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XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“Una Presenza che segna”


 

(Es 16,2-4.12-15 - Sal 77 - Ef 4,17.20-24 - Gv 6,24-35)

 

       «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo?» (Gv 6, 30).

       La domanda della folla rivolta a Gesù è espressione dell’approccio che ogni individuo ha di fronte alla religione, all’ultraterreno.

       L’umanità è alla continua ricerca di segni che diano ragione di credere a ciò che non è tangibile, sperimentabile.

       I più giovani, sempre più immersi nella tecnologia e nell’uso della comunicazione virtuale, fanno fatica a credere ai segni e accolgono solo ciò che è dimostrabile, sperimentabile.

       Di fronte ad una società sempre meno aperta al sacro, al divino, sebbene legata al sensazionale, al magico, all’occulto, diventa sempre più urgente e necessario una “nuova evangelizzazione”.

       Occorre essere annunciatori di Dio Padre, che in Cristo è “Presenza che segna” la nostra quotidianità, il nostro stile di vita, le scelte e il discernimento di ciò che ci circonda.

       «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (Gv 6, 32-33).

       Gesù è “Presenza” che dà vita al mondo, nel segno del “pane eucaristico”. È “presenza reale” che parla al cuore di chi si accosta a Lui e si lascia abitare da Lui.

       Gesù è “Presenza che segna” la vita del credente, che riconosce nel “segno del pane e del vino”, che diventano “corpo e sangue di Cristo”, la fonte della vita, la legge nuova e la sorgente zampillante dell’amore misericordioso di Dio.

       «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!» (Gv 6, 35).

       Nella presenza reale dell’Eucaristia, Gesù sazia la fame e la sete dell’uomo, alla ricerca di senso; alla ricerca di risposte ai tanti perché, ma soprattutto al naturale bisogno di sentirsi amato, perdonato, accolto, guarito, rialzato, sostenuto.

       Il Dio cristiano è l’Emmanuele, il Dio con noi, e questa “Presenza” è vera, reale nel Sacramento dell’Eucaristia. Da questa Presenza il credente trova senso e modalità al suo vivere la fede: non è una religiosità rivolta ad una divinità lontana, estranea alla realtà dell’umanità, ma è divinità incarnata e costantemente presente nel segno delle specie eucaristiche.

       La “Presenza” di Cristo nel pane eucaristico sazia la fame e la sete dell’umanità perché risponde al bisogno naturale di essere amato. L’Eucaristia è la “Presenza tangibile dell’amore di Dio”, che si dona all’umanità e la rende capace di amare con la “misura di Dio”, oltre ogni limite e possibilità umana.

         L’Eucaristia è amore che rivela all’uomo qual è la sua vera identità: essere figlio di Dio, nel Figlio!

         L’Eucaristia è fonte di discernimento, perché guida a comprendere ciò che è bene e conduce al Bene, Dio!

         L’Eucaristia è sorgente di comunione e di fraternità, perché in Cristo tutti gli uomini sono fratelli, hanno la stessa dignità e stessi diritti.

         L’Eucaristia è “la legge nuova” iscritta nei cuori dei credenti in Cristo per il dono della comunione con Lui.

       Senza Eucaristia, dunque, non c’è vita cristiana autentica. Non si può vivere la fede cristiana senza Eucaristia, celebrata, adorata e vissuta.

       La vita cristiana è vita rinnovata in Cristo, come ci ricorda San Paolo in Ef 4, 21-24: «Voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità».

       Accostarsi all’Eucaristia ed adorare Cristo, presente realmente nell’Eucaristia, conduce al rinnovamento della mente, del cuore e della volontà, perché tutto Cristo sia presente nel cuore del credente.

       La vita di fede cristiana è vita Eucaristica, vita che esprime la “Presenza di Cristo che segna”, incide e rinnova la mente, il cuore e la volontà, perché in ogni cosa, in ogni circostanza, in ogni azione sia reso tangibile, presente l’appartenere a Cristo.

       In questi giorni estivi, in cui dedichiamo tempo a noi stessi, al riposo, al ritemprarci dalle fatiche del lavoro e della routine quotidiana, concediamoci spazi e tempi per stare alla “Presenza” di Cristo nell’Eucaristia e lasciamo che Cristo “segni” la nostra vita con il suo amore, con la sua presenza, con la sua grazia.

       Lasciamo che la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia rinnovi tutto noi stessi, mente, cuore e volontà, per poter essere, in questa società, testimonianza vivente della “Presenza di Cristo che segna” la vita dell’uomo, elevandola dalla banalità e monotonia della quotidianità, alla novità e gioia di vivere di chi si scopre amato e accolto, perdonato e sostenuto, guidato e accompagnato da Dio misericordioso e fedele.

       Soffermiamoci davanti al Tabernacolo, concedendo a noi stessi del tempo per stare con Dio e apriamo il nostro cuore a Lui, perché ci “rinnovi nello spirito della nostra mente e ci renda nuove creature” (cfr Ef 4, 23-24).

 

Credo, mio Dio, di essere innanzi a te

che mi guardi ed ascolti le mie preghiere.

Tu sei tanto grande e tanto santo: io ti adoro.

Tu mi hai dato tutto: io ti ringrazio.

Tu sei stato tanto offeso da me: io ti chiedo perdono con tutto il cuore.

Tu sei tanto misericordioso: io ti domando

tutte le grazie che vedi utili per me.

(Beato Giacomo Alberione)

XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO B - 2021

“Condividere e avere a cuore”


 

(2Re 4,42-44 - Sal 144 - Ef 4,1-6 - Gv 6,1-15)

 

          Il racconto della moltiplicazione dei pani, tratto dal Vangelo di Giovanni, ci permette di soffermarci a considerare sia alcuni aspetti della vita comunitaria e della celebrazione eucaristica, che dell’attenzione da porre al dialogo di testimonianza con il mondo.

         Partiamo da quest’ultimo punto, soffermandoci sulla provocazione di Gesù ai suoi apostoli: «Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere» (Gv 6, 6).

        Gesù mette alla prova Filippo e gli altri nel “prendersi cura” della folla, stanca e affamata, che seguiva Gesù. Una folla, che non ha compreso chi fosse Gesù, che lo seguiva perché vedeva “i segni che faceva sugli infermi” (v. 2).

        La folla rappresenta l’umanità che ha bisogno di Dio, che sappia rispondere alle sue esigenze, bisogni, attese, anche se ignora cosa significhi adorarlo e seguirlo.

          Nulla è cambiato dalla folla al tempo di Gesù a quella di oggi. L’umanità è alla ricerca di risposte al male presente nel mondo; ai limiti della condizione umana; ai suoi bisogni; quello che oggi la differenzia dal tempo di Gesù è lo sviluppo scientifico e il dissidio scienza-fede.

           Gesù continua a mettere alla prova i suoi seguaci, i credenti di ogni tempo, nel saper dare risposte alla folla di oggi, nel saper sfamare la sua fame e sete di senso, di risposte ai propri dubbi e bisogni.

       Quale risposta la comunità dei credenti deve dare alla folla di ogni tempo? La risposta resta sempre quella della testimonianza della fede autentica, gioiosa, libera.

          Oggi il numero di persone che vivono lontane dalla religione è aumentato, in particolare nei paesi occidentali e soprattutto in Europa. Il numero di coloro che partecipano alla vita comunitaria e ai suoi riti è sempre più in calo e sempre meno i giovani.

           Questa considerazione, facilmente verificabile, guardando chi frequenta le celebrazioni eucaristiche domenicali e festive, deve stimolare la riflessione su come la comunità di fede celebra e quanto la vita liturgica determina lo stile di vita.

          La comunità cristiana, in ogni sua piccola realtà, che si ritrova nella celebrazione domenicale dovrebbe vivere la gioia del ritrovarsi attorno alla mensa della Parola e dell’Eucaristia e accogliere chiunque con serenità e premura fraterna.

            Il ritrovarsi a spezzare il pane eucaristico, a condividere la comunione con Cristo, deve segnare lo stile della comunità, che è chiamata a “prendere a cuore” la folla, coloro che non hanno ancora conosciuto Cristo e compreso cosa significhi seguirlo.

       Le celebrazioni eucaristiche sono momenti fondanti della vita comunitaria e devono essere caratterizzate dalla condivisione, dall’accoglienza e dalla premura fraterna; libere da giudizi, pettegolezzi, divisioni, mansioni e ministeri che hanno poco di servizio e tanto di potere e lustro personale.

            Ogni celebrazione non dovrebbe mai iniziare senza l’accoglienza, l’attenzione rivolta a chi partecipa per la prima volta, saltuariamente o perché di passaggio: è una attenzione che deve essere prima del presbitero e poi dei fedeli, mediante una parola, un saluto, un gesto di attenzione, che permetta una partecipazione condivisa e attiva (ad esempio dando il foglietto dei canti, invitando a sedersi avanti, ecc.).

          San Paolo traduce questa attenzione del “prendere a cuore” invitando gli Efesini e tutti i cristiani ad uno stile di vita conforme e degno della vocazione alla santità, ricevuta con il Battesimo: «[…] comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4, 1-3).

          La comunità di fede ed ogni singolo credente deve impegnarsi a rispondere alla chiamata battesimale con un impegno ed uno stile di vita secondo lo Spirito, che produce “umiltà, dolcezza e magnanimità” e “unità”.

           La comunità dei credenti che vive la comunione vera con Dio e l’avere cura di coloro che sono lontani da Dio è caratterizzata dall’unità dello spirito, dalla pace frutto dello Spirito.

        Una comunità che non si vive la “pace” frutto dello Spirito non potrà mai essere luogo di accoglienza, attenzione, testimonianza, coinvolgimento di chi è lontano e non conosce la fede.

           Le divisioni, i giudizi, le maldicenze, le rivalità e le dinamiche di potere e privilegio che caratterizzano spesso le comunità cristiane non favoriscono né la crescita della comunità e la testimonianza gioiosa e libera della fede, né l’attenzione e il “prendersi cura” della folla.

         La μακροθυμα (makrothumia), indica magnanimità, pazienza, persistenza, costanza, perseveranza: è fondamentale per il cristiano, secondo Paolo, perché produce la sopportazione, la tolleranza, la indulgenza, l’accettazione delle avversità e conduce alla “unità della Chiesa”.

          La ερνη (eirênê), la pace, non è solo assenza di conflitto, quanto più armonia, concordia, lo stato tranquillo di un'anima assicurata della propria salvezza tramite Cristo, per cui la relazione con il prossimo è fondata sulla salvezza derivante dal Cristo e sulla comunione che in Lui siamo chiamati a vivere.

          Il “vincolo della pace” indica, dunque, proprio il frutto della comunione con Cristo tramite la partecipazione all’Eucarestia, che si traduce in attenzione, accoglienza, perdono, condivisione.

        Ogni volta che ci poniamo di fronte all’Eucaristia, sia nella celebrazione che nella adorazione, ricordiamo che Gesù ci invita a “prenderci cura” di chi è lontano da Lui con la testimonianza di una vita di fede comunitaria gioiosa e libera, di cui la “magnanimità”, la “sopportazione” e la “pace” sono i segni distintivi dello stile del credente e della comunità intera.

         O Padre, che nella parola e nel pane di vita offri alla tua Chiesa la confortante presenza del Signore risorto, donaci in abbondanza i tesori della tua grazia, perché, ardenti di speranza, fede e carità, restiamo sempre vigilanti nel custodire i tuoi comandamenti e capaci di riconoscere in lui il vero re e pastore, che rivela agli uomini la tua compassione e reca il dono della riconciliazione e della pace. (Dalle preghiere di Colletta)

XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“Battezzati: Pastori del prossimo”


 

(Ger 23,1-6 - Sal 22 - Ef 2,13-18 - Mc 6,30-34)

 

       Il termine ricorrente nelle letture della Liturgia di questa domenica è “il Pastore”: «Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo […] contro i pastori […] pastori che le faranno pascolare» (Ger 23, 1-6); «[…] erano come pecore che non hanno pastore» (Mc 6,34).

        Immediatamente si associa questo termine alla gerarchia ecclesiale rischiando che la Parola di Dio non venga accolta.

       Il termine “pastore” è sicuramente riferito a chi ha la responsabilità di guida del popolo, di istruirlo e correggerlo affinché segua la Parola di Dio, eppure, soffermandoci a considerare il dono della fede, non possiamo non evidenziare la responsabilità che ogni battezzato ha di “rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in lui” (cfr 1Pt 3,15).

       Pertanto, ogni battezzato è di fatto “pastore” del proprio prossimo, sebbene non per ministero istituito: i genitori verso i figli, i figli maggiori verso i minori, i docenti verso i discenti, i catechisti verso i neofiti, ognuno per la sua particolare missione e vocazione ha il dovere morale di trasmettere la fede, educare alla fede, correggere, sostenere, indicare, guidare.

       Per il battesimo ricevuto, per la comune chiamata alla santità, la Parola di questa Liturgia interpella la coscienza e invita alla verifica del proprio vissuto in merito alla personale responsabilità di testimoni della fede.

       «Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore» (Ger 23,2).

       Il profeta Geremia evidenzia un errore che possiamo spesso registrare nella quotidianità: non prendersi cura del prossimo. Quante volte, di fronte al prossimo, alla società, al gruppo, restiamo indifferenti evitando di esporci per richiamare i valori della fede o, addirittura, scacciando coloro che riteniamo “indegni”, “peccatori”, “reprobi”, “traditori di Cristo”.

        Se anche il giudizio fosse corretto, l’atteggiamento da assumere deve essere quello di “prendersi cura”, “avere a cuore”, “accostarsi per condurli al ravvedimento”.

        Nulla mai potrà giustificare l’abbandono a sé stesso del prossimo!

       Cristo ci insegna quale deve essere lo sguardo da avere e l’atteggiamento da assumere: «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6,34).

     “σπλαγχνσθη”, dal verbo “σπλαχνίζομαι” (splagchnizomai), significa essere commosso nelle viscere, essere commosso con compassione, avere compassione.

        Non si tratta di provare qualcosa restando distanti, come spettatore inerme, ma essere coinvolto nel profondo di sé, nelle viscere.

        La compassione per il popolo da parte di Gesù è un “prendersi cura”, “farsi carico della loro condizione e porre rimedio”.

        Gesù insegna che essere suo discepolo significa vivere in comunione con il prossimo, cioè lasciarsi coinvolgere nell’intimo, perché nessuno sia indifferente, nessuno sia escluso, nessuno sia emarginato.

        La “compassione” non è un sentimento statico, ma dinamico, perché “muove verso” e impegna in prima persona: “si mise ad insegnare”, in greco, “ρξατο διδσκειν”.

        ρξατο è l’aoristo del verbo ρχω (archô): essere il principale, condurre, governare. L’azione dell’insegnare (διδσκω (didaskô)) da parte di Gesù scaturisce dal “prendersi cura” del popolo riconosciuto senza guida, senza insegnamento, senza conoscenza.

       Come discepoli di Cristo, battezzati, non possiamo non sentire questa “urgenza” di servire il prossimo indicando loro con la parola e l’esempio la via per camminare nella comunione con Dio.

          Essere “pastori del prossimo” nel contesto culturale odierno significa comunicare alle coscienze la Verità di Cristo.

       “Pastori del prossimo”, nella diversità di ruoli, carismi, ministeri, servizi, significa non giudicare, non escludere, ma “farsi carico” e impegnarsi in prima persona perché nessuno si senta escluso.

       Essere “Pastori”, “prendersi cura”, “avere a cuore”, non è attivismo, impegno senza formazione e crescita interiore, ma richiede un cammino personale di ascolto, di condivisione, di comunione piena con Gesù Cristo.

        «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’» (Mc 6, 31). Per dare al prossimo, per prendersi cura secondo il cuore di Cristo, è necessario alimentarsi alla fonte di questo modo di amare, di prendersi cura. È necessario e vitale, per una vita di fede matura e impegnata, imparare a “stare con Gesù”, a “fare deserto”, a “riposare con Gesù”.

       Nessuna azione pastorale, catechetica, testimoniale sarà vitale e coinvolgente se non scaturisce dall’ascolto di Cristo, dal lasciarsi plasmare dalla sua Parola e dal saper far tacere tutto ciò che ci distrae e ci allontana da Cristo.

        Vivere la fede, la vita comunitaria, l’evangelizzazione non è “fare”, ma “essere”; non è “attività”, che si riduce ad un “attivismo sterile”, ma è “lasciare che Cristo si prenda cura di me perché io possa prendermi cura del prossimo”!

        Vivere la fede significa “appartenere a Dio e al prossimo” in una relazione di amore, di servizio, di “cura” perché “tutto Cristo abiti in tutto l’uomo”, cioè ogni parte di sé sia “cristificata”.

       «Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito» (Ef 2, 17-18).

       Non ci sono lontani e vicini, perché Cristo ha vinto e distrutto ogni divisione. Cristo ci invita a vivere da fratelli e ad impegnarci in un vero servizio di carità nella verità, sentendoci responsabili del prossimo, “prendendoci cura” e “avendo a cuore” ogni persona.

       Non giudichiamo nessuno “lontano da Dio”, ma guardiamo ogni persona come un fratello ed una sorella da amare come l’ama Dio.

       Viviamo nella “Pace” che Cristo ci ha conquistato, sentendo la responsabilità di farlo conoscere, incontrare, seguire.

      Preghiamo perché ogni comunità cristiana, ogni battezzato/a viva l’attenzione, l’accoglienza, il servizio al prossimo, affinché nessuno venga escluso, emarginato, considerato reprobo o traditore.

       La “compassione” e “il servizio” siano il distintivo di ogni credente per “prendersi cura” e “avere a cuore” il prossimo.

XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“Annunciatori liberi e fedeli”


 

(Am 7,12-15 - Sal 84 - Ef 1,3-14 - Mc 6,7-13)

 

       «Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele» (Am 7, 15).

      Oggi si vuole ridurre la fede a questione privata, intimistica, ma è una pretesa che non trova alcun fondamento nella fede, perché essa esige, per sua natura, l’evangelizzazione, l’annuncio, la testimonianza e, quindi, la condivisione nella comunione fraterna.

       La fede cristiana non si può vivere se non nella comunità di fede, nella Chiesa, come sue membra vive e attive!

       Pensare di ridurre la fede a una relazione intima e privata con Dio escludendo ogni partecipazione comunitaria, non volendo appartenere alla Chiesa, corpo mistico di Cristo e comunità viva di fedeli, di fatto non si vive la fede cristiana, la sequela di Cristo.

       Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione Dogmatica Sulla Chiesa “Lumen Gentium”, afferma: «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità» (LG 9).

       Perché è fondamentale per la vita cristiana la dimensione comunitaria della fede? Se la fede è una relazione personale con Dio, vissuta nella preghiera e nell’attuazione dei suoi insegnamenti, perché viverla insieme agli altri, costituiti come popolo?

       A queste domande tante sono le risposte che si possono dare evidenziando i vari contenuti teologici della fede cristiana, di fatto il punto fondamentale è l’identità di Dio: «Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1Gv 4, 16).

       La cultura moderna, con l’assolutizzazione della libertà personale, il soggettivismo etico, l’incentrare tutto sull’individuo e i suoi bisogni, è di fatto lontana dalla fede cristiana, dal Vangelo.

       A questa società siamo inviati, come cristiani, battezzati, seguaci di Cristo, ad annunciare il Vangelo, secondo verità e nella carità, senza riduzioni e compromessi, con umiltà e amore.

       L’evangelista Marco presentando l’equipaggiamento dei discepoli inviati ad annunciare il Vangelo, evidenzia ciò che Gesù esige non venga mai meno: lo spirito di semplicità e di rinuncia.

       I discepoli devono rinunciare a tutto ciò di cui possono fare a meno; devono rinunciare a condizioni di comodità e di potere; devono lasciare che nulla ostacoli la forza dell’annuncio evangelico.

       Il loro massimo sforzo dev’essere diretto all’annuncio e la rinuncia a tutto quello che è superfluo sottolinea l’essenzialità dell’annuncio stesso: la salvezza di Dio giunge per i poveri e gli infermi, ma esige fede e conversione.

       La fede e l’annuncio non sono questione di prestigio o di potere, ma servizio a Dio e ai fratelli inderogabili e conseguenti alla relazione con il Cristo, di conseguenza la povertà del discepolo è segno efficace della fede. Senza la povertà non c’è fede, se non a parole.

       La povertà del discepolo non è tanto materiale, quanto esistenziale, cioè libertà da ogni interesse, tornaconto, attaccamento alle cose di questo mondo; non è non possedere, ma non essere schiavo di ciò che si ha.

       La povertà è il segno efficace della fede; è la libertà del cuore e della mente da tutto ciò che riduce in schiavitù l’animo umano: denaro, successo, egoismo, interesse, avidità, potere, vanagloria.

       Gesù esige dai suoi discepoli, quindi da tutti i battezzati e, soprattutto, da coloro che si dedicano pienamente al servizio del Vangelo, la libertà interiore, la semplicità del cuore, la totale fiducia in Dio, la povertà interiore, l’umiltà del cuore e dei gesti.

       Queste caratteristiche interiori, del cuore, della coscienza, sono frutto del dono di Grazia ricevuto, come ci ricorda San Paolo nell’Inno di Efesini 1: «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo […] In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria».

       Senza il costante riferimento alla Grazia e senza un cammino di docilità alla sua azione, non potrà esserci vera fede e vera testimonianza e l’evangelizzazione non produrrà effetto perché non vissuta in docilità allo Spirito.

       Le indicazioni di Gesù riportate nel brano di Marco non vanno prese alla lettera, ma non vanno neanche edulcorate. L’importante, da non dimenticare mai, è la serietà e l’importanza dell’annuncio salvifico del Vangelo, che non può mai venire meno e che richiede impegno e accoglienza coerente.

       L’annuncio della salvezza non può essere modificato, adattato, ridotto, perciò richiede serietà e coerenza di vita, accoglienza e umiltà, una coscienza retta e formata, «[…] essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (Ef 1,4).

       L’annuncio del Vangelo ha la sua efficacia nella Parola stessa e non è sottomesso al successo secondo la logica umana, ma esige che sia compiuto con obbedienza e fedeltà in totale spirito di servizio e di umiltà.

       La Parola di Dio è efficace per sé, ma deve essere accolta in libertà da chi l’ascolta per portare frutti. Essa può essere anche rifiutata e la sua efficacia non viene meno, ma da chi l’ha accolta pretende che sia fatta fruttificare con la docilità del cuore e la testimonianza della condotta di vita.

       Chiediamo al Signore di renderci docili all’azione del suo Spirito per essere annunciatori credibili del suo Vangelo con una condotta di vita degna della fede che professiamo.

        Le preghiere di colletta ci aiutano a pregare con queste parole:

       «O Dio, che mostri agli erranti la luce della tua verità, perché possano tornare sulla retta via, concedi a tutti coloro che si professano cristiani di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, di respingere ciò che è contrario a questo nome e di seguire ciò che gli è conforme; colmaci del tuo Spirito, perché annunziamo il tuo Figlio ai fratelli con la fede e con le opere».

      


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