cristo, con la fede in Dio e con la Salvezza donata da Dio per l’Incarnazione, morte e resurrezione di Gesù Cristo.

       Il Nichilismo, teoria divenuta celebre con il filosofo F. Nietzsche (1844-1900), che promuove e accelera il processo di distruzione degli ideali tradizionali, per rendere possibile l'affermazione di nuovi valori, è oramai radicato nella cultura odierna.

       Sebbene si continua a vivere le tradizioni del Natale e gli eventi della cristianità, essi sono stati svuotati di senso o, comunque, relativizzati.

       Il riferimento alla fede nel Dio cristiano è ormai accessorio. L’evento della Incarnazione è divenuto un fatto di commercio e una usanza comune per vivere un momento di relax, di festa e, se ancora presente, di famiglia.

       In questo contesto culturale, l’invito di Gesù Cristo di “Vegliare” risuona con forza e deve far destare le coscienze, assopite e adagiate comodamente in una illusa certezza di cammino di fede, a riprendere con rinnovato vigore e attento discernimento la sequela di Cristo.

       La vigilanza è l’atteggiamento fondamentale della sequela del Cristo, che il credente attua mediante un discernimento attento delle vicende della quotidianità perché siano vissute nella ricerca del Bene e nella fedeltà alla Volontà di Dio Padre in Cristo Gesù.

       Tradotto in altre parole, significa vivere ogni momento senza mai distogliere l’attenzione della coscienza, del cuore e della mente, dalla ricerca di vivere secondo l’insegnamento di Dio.

       Significa domandarsi costantemente ed in ogni occasione cosa fare per rimanere e crescere nella fedeltà a Dio.

       Il tempo di Avvento, dunque, non è semplicemente il tempo liturgico della preparazione al Natale di Gesù Cristo, ma l’atteggiamento fondamentale del cristiano che vive in continua tensione verso Dio cercando di compiere la sua volontà nella routine della quotidianità e nella normalità della vita.

       La “vigilanza” è, dunque, la costante ed attenta ricerca del Bene da vivere e da compiere, perché l’impegno personale di fede diventi “lievito”, “sale” e “luce” nelle circostanze concrete della vita per una autentica e attiva testimonianza della propria appartenenza a Cristo.

       Dio ci conceda di vivere questo nuovo Anno Liturgico, segnato dalla guerra, dalla povertà sempre più in crescita, dal nichilismo imperante e dal forte lassismo delle coscienze, con un nuovo e costante slancio ed impegno di fede, per essere sempre più attivi e coraggiosi nell’annuncio della Verità e nella Carità.

       Destiamoci, scuotiamo dal torpore le nostre coscienze e rinnoviamo con slancio e piena volontà l’impegno a vivere la nostra fede nella concretezza, semplicità e ruotine della nostra vita.

       Chiediamo con fede a Cristo Gesù che la preparazione alla solennità del Natale sia vissuta con rinnovato vigore di fede, per rispondere alla sua chiamata alla “vigilanza”, affinché la nostra società e, in particolare i bambini, i ragazzi e i giovani, possano riconoscere in noi credenti dei veri testimoni e attivi operatori nel Bene in Verità e Carità.

XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) - 2022

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo

“Il primato di Cristo nella vita”


 

(2Sam 5,1-3 - Sal 121 - Col 1,12-20 - Lc 23,35-43)

 

       «Costui è il re dei Giudei» (Lc 23, 38).

       Riconoscere che Gesù è Re, proclamare la fede in Lui e vivere una relazione di sudditanza, di sottomissione, è certamente anacronistico.

       Come annunciare che Gesù è Re e Signore nell’oggi in un dialogo proficuo con la cultura moderna?

       È possibile solo se il credente vive la fede nella gioia, se la sua vita testimonia la fiducia, la felicità e la serenità di chi sa di essere amato e accolto da Dio nonostante il proprio limite e fragilità.

       In questa relazione con Dio, i concetti di regalità e di sottomissione trovano una accezione diversa da quella che si sperimenta nelle relazioni umane.

       La regalità di Dio e la sottomissione del fedele esprimono un incontro nell’amore e un riconoscere che senza di esso la vera condizione dell’umanità è quella di schiavitù e perdita di sé stessa in una costante tensione di egoismo e di male.

       Nella relazione di fede vera, la regalità di Cristo è segno di amore gratuito ricevuto al quale il credente risponde dando a Cristo il “primato” nella sua vita, ponendolo al centro del suo vivere e lasciandosi illuminare e guidare dalla sua Parola.

       Cristo è il Re perché la sua autorità si manifesta nell’Amore totale e gratuito che dona all’umanità!

     Ha amato per primo e senza condizioni, per questo la sua regalità non esprime dominio, ma servizio! La sudditanza del credente, di conseguenza, non è annichilimento di sé, ma piena realizzazione nell’amore, nella libertà donata da Cristo e nell’amore del prossimo.

     Celebrare Cristo quale Re dell’universo significa proclamare con la vita il potere rigenerante e liberante del suo Amore donato fino al sacrificio di sé sulla croce.

     Nel dono di obbedienza d’amore al Padre per noi, il credente impara la modalità di vita nella sottomissione nell’amore: obbedire, cioè rivolgere l’attenzione, l’ascolto, alla proposta di Amore da parte di Dio, riconoscendo che la Legge di Dio non umilia e limita, ma esalta e libera il credente.

      Da qui l’espressione della fede, la pratica religiosa, non può che essere un “gareggiare nella stima reciproca e nell’amore fraterno” (cfr. Rm 12, 5-16). Un autentico e costante impegno nell’accogliere e rispettare l’altro, servirlo liberi da interessi e giudizi, avendo come misura e metro di valutazione l’amore di Dio in Cristo: «Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi, infatti, non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 4, 19-21).

     La Chiesa, comunità di coloro che amano e servono Cristo Re, deve essere espressione concreta e coerente dell’Amore di Dio in cui ogni persona possa sentirsi accolto, amato e guidato a conoscere e vivere la sua adesione a Cristo.

     Nonostante il limite e la fragilità di ogni singolo credente, la Chiesa resta espressione dell’Amore di Dio perché, nella vita sacramentale e nella azione pastorale, essa è il luogo dove ogni persona può e deve sentirsi amato ed accolto.

     L’attenzione del cristiano deve, quindi, essere tutta rivolta a rendere visibile nella sua vita il primato di Cristo e del suo amore con un cammino di costante conversione e di crescita nell’umiltà.

      A Cristo Re e Signore salga la lode gradita non solo con le labbra, ma con i gesti di amore e di fraternità.

XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) - 2022

“La perseveranza nel bene”


 

(Ml 3,19-20 - Sal 97 - 2Ts 3,7-12 - Lc 21,5-19)

 

          «Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (Lc 21, 19)

         La perseveranza è la virtù che impegna l’uomo a lottare per il conseguimento del bene senza arrendersi di fronte agli ostacoli e lasciarsi vincere dalla stanchezza e dallo sconforto.

          La perseveranza si acquista tenendo fisso lo sguardo sul bene, sull’Amore di Dio grazie al costante ascolto della Parola, la preghiera di adorazione e di lode e la grazia sacramentale.

          Il conseguimento del bene, però, non è da intendersi come bene per sé in senso egoistico, ma è il bene di tutti. Comporta operare nel bene e per il bene, quindi tutto deve concorrere per la realizzazione del bene a favore di tutti. Non si limita alla realizzazione di sé, ma è impegno perché ognuno possa raggiungerla per quel che dipende dal singolo.

         Operare nel bene e per conseguire il bene significa, dunque, vivere un attento e costante discernimento delle circostanze, delle situazioni concrete in cui viviamo, delle dinamiche sempre più complesse e articolate. Occorre impegno nel conoscere, valutare e scegliere perché l’agire del singolo produca bene per sé, per il prossimo e per l’intera società.

         Di conseguenza, perseverare nel bene è impegno nella lotta del male in tutte le sue forme e situazioni, evitando sia l’agire diretto che indiretto, sia la cooperazione materiale che formale.

         Perseverare nel bene richiede una coscienza morale vigile, matura e ben formata. Occorre che il riferimento della vita non sia l’ego personale, ma Dio e il suo Amore. Occorre porre al centro del proprio essere Dio, riconoscendo che vivere per Lui significa vivere appieno sé stessi, realizzandosi nel bene e vivendo nella vera libertà di chi si riconosce figlio e fratello di ogni altra persona umana.

       La società consumistica, la cultura odierna e l’individualismo esasperato in cui viviamo, di certo non favoriscono la formazione della coscienza secondo l’insegnamento della morale cristiana, l’accoglienza della Legge di Dio come via da seguire per il proprio vivere quotidiano.

         In una società in cui il bene è esclusivamente ciò che è bene per il soggetto; in una cultura del relativismo etico e della esaltazione della soggettività e libertà individuale; in una società edonista Dio ha sempre meno posto nel cuore dell’uomo e la coscienza personale è sempre più quiescente.

           L’espressione “che male c’è, lo fanno tutti” è sempre più diventata la giustificazione ad una assenza ed incapacità di discernimento.

          Impegnarsi con costanza e continuità appare sempre più faticoso e limitante, per cui si accoglie solo ciò che non impegna e che è facile sbarazzarsene.

       La logica consumistica del “usa e getta” ormai regola anche la vita sentimentale e i rapporti interpersonali. L’altro è sempre più considerato un peso ed un ostacolo alla libertà e realizzazione di sé e del proprio piacere. Fin quando genera per sé piacere e benessere lo si considera parte della propria vita, altrimenti lo si scaccia ed esclude da tutto.

          Essere di Dio, appartenere a Dio Padre in Cristo Gesù e vivere la vita di fede, di relazione d’amore con Dio e il prossimo, deve significare essere contro corrente di fronte al pensiero comune della odierna società.

       Deve significare impegnarsi nel perseverare in ogni scelta di bene e nell’attento e costante discernimento per vivere sempre come testimoni coerenti della fede in Dio.

          Perseverare nel bene in una costante tensione verso Dio, per raggiungere la vita piena in Lui: la santità!

        Tutto ciò non significa estraniarsi dalla vita terrena, compiere cose straordinarie e particolari; significa, invece, vivere in pienezza il tempo presente sempre attenti a operare nel Bene a favore di tutti; discernere il bene dal male; denunciare in libertà ed umiltà il male; “rendere ragione della speranza”, come dice San Pietro (1Pt 3, 15-16), annunciando in umiltà l’Amore di Dio con gesti, parole e pensieri che accolgano l’altro e facciano comprendere che la fede è per tutti e non per eletti.   

XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) - 2022

“Vivere in Dio e per Dio”


 

(2Mac 7,1-2.9-14 - Sal 16 - 2Ts 2,16-3,5 - Lc 20,27-38)

 

       «Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui» (Lc 20, 38)

La vita ha valore?

      Tutti siamo pronti a rispondere affermativamente e con fermezza a questa domanda, eppure il valore dato alla vita è relativo e non assoluto.

       Grazie allo sviluppo scientifico, la durata della vita terrena si è allungata, eppure non sempre è apprezzata perché condizionata dalla logica dell'efficienza, della possibilità di fare, dal mito dell'eterna giovinezza.

        La morte, concepita come sconfitta della vita, è esorcizzata esaltando le varie forme e manifestazioni di svago, di libertà, di esuberanza, di divertimento.

         Sebbene si abbia paura della morte si vuole avere l'ultima parola sulla vita decidendo come e quando porre fine alla esistenza terrena.

        In questa esaltazione della vita, della sua efficienza e del potere della persona sulla determinazione della propria esistenza, chi ne paga il prezzo più alto è la vita stessa, perché non ha valore in sé ma in quello che può fare e produrre.

      Questo orientamento del vivere esclude Dio e l'accettazione di una vita in Dio per l'eternità. Se tutto termina con la morte, Dio non ha ragione di essere presente nella esistenza della persona umana.

Come rieducare alla comprensione della vita come dono di Dio e destinata alla vita eterna in Lui?

       Credo che l'unica via idonea ed efficace sia quella della Santità, non come condizione riservata ad eletti, ma come quotidiana fragilità e vita comune abitati da Dio.

        La santità è di fatto la condizione del battezzato che si lascia abitare dalla Grazia di Dio, che consapevole della propria debolezza si affida a Dio e con il suo Amore vive la quotidianità nell'attento discernimento di ciò che è bene e genera bene attorno a sé.

        Credere in Dio e vivere in Dio è la missione quotidiana del battezzato, che si realizza nell'ordinarietà della vita e non nella straordinarietà dei gesti

       Vivere la fede nel "Dio dei viventi" significa, dunque, vivere appieno la vita come valore assoluto, un dono ricevuto da fare fruttificare mediante opere di bene, nella carità, vincendo ogni egoismo ed esaltazione della soggettività morale.

        Essere e vivere da cristiani implica camminare nella santità, cioè nella comunione con Dio, seguendo il suo insegnamento e compiendo il bene possibile nella concreta condizione.

        La vita trova il suo massimo e completo valore solo nella misura alta della santità, perché così la vita della singola persona non si richiude in una ricerca egoistica di benessere, della propria felicità e nell’appagamento dei propri piaceri, ma nell’impegno di reciprocità affinché ognuno viva e renda possibile la personale realizzazione nel bene.

        Per questo il cristiano non ha paura della morte, non ha bisogno di esorcizzarla, né la celebra con manifestazioni o festeggiamenti vari, ma la considera un momento dell’esistenza terrena, che determina il compimento di un tempo che apre all’eternità.

       Perciò il tempo non sarà mai tempo di “noia” e “privo di senso”, ma ogni istante del tempo terreno sarà opportunità da cogliere per attuare l’adesione alla vita in Dio nella carità e verità.


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