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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

Dall’io al noi: vinta la sclerocardia


 

(Gen 2,18-24 - Sal 127 - Eb 2,9-11 - Mc 10,2-16)

 

       «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gn 2,18)

       Le parole di Genesi, della prima lettura, affermano in modo inequivocabile che Dio ci ha creati per la reciprocità e complementarità!

     Siamo stati creati ad immagine e somiglianza di Dio e questo vuol dire che, come Dio, siamo fatti per la relazione, riconoscendo nel prossimo “un aiuto che ci corrisponda”, in particolare nella relazione con il proprio partner, nella relazione di coppia, nell’amore sponsale.

       Il Sacramento cristiano del matrimonio, non è semplicemente un contratto, ma è “accogliere” e “riconoscere” l’altro/a come parte della propria vita, “carne della propria carne”; è “divenire”, per l’amore donato reciprocamente nella fedeltà e unicità, proprie dell’amore di Dio, “una carne sola”.

      Questo progetto alto, a cui Dio chiama i propri figli nella fede, eleva il sentimento umano dell’amore, l’eros, all’amore gratuito e totale di Dio, l’agape.

       Scegliere di celebrare il matrimonio come sacramento cristiano, impegna nella fedeltà, unicità ed indissolubilità della relazione coniugale.

       Sappiamo bene che questo impegno, per quanto possa apparire scontato quando si ama, non è facile da vivere, perché bisogna superare la visione connaturale egoistica per aprirsi alla reciprocità come dono: passare dall’io al noi!

      Gesù ci indica come poter superare il proprio ego ed aprirsi alla vera reciprocità, come passare dalla logica dell’io a quella del “noi”: occorre amare come Dio, con l’amore di Dio, innestati nell’amore di Dio. Senza la preghiera, l’ascolto della Parola di Dio, il vivere nella sua volontà seguendo i suoi comandamenti, non sarà possibile.

       Innestati nell’amore di Dio e rimanere in esso significa amare senza misura, senza condizione, senza interesse, senza tornaconto, ma nella gratuità, nella disponibilità, nella totalità e nell’interesse altrui.

       Dio ci ama a prescindere dalla nostra risposta, dalla nostra fedeltà, dalla nostra capacità e ci educa, ci corregge, ci guida ad amare oltre le nostre misure e capacità, possibilità e condizioni.

      L’essere umano trova la sua piena espressione di vita nella reciprocità e nell’amare. La felicità, che ogni persona cerca e anela per la propria vita, altro non è che amare e sentirsi amati.

       Ogni volta che la persona distoglie lo sguardo dal prossimo, rinunciando alla reciprocità e privilegiando la personale esigenza ed interesse, tradisce l’amore e inizia il processo di indurimento del cuore.

     Nel brano evangelico di Marco, i farisei mettono alla prova Gesù sull’amore coniugale e sulla legge di Mosè. Gesù rimanda all’origine, all’essenza dell’amore e all’immagine e somiglianza impressa nell’uomo da Dio.

     Per Gesù il tradimento dell’amore e il dimenticare l’origine in Dio produce la “durezza del cuore”: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma» (Mc 10, 5).

      Il termine greco è σκληροκαρδα (sklêrokardia), parola composta da σκληρς (sklêros), duro, aspro, grezzo, rigido, καρδα (kardia), il cuore.

     Il cuore duro è frutto dell’egoismo, della chiusura all’altro, del tradimento della reciprocità. Il cuore duro è frutto del tradimento dell’amore!

        Ogni volta che si ripiega lo sguardo su sé stessi, pensando di proteggere il cuore dal dolore, dalle ferite, dalle offese, dal male in generale, di fatto lo si indurisce e lo si rende incapace di amare, insensibile, sempre meno capace di reciprocità.

       Se ci guardiamo dentro e attorno a noi non possiamo non riscontrare tanta presenza di “sclerocardia”, di “durezza del cuore”: nelle famiglie; sul posto di lavoro; nei rapporti di amicizia; nelle istituzioni; nelle comunità di fede.

       Tante situazioni in cui l’interesse, il tornaconto, l’egoismo, abuso di potere, il giudizio, il pettegolezzo, la mancanza di rispetto nelle sue diverse forme minano e distruggono i rapporti, la reciprocità, l’amore.

        Nelle comunità di fede tante consuetudini e la stessa “legge divina” vengono spesso evocati non per edificare e guidare, ma per escludere e condannare.

       Quante divisioni e fazioni in nome della fede! Quanti giudizi e rotture di rapporti in nome della fedeltà al Vangelo! Quanti posti di servizio vengono trasformati in autoritarismi e potere.

        Tutte queste dinamiche non sono certo secondo l’amore di Dio, né possono essere evocati come debolezze e limiti dell’amore umano: sono vere e proprie forme di “durezza del cuore”, che conduco alla divisione e al peccato verso Dio e verso il prossimo.

       L’amore è un sentimento in continua crescita, evoluzione. L’amore per essere pieno e vero deve passare necessariamente attraverso il crogiolo delle purificazioni, delle mortificazioni, delle prove, delle rinunce per l’altro.

       L’amore è più che un sentimento; è “vita in donazione”!

       Quando perdiamo di vista la donazione di sé all’altro e ci fermiamo a considerare noi stessi, mettiamo in moto il processo di “sclerocardia”, danneggiando noi stessi e il prossimo.

       L’amore esige impegno, dedizione, constante messa in gioco di sé senza remore e riserve, ma nella disponibilità e libertà.

       Papa Benedetto XVI, nella sua prima Enciclica “Deus Caritas est”, ci aiuta a comprendere la realtà dell’amore e il modo di amare secondo Dio il prossimo: «[…] l'amore non è soltanto un sentimento. I sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell'amore. (Nel) processo delle purificazioni e delle maturazioni, […] l'eros diventa pienamente sé stesso, diventa amore nel pieno significato della parola. È proprio della maturità dell'amore coinvolgere tutte le potenzialità dell'uomo ed includere, per così dire, l'uomo nella sua interezza. […] Si rivela così possibile l'amore del prossimo nel senso enunciato dalla Bibbia, da Gesù. Esso consiste appunto nel fatto che io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco o neanche conosco. Questo può realizzarsi solo a partire dall'intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a toccare il sentimento. Allora imparo a guardare quest'altra persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo. Il suo amico è mio amico» (n. 17-18).

       Per conservare la propria vita nell’amore e viverla in pienezza abbiamo un modello da seguire, Gesù Cristo, il quale ci invita ad amare come Lui ama e ad imparare da Lui, “mite ed umile di cuore” (Mt 11, 29).

       Gesù ci insegna che la pienezza dell’amore si raggiunge nell’umiltà e nella mitezza, unici requisiti per accogliere la volontà di Dio e amare il prossimo nella autentica “reciprocità e complementarità”.

       Per alimentare in noi l’amore e raggiungere la piena maturità umana e cristiana dell’amore occorre sempre più esercitarsi a vivere tre fondamentali comportamenti e stili di vita:

    1. Non giudicare, ma saper ascoltare;
    2. Non approfittare e usare dell’altro, ma saper dire “Grazie”;
    3. Non inorgoglirsi e chiudersi, ma saper chiedere “Scusa”, anche quando si presume di avere ragione, sull’esempio del Giusto, il Signore Gesù Cristo, che dalla croce disse: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34), e secondo il suo insegnamento: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato» (Lc 6, 37).

       Vivere la fede cristiana non è questione di dottrina o di ritualità di culto, ma adesione alla volontà di Dio, accoglienza del Regno di Dio: questo richiede un cuore disposto di amare come ama Dio, senza malizia, con animo libero, aperto e fiducioso, con docilità e con fede, come i fanciulli: «chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10, 15).

       Solo un cuore libero da egoismi ed interessi, costantemente attento a crescere nell’amore, aperto alla reciprocità con Dio e il prossimo, saprà superare la “durezza del cuore” e vivere nella volontà di Dio costruendo il suo Regno con una coscienza retta e pura e opere di carità nella verità.

XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“Determinati nella santità”


 

(Num 11,25-29 - Sal 18 - Giac 5,1-6 - Mc 9,38-43.45.47-48)

 

       «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare» (Mc 9, 42)

             Scandalizzare, nel dizionario Treccani, è spiegato così: Offendere con parole, modi o azioni scandalose, la coscienza, il senso morale, il pudore di altri, suscitando riprovazione e sdegno; Mettere in imbarazzo, turbare la suscettibilità altrui con parole e azioni scandalose, o comunque inopportune, ritenute contrarie alla convenienza.

          Parlare nel contesto culturale e sociale di oggi di turbamento della coscienza, di offesa al pudore, di imbarazzo sembra quasi un paradosso. Il senso del pudore, i valori morali sono ridotti al sentire e valutare personale.

            Oggi si grida allo scandalo in riferimento ad atti eclatanti, di efferata violenza o commessi da personaggi pubblici, riservando alla libertà personale condotte immorali che non coinvolgono più di tanto altri soggetti, quasi a dire che tutto è lecito se rimane nell’ambito privato e consensuale.

             Il riferimento alla morale è, dunque, un discorso soggettivo. La fede stessa è qualcosa di intimo e personale, per cui il riferimento a Dio e alla morale religiosa è altrettanto questione del singolo, che lo vive come può e vuole.

            Dio e il prossimo non sono il metro di valutazione della propria condotta. La coscienza personale non valuta e giudica a partire da Dio e dal prossimo, ma dal soggetto; pertanto, la comprensione dello scandalo e la decisione di condotta corretta è determinata dalla persona a partire da quello che ritiene utile, valido e corretto.

            Lo scandalo nel linguaggio corrente ha piuttosto un significato sensazionale legato al turbamento che deriva dalla pubblicità di un fatto. Escludendo le situazioni di reato grave, come la pedopornografia e la pedofilia, lo stupro, gli omicidi, la violenza nelle sue svariate forme, lo scandalo generalmente assume connotazioni di pettegolezzo, o come si dice ormai nel linguaggio comune inglesizzato, di “gossip”, posto sotto i riflettori dei vari “talk show”.

         In tale contesto culturale, il brano evangelico di Marco rischia di assume connotazioni meno incisive di quello che sono indicate dall’evangelista: lo scandalo indicato da Gesù e riferito ai piccoli si riferisce al porre in pericolo la loro salvezza, ostacolando il loro cammino di fede.

              Nella cultura ebraica, lo “scandalo” è inteso come qualcosa che mette in pericolo la salvezza, chiunque ne sia l’autore.

             σκανδαλσ (skandalisè) dal verbo σκανδαλζω (skandalizô), significa mettere una pietra d'inciampo o impedimento sulla via, su cui un altro può inciampare e cadere, metaforicamente offendere; incitare a peccare; istigare qualcuno a diffidare e ad abbandonare una persona di cui dovrebbe avere fiducia e rispetto.

            Tra i seguaci di Gesù vi erano sicuramente chi cercavano di dissuadere i “piccoli” nella fede, i semplici, a credere nel suo insegnamento e a diventare suoi discepoli; questo spiega le affermazioni dure di Gesù: «[…] gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare» (v.42).

           Il discorso di Gesù sullo scandalo è riferito al porre ostacoli alla conoscenza della Verità, del Vangelo, e all’insidiare e minare la fede e il cammino di salvezza di coloro che sono “piccoli” nella fede, agli inizi o che non hanno ancora raggiunto la maturità di fede per saper discernere e restare forti di fronte alle tentazioni, agli attacchi, agli insegnamenti erronei.

            La fede dei semplici, dei piccoli nel cammino di sequela, è un bene che nessuno può minare, giudicare, valutare. Il cammino di fede va sostenuto, formato, accompagnato, guidato, e non giudicato, ostacolato, impedito, irretendo con inganno verso false dottrine.

            Gesù minaccia coloro che, maliziosamente e coscientemente, inducono altri a desistere dal credere in Lui. Di conseguenza, la salvezza non è un dato scontato solo perché si professa di credere in Lui, ma esige un impegno costante, uno sforzo per entrare a far parte del Regno di Dio.

             La fede in Cristo e, di conseguenza, la salvezza a cui è destinato il credente, non si vivono con le mezze misure.

           Il discorso di Gesù diventa ancora più radicale esigendo da ciascun discepolo la “determinazione della santità”, capace di tagliare con tutto ciò che ostacola l’appartenere a Dio, che non permette di vivere in pienezza nel suo amore.

           «Se la tua mano ti è motivo di scandalo […] se il tuo piede ti è motivo di scandalo […] se il tuo occhio ti è motivo di scandalo […]»: Gesù usa la metafora delle membra del corpo che diventano occasione di caduta morale per richiamare alla misura alta della “vita in Dio”, della fede, della santità.

          Gesù non indica i tipi di tentazioni e di peccato delle membra “mano, piede, occhio”. È semplicemente indicato che è nella condizione stessa dell’uomo la possibilità di cadere, di allontanarsi dalla Verità, dall’Amore di Dio.

          Gesù, quindi, esorta a vivere nel costante discernimento per conservarsi nella comunione con Dio. Esorta a non sopravvalutare le proprie forze, a sentirsi forti e saldi nella fede. San Paolo lo esprime con forza ai Corinti: «Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (1 Cor 10,12).

          Spesso il peccato che più scandalizza e allontana i “piccoli nella fede” dalla comunità di fede è la “presunzione di perfezione”, che viene spesso riscontrata e denunciata nei cosiddetti “baciapile”, in coloro che “puzzano di sacrestia”, in coloro “sempre attaccati alla tonaca del prete”.

            La presunzione di camminare nella fede e di essere ceri credenti, giusti e perfetti, è di fatto l’ostacolo che spesso il credente alza da sé verso l’azione dello Spirito Santo, chiudendosi al corretto discernimento, al saper fare verità nella propria coscienza.

           La presunzione di perfezione è lo scandalo che allontana dalla “vera vita”, dalla salvezza, non solo chi è piccolo nella fede, ma il soggetto stesso.

           Il cammino di santità autentico è lastricato di umiltà e continua ricerca di allontanare da sé ogni minimo ostacolo all’amore di Dio.

           Non c’è nessun Santo che non abbia detto di sé, fino all’ultimo istante della sua vita terrena, di essere un grande peccatore sebbene non avessero commesso peccati mortali. Non c’è nessun Santo che non viveva il costante discernimento della propria coscienza e il costante ricorso al Sacramento della Riconciliazione.

          Il cammino di fede è, dunque, un cammino di costante lavoro interiore per lasciare che la Grazia di Dio trasformi la vita, forgi la volontà, educhi la mente, corrobori il cuore.

           L’impegno del credente a vivere la sequela di Cristo si traduce nel costante discernimento su sé stessi per evitare ciò che allontana da Dio, che chiude in una visione egoistica e che devii dalla santità.

             La vita morale è vita di sequela, si comprende nella relazione con Cristo e si traduce in atti che esprimano l’appartenere a Cristo.

         La vita morale non è questione di lecito o illecito, ma di adesione e coerenza alla proposta di vita di amore di Dio: dalla sequela scaturisce il “si” o “no” a scelte, gesti, parole, azioni.

          Se manca il riferimento a Cristo, la relazione vitale con Lui, l’osservanza dei comandamenti, dei precetti, delle regole e consuetudini resta sterile.

           L’impegno etico a cui Cristo richiama nel brano evangelico è legato alla adesione alla sua proposta di vita, alla sequela, alla vita in Lui.

          La perfezione, la santità a cui ogni battezzato è chiamato, consiste appunto nel costante discernimento e lavoro su sé stessi per aderire alla vita di fede in Cristo; richiede umiltà del cuore per abbandonare e allontanare da sé tutto quello che ostacola la personale sequela di Cristo.

       Evitare lo scandalo significa tenere sempre desta la propria coscienza: in una costante formazione; in un continuo processo di conversione; in un discernimento sempre più attento e maturo.

        Essere cristiani credibili è possibile solo nel costante lavoro su sé stessi, per evitare di cadere nella “presunzione della perfezione”, creando scandalo nei “piccoli della fede”.

         Essere “profeti” e “servitori di Cristo”, attenti ad evitare ogni forma di “scandalo” in umiltà e nella “determinazione della santità”: di questo il mondo di oggi ha bisogno!

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“Grande – servo; primo - schiavo”


 

(Sap 2,12.17-20 - Sal 53 - Giac 3,16-4,3 - Mc 9,30-37)

 

       «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9, 35).

       I termini “ultimo”, “servo”, “schiavo” sono altisonanti e antitetici alla mentalità contemporanea. Pensarsi e vivere come “ultimi”, “servi” significa per la cultura imperante essere inutili e inetti, ai margini della società. Successo, potere, denaro, lusso, prestigio, celebrità sono i canoni nei quali essere accettati nella società.

       Il discorso di Gesù, se era incomprensibile ai discepoli, oggi è assurdo e insensato per la cultura moderna.

       Il capitolo nove del Vangelo di Marco è indicato come il secondo annuncio della passione. La caratteristica di questo secondo annuncio della passione è la scomparsa del “deve” indicato nel primo annuncio sostituita dalla categoricità dell’evento: “sarà consegnato” (v. 31).

       Con questo secondo racconto, l’evangelista evidenzia il “Si” di Gesù e il disporsi al viaggio. Di rilievo l’indicazione “consegnato nelle mani degli uomini”, che esprime il valore espiativo della morte di Gesù e rimanda al canto sul Servo di JHWH (Is 42. 49. 50. 53).

       Nella cornice dell’annuncio della passione, che i discepoli continuano a non comprendere, si inserisce la discussione tra chi fosse il primo tra loro. I discepoli appaiono irretiti da preoccupazioni mondane fino a contendersi il primo posto.

       Gesù li lascia senza parole ponendo loro la domanda su cosa stavano discutendo lungo il cammino e la domanda evidenzia che Egli conosce i pensieri.

       Gesù non li rimprovera, ma si pone a sedere, li chiama a sé e li istruisce su come deve essere il vero discepolo. Gesù esige dal discepolo che aspira al primo posto di essere l’ultimo e il servo di tutti (v.35).

       Con questo discorso Gesù non intende avversare i detentori del potere terreno, ma creare un ordine nuovo, che renda visibile la sovranità di Dio e l’avvento del suo Regno.

       La preoccupazione del vero discepolo deve essere quella della Santità, che comporta seguire l’esempio di Cristo, la sua kenosi, la spogliazione e l’umiliazione di sé «facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2, 5-11).

       L’insegnamento di Gesù è rivolto alla comunità dei credenti, chiamati a manifestare la Gloria di Dio attraverso la estrema dedizione nel servire, manifestando così che il carattere escatologico e non mondano della Chiesa.

       Essere “ultimi” e “servi” è, dunque, il requisito fondamentale della Chiesa, di ogni singolo battezzato, nella diversità di ministeri e carismi: ogni abuso d’ufficio ecclesiastico, ogni volontà di dominio, ogni azione di presunzione e superiorità, ogni pretesa di possedere la verità, ogni competizione e gelosia, ogni rivalità e vanagloria, ogni mancanza di carità e di misericordia, porta la Chiesa a peccare, a lasciarsi sedurre dai pensieri umani e a conformarsi alla mentalità del mondo (cfr Rm 12,2).

       Per essere “ultimi” e “servi” occorre porsi alla scuola di Cristo: lasciare che sia Lui a guidare la nostra vita; leggere ogni cosa, ogni situazione sempre alla luce del Vangelo; preferire sempre ciò che edifica e produce bene non solo per sé, ma anche per il prossimo; non dimenticare mai che il credente è destinato a Dio. Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, nella sua opera ascetica “Apparecchio alla buona morte”, così scrive: «Oh come bene giudica le cose e dirige le sue azioni, chi le giudica e dirige a vista della morte! […] Bisogna pesare i beni nelle bilance di Dio, non in quelle del mondo, le quali ingannano».

       Gesù invita a porre come misura del proprio operare un fanciullo, un piccolo. Il riferimento è quello degli “anawim”, poveri di JHWH, non visto come segno di piccolezza, ma come oggetto di cure, per dire ai suoi che chi vuole appartenergli deve apprezzare tutto ciò che è piccolo e di poco conto.

       «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9, 37).

       Essere cristiani significa scegliere di accogliere Dio nel prossimo, nell’umanità, nella sua condizione particolare di “piccoli”. Quante povertà diverse ci circondano, quante occasioni per servire l’umanità si incontrano ogni giorno e che non devono essere perse: malati, poveri, emarginati, sofferenti, indecisi, afflitti, tristi, carcerati, senza tetto, profughi … la società stessa è povera di amore, speranza, fede.

       La modalità per testimoniare la propria fede nella società è servirla nella carità e nella verità di Cristo, imparando da Lui, mite ed umile di cuore, per essere “ultimi” e “servi di tutti”.

       Per vivere ciò occorre che sia il cuore ad essere rigenerato dall’amore di Dio e liberarlo da ciò che impedisce di vivere come Cristo. L’apostolo Giacomo lo ricorda con fermezza: «perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera» (Giac 3, 16-17).

       Chiediamo a Cristo di liberare il nostro cuore da ogni ambizione, potere, vanagloria, per essere imitatori di Lui nella umiltà e nel servizio e partecipare, alla fine della vita, alla sua Gloria.

“Signore Gesù,

ti sei umiliato fino alla morte di croce

per donarci la Salvezza ed elevarci alla Gloria del Padre,

donaci il tuo Spirito perché ci renda umili e servi di tutti.

 

Guidaci con la tua Grazia,

per saper scegliere sempre ciò che edifica,

il bene per ogni persona.

Aiutaci a saper rinunciare

a tutto ciò che non è secondo la tua volontà;

a tutto ciò che è orgoglio, potere, vanagloria;

a tutto ciò che non edifica e umilia il prossimo.

 

Ti preghiamo perché ogni credente,

ogni comunità di fede,

sia capace di accogliere e servire;

di vivere nella vera carità;

di operare nell’amore misericordioso;

di non escludere ma di accogliere;

di farsi prossimo ad ogni persona, senza escludere mai nessuno. Amen!”

XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“Riconoscere Cristo - professarsi cristiani”


 

(Is 50,5-9 - Sal 114 - Giac 2,14-18 - Mc 8,27-35)

 

«La gente, chi dice che io sia?» «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mc 8, 27.29)

       Se ponessimo oggi, nel 2021, queste domande quale sarebbe la risposta? I credenti cosa risponderebbero? Sarebbero veramente consapevoli della risposta data?

       Credo sia necessario partire da queste domande per riflettere sulla Parola di Dio di questa liturgia domenicale, non tanto per fare un’indagine sociologica o un censimento della percentuale di credenti e non nella nostra società e meno che mai addurre critiche o puntare il dito su chi o cosa non porta a credere oggi.

       Ritengo sia necessario partire da queste domande perché non solo interpellano personalmente, ma anche rimandano alla responsabilità che ciascun credente ha di professare con coraggio, determinazione, verità e radicalità la propria fede, consapevole che questo porta a condividere la stessa sorte di Cristo Signore.

       Il battezzato, alla domanda posta da Gesù, ritiene scontato rispondere come Pietro: “Tu sei il Cristo!”. La risposta deriva dalla conoscenza catechetica o dalla esperienza e relazione vitale con Cristo?

       Dire che Gesù è il Cristo significa riconoscere che Egli è Dio, il Salvatore, Colui che ha rivelato il volto del Padre, che ha indicato la Via da seguire per vivere in piena comunione con Dio.

       Rispondere che Gesù è il Cristo comporta aver intrapreso il cammino di conversione personale verso la piena maturità di fede, lasciando a Cristo il primato sulla propria vita, accogliendo la sua Parola come guida, luce, verità da seguire.

       Riconoscere Gesù come il Cristo significa che tutto è sottoposto al suo giudizio e tutto è illuminato da Lui, Verità, Vita e Via.

       Rispondere che Gesù è il Cristo significa professare la propria fede in Lui e camminare secondo la sua Legge, rinunciando a tutto ciò che non è secondo il Vangelo: «Avete inteso che fu detto … Ma io vi dico … Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Mt 5, 21-37).

       Riconoscere Gesù come il Cristo non si può limitare a dirlo, professarlo con le labbra: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7, 21); richiede una conoscenza profonda, una disponibilità d’animo e una obbedienza consapevole e razionale.

       Gli stessi discepoli, cresciuti nella fede ebraica, osservanti della Legge, non comprendono subito e completamente cosa significhi che Gesù è il Cristo, infatti Pietro, dopo averlo professato, lo rimprovera per il suo discorso sulla passione perché non è secondo quello che rappresentava secondo quanto si aspettavano i giudei: una messianicità di carattere politico.

       Anche oggi si può rischiare di ridurre la messianicità di Cristo ad una questione di interesse personale, ritenendo che debba rispondere alle richieste espresse, fare i miracoli che si aspettano o desiderino, oppure ad una questione di carattere socio-politico, pensando che sia un “giustiziere”, che debba intervenire per punire o debellare situazioni, restaurare una “moralità” fatta piuttosto di norme che di sequela.

       Questo tipo di visioni e riduzioni della messianicità sono redarguite da Cristo con la stessa espressione rivolta a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8, 33).

       La Chiesa, pertanto, non è chiamata ad un dominio politico, bensì la sua missione è di testimoniare in favore dell’amore e della volontà di pace, in una inesorabile sequela del Cristo crocifisso.

       A questa sequela Gesù richiama con il discorso che fa subito dopo la risposta di Pietro sulla sua persona e le espressioni successive rivolte alla folla e ai discepoli da parte del Cristo, impegnano ogni singolo battezzato, nella diversità di carismi e ministeri.

       «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8, 34-35).

       Gesù insegna che se si vuole essere suoi discepoli, vivere una sequela autentica, bisogna essere pronti a vivere come Lui, disposti a dare tutto di sé per il Regno di Dio.

        L’imperativo aoristo παρνησσθω αυτν (rinneghi sé stessi) risulta ostico soprattutto per l’uomo moderno e difficilmente si comprende il senso. Il termine παρνησσθω, dal verbo παρνομαι (aparneomai), significa dimenticare sé stesso, perdere di vista sé stesso e i propri interessi, per fare propri quelli di Dio, di Cristo. Non significa annientarsi, annichilirsi, ma trovare senso per sé nell’insegnamento di Cristo. Il soggetto non annulla sé stesso, ma si realizza nella relazione con Cristo, facendo suoi i desideri, il volere e la modalità di essere e di amare insegnati da Cristo. Significa, in sostanza, rinunciare ad una logica egoistica, di amore possessivo, di interesse tutto rivolto a sé stesso e alla propria affermazione, per assumere la prospettiva di Cristo, il suo modo di amare, la sua donazione totale per la salvezza di tutti: in una parola significa “amore agapico”!

       Da qui si comprende il senso del “prendere la croce”, che indica “amare senza riserve”, “donarsi”, vivere nella piena “obbedienza d’amore” alla volontà del Padre, “vivere da veri figli di Dio”.

       L’espressione conclusiva “salvare o perdere la vita” si comprende nella visione della sequela e del “rinnegare sé stessi”, perché chi si preoccupa unicamente di affermare il proprio io e di salvarsi amando sé stesso, perderà questa sua vita fallendo la meta a cui tende. Chi, invece, vive pienamente la sequela di Cristo preferendola alla logica di affermazione terrena e vive la sua vita nella carità, raggiungerà la piena realizzazione della vita: la salvezza!

       Da qui si comprende che essere cristiani richiede un continuo confronto con il Cristo per comprendere se si sta vivendo la giusta sequela. Non basta essere battezzati, consacrati, presbiteri, vescovi per vivere la vera sequela, ma occorre essere pienamente innestati in Cristo, vivere della sua carità.

       Come Pietro ogni credente, nella diversità di ministeri e mansioni, si può correre il rischio di fare la parte di “Satana”, cioè di non pensare come Dio, di opporsi alla sua volontà, preferendo l’interesse e l’affermazione personale.

       Si comprende così l’espressione dell’apostolo Giacomo: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Giac 2, 18); la fede esige opere secondo l’amore di Dio. Professare la propria fede in Dio e vivere in modo egoistico, cercando la propria affermazione, usando la fede per affermare sé stessi è contrario alla sequela del Cristo crocifisso.

       Una fede senza opere di carità, senza attenzione e amore verso il prossimo, è vuota e produce morte, divisione, non è secondo Dio, ma secondo Satana.

       Essere credenti e vivere senza carità, non riuscendo a perdonare, creando divisione e seminando zizzania, significa operare secondo il male e non secondo Dio.

       Vivere un ministero, un ruolo nella comunità come un prestigio e non come un servizio, non potrà mai generare vita di fede, ma divisione, dispersione, dolore e morte spirituale.

       «A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo?» (Giac 2, 14).

       La salvezza viene da Cristo crocifisso, per riceverla occorre lasciare che l’amore di Cristo sia la ragione del proprio agire, la modalità di discernimento e di giudizio. Per questo occorre, come dice Giovanni il Battista: «Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3, 30).

XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“Effatà: Aperti alla Grazia”


 

(Is 35,4-7a - Sal 145 - Gc 2,1-5 - Mc 7,31-37)

 

       La fede richiede “ascolto” e “annuncio”: ascolto di Dio che parla, si rivela; annuncio dell’incontro con Dio e di ciò che si è ascoltato e vissuto.

           Il miracolo del sordomuto, riportato da Marco, è presentato dall’evangelista in una zona dove presumibilmente gli ebrei coesistevano con una popolazione di altra religione, con lo scopo di sottolineare l’importanza del racconto per il destinatario del vangelo: l’azione salvifica di Gesù riguarda anche i pagani.

         La guarigione del sordomuto, riportata da Marco, è un invito all’evangelizzazione affinché il mondo riconosca che Dio “ha fatto bene ogni cosa” servendosi dell’opera di Gesù.

        Gesù è presentato da Marco non tanto come un guaritore, un taumaturgo, quanto come il Messia, il Figlio di Dio che ha portato a compimento le promesse di Dio indicate dal profeta Isaia: «[…] si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi […] griderà di gioia la lingua del muto» (Is 35, 5-6).

       L’evangelista non intende indicare il sordomuto come una figura tipica di chi è sordo all’annuncio della salvezza, ma è intenzionato a presentare Gesù come il Messia atteso, il Salvatore che guarisce “l’uomo intero”, perché i difetti della natura umana vengono eliminati per mostrare la creazione così come è stata voluta da Dio.

         La guarigione del sordomuto è un segno per indicare la nuova creazione che Dio porterà a compimento alla fine dei giorni, ogni male e limite sarà sconfitto e tutto tornerà a dare lode a Dio e la creazione si mostrerà nel suo pieno splendore. All’inizio della creazione «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn 1, 35); nel giorno del compimento delle promesse il Signore dirà: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21, 5).

           Il battezzato è inserito nella nuova creazione e nel corso della sua vita è chiamato a rendere maturo il dono ricevuto con una vita secondo la Parola di Dio e le opere di carità, di misericordia.

       Nella liturgia battesimale è inserito il rito dell’Effata, che richiama il segno di Gesù sul sordomuto. Il celebrante tocca le orecchie e la bocca del neo battezzato dicendo: Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre.

        Questo gesto del sacerdote non ha nulla a che vedere con il gesto compiuto da Gesù sul sordomuto, ma ha valore simbolico, forse è poco sottolineato durante la celebrazione e difficilmente compreso nella cultura moderna, ma di fatto è espressione di quello che deve essere la vita del battezzato: accolto il dono della fede, va alimentato con l’ascolto continuo della Parola e la testimonianza della vita, l’annuncio di ciò che si è ricevuto.

          L’incontro con il Cristo guarisce dai propri difetti, dalla propria limitatezza ed apre alla nuova realtà della vita di fede, in cui tutto diventa una lode a Dio per quanto ha fatto, riconoscendo la sua infinita misericordia e il suo amore senza limiti, che dona a chiunque lo accoglie e lo riconosce come il Signore della sua vita.

         La vita nuova del battezzato è espressione della salvezza operata dal Cristo, che, riconosciuta e vissuta, porta ad affermare: «Ha fatto bene ogni cosa» (Mc 7, 37), interpretando in modo corretto il gesto di Gesù sul sordomuto, espressione del suo essere il Messia, il Salvatore, Colui che porta a compimento le promesse del Padre.

        I fedeli, nella diversità di carismi e ministeri, sono chiamati a vivere ed operare secondo quanto insegnato dal Cristo, per cui in ogni cosa e in ogni situazione sono chiamati ad esprimere la novità della vita ricevuta con il battesimo ed essere annunciatori della salvezza, che è per tutta l’umanità.

        L’invito dell’apostolo Giacomo a vivere una fede libera da favoritismi personali e a saper essere liberi da giudizi, accogliendo la prospettiva di vita di Cristo, è l’applicazione pratica di quanto espresso nella guarigione del sordomuto: il credente viene inserito in una nuova prospettiva di vita, di comprensione e valutazione delle cose; la vita del cristiano deve essere espressione della novità operata da Cristo con il dono della fede ricevuta e vissuta.

        La contrapposizione tra ricco e povero, riportato da Giacomo, è espressione del diverso modo di valutare del mondo e della fede. Chi è inserito, per il battesimo, nella vita di fede non può più considerare le cose secondo la mentalità del mondo, ma deve valutare tutto secondo Dio, il quale non fa preferenza di persona, ma tutti accoglie e ama.

        Il discorso di Giacomo lungi dall’essere un discorso politico, secondo quanto siamo oggi portati a fare, strumentalizzando il Vangelo per addurlo alle logiche umane e asservirlo ad ideologie che nulla hanno a che vedere con Dio.

       La contrapposizione “ricchi” e “poveri”, secondo la mentalità evangelica, vuole esprimere la condanna di ogni forma di egoismo, sopraffazione, abuso, discriminazione, emarginazione, esclusione, sfruttamento del prossimo.

       La condizione della povertà, scelta da Dio, come dice Giacomo, è la condizione propria dell’uomo, che si riconosce nel suo bisogno e nel suo limite. La ricchezza condannata da Dio è espressione dell’egoismo, del sopruso dell’uomo, sul suo simile e su sé stesso, non riconoscendo di essere invece povero, di aver bisogno di Dio.

        Il battezzato è chiamato ad essere libero dalla logica umana e dai condizionamenti del mondo; è chiamato a saper essere capace di scegliere sempre secondo il bene di tutti, permettendo a tutti di raggiungerlo, nella loro condizione e possibilità.

       Per questo ha necessità di essere guarito dalla propria sordità per saper ascoltare la voce di Dio e di essere sciolto dal nodo della lingua per saper dire una parola che edifica e non umilia.

        Di fatto, ognuno è a vario modo nella condizione del sordomuto, tutti abbiamo limiti e difetti da cui guarire, incapaci di saper ascoltare il grido del prossimo, denunciare il male che ci circonda. Spesso siamo chiusi nelle nostre sicurezze, ricchezze, e preferiamo situazione di comodo e di vantaggio al posto di esporci prendendo posizione contro ciò che è contrario alla fede.

        Di favoritismi e accomodamenti non è esente nessuna comunità cristiana, che spesso rischia di restare sorda e muta di fronte a tante ingiustizie e meschinità, pertanto chiediamo con fede al Signore di guarire e rendere la sua Chiesa sempre più capace di vivere e di annunciare la Salvezza apportata dal Cristo, di saper essere Madre e Maestra per l’intera umanità.

         Facendo memoria del Battesimo ricevuto, chiediamo a Dio di rendere ogni battezzato “aperto alla Grazia”, in ascolto costante e profondo della sua Parola, annunciando con la vita e le opere l’amore di Dio per ogni persona, contrapponendosi ad ogni ingiustizia e favoritismo.


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