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XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“Credibili e non Increduli”


 

(Ez 2,2-5 - Sal 122 - 2Cor 12,7-10 - Mc 6,1-6)

 

       «[…] si meravigliava della loro incredulità» (Mc 6, 6).

       L’incredulità è la riluttanza a credere, che può essere, secondo la teologica cattolica: negativa, cioè involontaria, dovuta a ignoranza incolpevole, e quindi non considerata peccato; positiva, cioè volontaria, dovuta a esplicito rifiuto della fede o a ignoranza colpevole, considerata uno dei più gravi peccati contro Dio, quello contro lo Spirito Santo.

       Di fronte alla fede dell’emorroissa e di uno dei capi della sinagoga, Giairo, Gesù si trova di fronte alla incredulità crassa dei suoi compaesani, che ammirano i miracoli compiuti da Gesù, ma non lo riconoscono come il Messia, il Maestro, il Figlio di Dio.

       Una ammirazione che non permette di aprirsi alla fede, ma resta ferma sulla considerazione dell’evento miracoloso, prodigioso, senza riuscire a fare il salto di qualità, di andare oltre e leggere l’iniziativa di Dio.

       L’incredulità appartiene all’umanità come costitutivo del suo essere e ragionare, ma oggi, più che mai, l’incredulità, proprio come riluttanza a credere, è connaturale per la cultura materialista e la divinizzazione della scienza.

       Viviamo in una società negativa? Siamo una società alla deriva morale?

       Credo che non sia assolutamente così, anzi, se riscontriamo una incredulità diffusa non è responsabilità della società, ma deve essere considerato uno stimolo per chi crede a verificare la propria vita e la testimonianza che dà.

       Di fronte all’incredulità sempre più diffusa e palese, la domanda da porsi come credenti è sulla personale e comunitaria “credibilità”: Sono credibile? La Chiesa, nelle sue varie espressioni e componenti, è credibile?

       Perché questa domanda è importante? Perché la fede non è mai una condizione scontata, né automatica per l’aver ricevuto il Battesimo e/o gli altri Sacramenti.

       La fede è relazione personale con Cristo, che nasce dall’incontro con Lui per la mediazione di testimoni.

       Se la fede fosse automatica e scontata per il semplice fatto di appartenere ad una comunità di credenti, gli Ebrei sarebbero tutti cristiani per il solo fatto che Gesù si è incarnato e ha predicato in mezzo a loro.

       L’incredulità naturale dell’uomo, lo scetticismo proprio della ragione, esige la credibilità del testimone della fede.

       Nella cultura moderna, in cui il soggettivismo religioso la fa da padrona, la credibilità è fondamentale per aiutare la persona ad incontrare Cristo e passare dalla religiosità alla fede.

       Il brano evangelico di Marco è l’occasione per soffermarsi a considerare la propria esperienza di fede e la credibilità del proprio agire da credente.

       Prima di soffermarsi all’attualizzazione del brano evangelico, credo sia opportuno ricordare la definizione di credibilità, per questo riporto la definizione dell’Enciclopedia Treccani: «Nella teologia cattolica, adesione ragionevole a quanto venga attestato da un’autorità divina o umana, degna di fede. Il giudizio di credibilità precede l’atto di fede soprannaturale ed è condizione necessaria perché la fede sia ragionevole. È dunque un atto naturale; ma ciò non esclude l’intervento della Provvidenza e della Grazia».

       La credibilità è necessaria per una fede ragionevole, non legata al devozionalismo, al pietismo, al sentimentalismo.

       La credibilità nasce dall’adesione ragionevole al Cristo, che si traduce in una novità di vita, nella conversione di giudizio e comportamento, nel cammino di “cristificazione”, indicato da San Paolo e sintetizzato nella sua espressione: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20).

       Il brano evangelico di Marco è, dunque, un invito per ogni battezzato a considerare la propria esperienza di fede a partire dalla relazione personale e coinvolgente con il Cristo, che non consiste in un “toccare magico”, “sensazionale”, “miracoloso”, bensì un “toccare” che libera, che rinnova integralmente la vita, perché mente, cuore e volontà siano abitati dalla Grazia, orientati a Dio e producano “credibilità” che coinvolge ed interpella chi la incontra.

       L’evangelista Marco invita la Chiesa tutta ed ogni singolo credente a non cadere nel rischio di “toccare”, “maneggiare” Cristo ogni giorno e non riconoscerlo nel mistero dell’Incarnazione, che ci educa a saperlo riconoscere nel fratello, nostro prossimo.

       L’evangelista richiama i credenti a lasciare che l’incontro con Cristo cambi la propria vita e permetta a chi è incredulo di comprendere che la fede non è contro la mondanità e la carnalità, ma la eleva e la rende degna della sua destinazione: la comunione con Dio, essendo stati creati a sua immagine e somiglianza.

       La fede non annulla la condizione umana, ma la orienta verso il meglio di sé, verso l’espressione alta dell’umanità, in una relazione di vera fraternità e di amore per la vita.

       La fede non è perfezione, intesa come sublimazione della condizione carnale, ma come sostegno e guida perché la debolezza e il limite naturale dell’essere umano raggiunga la vetta alta della Santità.

       È l’esperienza di fede dell’Apostolo Paolo, ben espressa nelle parole della Seconda Lettera ai Corinzi: «Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12, 9-10).

       Se dimenticassimo che la fede cristiana è Storia di Salvezza, decisione libera Dio che si rivela nella storia degli uomini, che è storia di Gesù di Nazaret, vero Dio e vero uomo, e ci soffermassimo solo all’evento di Salvezza, senza passare per la persona di Gesù e la sua “storia”, presentata nei Vangeli, essa sarebbe pura ideologia, destinata a finire, a perdere di senso, come tante altre ideologie della storia umana.

       La fede è incontro personale con Cristo, che illumina il nostro cammino, la nostra storia; è cammino di comunione che si realizza mediante la nostra realtà debole e fragile, perché emerga Lui nella nostra debolezza.

       La fede non è, dunque, questione di privilegio, di potere, di superiorità sugli altri, ma è fare i conti con la nostra storia nella quale Dio ha deciso di farne parte perché possa essere una “storia di libertà”, “di grazia”, “di amore”.

       Se il mondo è incredulo, se gli uomini di questo tempo stentano a riconoscere Gesù come il Messia, il Signore, il Figlio di Dio, questo deve stimolare noi battezzati a crescere nella nostra fede, perché la nostra vita di credenti sia “credibile” e il mondo possa superare la sua incredulità e aprirsi alla relazione con Cristo, Signore e Maestro.

      

Chiediamo a Dio di renderci testimoni “credibili”, con le parole della preghiera di Colletta dell’anno B:

        “O Padre, fonte della luce, vinci l'incredulità dei nostri cuori, perché riconosciamo la tua gloria nell'umiliazione del tuo Figlio, e nella nostra debolezza sperimentiamo la potenza della sua risurrezione. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen!

XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“La fede: un cammino di crescita interiore”


 

(Sap 1,13-15; 2,23-24 - Sal 29 - 2Cor 8,7.9.13-15 - Mc 5,21-43)

 

       In vari momenti della giornata o in determinate circostanze in cui mi ritrovo a fare i conti con il mio carattere e i miei limiti, mi domando: «Ho veramente fede? Quanto la fede determina la mia vita?». La risposta, che in coscienza mi do, è che, sebbene possa affermare di avere fede, non sempre lascio che essa determini realmente la mia vita.

       Perché? È il conflitto interiore di ogni essere umano tra la sua autonomia e la felice esperienza dell’amore di Dio: un conflitto a cui neanche i Santi sono stati esenti, ma che hanno risolto riuscendo a far vincere l’amore di Dio sul proprio egoismo e bisogno di autonomia, attraverso un costante lavoro interiore.

       La fede, dunque, richiede un continuo impegno e lavoro interiore, perché si arrivi all’abbandono all’amore di Dio.

       Il brano evangelico di Marco, contenente il miracolo della guarigione della emorroissa e della risurrezione della figlia di Giairo, permette di capire quanto la fede viene in aiuto alla caducità e alla piena realizzazione di sé.

       L’evangelista pone in risalto alcuni particolari nel raccontare questi miracoli, e su due vi invito a porre attenzione: il primo è la fede che permette di ottenere da Gesù il dono sperato; il secondo è espresso con il particolare dell’età della fanciulla e gli anni di malattia della emorroissa che coincidono.

        Gesù invita il capo della sinagoga, Giairo, ad avere fede, a non dubitare: questo invito rimanda al dubbio e alla paura dei discepoli durante la tempesta e insegna che la fede è fiducia, abbandono, certezza che Dio non ritira la sua promessa.

        L’emorroissa è elogiata da Gesù per la sua fede, che le ha permesso di vincere la paura, farsi spazio tra la calca della folla e toccare il mantello, certa di poter così ottenere la guarigione, che finora nessun medico era riuscito a darle.

        La fede, a cui il brano evangelico richiama, è la convinzione che Dio agisce nella storia umana attraverso il suo Figlio Gesù, per l’amore che ha per l’umanità e chiamandola alla liberante esperienza del suo amore.

        Giairo e l’emorroissa non conoscono Gesù come il Figlio di Dio, ma sanno che Egli è Maestro e compie miracoli, guarigioni. Si affidano con fiducia. Il verbo σζω (sôizô) significa sia “salvare”, che “guarire”. L’Evangelista vuole far capire che non si tratta semplicemente di una guarigione fisica, ma della “salvezza”, come dono della vita che viene da Dio.

       Il miracolo, ottenuto per la fede di Giairo e della emorroissa, è da intendere, dunque, come la novità di vita che la fede genera, la liberazione dalle strettoie dell’egoismo, del peccato, della caducità.

        La liberazione dalla malattia per l’emorroissa significa il tornare alla vita sociale, la ripresa della propria identità, il non essere emarginata, considerata immonda. La fede genera il cambiamento di prospettiva e apre l’orizzonte e la visuale a valori alti, oltre la materialità e gli interessi terreni.

       La risurrezione della figlia di Giairo indica la vita nuova che la fede genera, che non conosce più la morte generata dal male, dall’egoismo, dalla cattiveria, dal potere, dall’ingiustizia. Una vita nuova contrassegnata dalla “libertà” donata dalla Verità che è Cristo.

       Da dodici anni la donna era prigioniera della sua malattia; dodici anni aveva la figlia di Giairo: questa coincidenza, forse debitamente voluto dall’evangelista, sta ad indicare la caducità, la precarietà, la debolezza della vita dell’uomo, che solo Gesù può definitivamente togliere. Il numero 12, nella simbologia biblica, indica la totalità e rappresenta il numero dell'elezione, quello del popolo di Dio. Gesù ci inserisce nella condizione piena di eletti, di figli di Dio. La fede in Lui ci permette di vivere nella condizione di santità, di comunione con Dio, per la quale Egli ha dato sé stesso per noi, in una relazione spirituale con Dio di dialogo, di ascolto, di opere secondo la sua volontà.

       La fede ci salva e ci inserisce nel popolo di Dio, nella moltitudine di salvati che “hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello” (Ap 7, 14).

       Abbiamo tante volte bisogno di “toccare”, come l’emorroissa, come Tommaso, ma questa esigenza deve esprimere il vero significato della fede: cioè il contatto personale con Gesù, da cui ricevere il dono che riabilita e fa rinascere. Non deve essere un “toccare” magico, un amuleto, come spesso si riduce nella espressione della pietà popolare.

       Toccare Gesù in una relazione personale deve essere un cammino costante e quotidiano fatto di ascolto, meditazione, revisione, impegno, preghiera, abbandono, e soprattutto riconoscere in umiltà la propria fragilità, il proprio peccato.

       La fede, a cui siamo invitati da Gesù a vivere e conservarci, deve essere la forza per saper “guardare in alto”, saper superare il proprio limite, trovare il senso al proprio esistere, che è molto oltre il potere e l’avere, come invece il mondo vuole che viviamo.

       La fede ci permette di fissare l’attenzione su ciò che siamo e ci indica la bellezza dell’essere figli amati di Dio, che «[…] non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. […] Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura» (Sap. 1,13.2,23).

       La fede è un cammino di crescita interiore: inizia con la consapevolezza della propria pochezza e la fiducia nell’amore di Dio, che si è rivelato in pienezza in Gesù; diviene un incontro personale con Gesù, un dialogo che ci rapporta a Lui e crea un legame che dà accesso alla conoscenza del mistero della sua persona e genera fiducia e abbandono alla sua volontà; raggiunge il livello alto nell’affidarsi totalmente all’amore fedele di Dio, che è la vita in Dio, la santità, intesa non come perfezione personale, ma come abitazione di Colui che è Perfetto in noi.

       Desiderando di crescere in questo cammino di fede, impegnarsi nella relazione con Cristo, perché tutto l’essere sia rigenerato dall’amore di Dio, consapevoli del proprio limite e fragilità, ciascuno trovi sprono nelle parole di San Paolo, tenendo sempre fisso lo sguardo su Colui che ci ama e ha dato sé stesso per tutti noi: «[…] quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3, 7-14).

XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“La fede placa ogni tempesta”


 

(Gb 38,1.8-11 - Sal 106 - 2Cor 5,14-17 - Mc 4,35-41)

 

       Quante volte ci domandiamo o ci viene chiesto: “Credi? Hai fede?”. Credere ed avere fede non sempre coincidono. Si può credere nell’esistenza di Dio; credere che Gesù è realmente esistito; credere che Dio si sia rivelato ed incarnato, ma questo non sempre conduce ed è sufficiente per avere fede!

       Si può addirittura praticare, accostarsi ai sacramenti, celebrare, ma neanche questo basta per poter dire: “Ho fede!”.

       Se pensiamo ad alcuni miracoli eucaristici, come quello di Lanciano, sono avvenuti per la mancanza di fede del celebrante, dunque, non è così scontato avere fede.

       Non sempre Credere corrisponde ad avere Fede!

       I discepoli, che riconoscono Gesù come Maestro, come Signore e Figlio di Dio, sono rimproverati dallo stesso Gesù: «Non avete ancora fede?» (Mc 4,40). La fede non è solo riconoscere che Gesù è il Signore, ma è fidarsi, affidarsi, abbandonarsi nel suo amore senza “se” e senza “ma”.

       Di fronte alle sfide, alle malattie, alle persecuzioni, alle difficoltà quotidiane, la fede è messa a dura prova. La domanda, che tante volte ricorre in queste situazioni, è la stessa dei discepoli nel ben mezzo della tempesta: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (Mc 4,38).

       La fede non è mozione del cuore, sentimentalismo, ma fiducia, relazione con Dio, che coinvolge razionalità e libertà, sentimento e volontà. La fede impegna tutta la persona, nelle varie componenti del suo essere, a vivere la relazione di fiducia e di amore con Dio.

       Credere in Dio, accogliere il Vangelo, vivere nel Regno di Dio, comporta un cammino di abbandono, di fiducia, di “resa incondizionata” della propria persona alla volontà di Dio.

       La fatica del vivere la fede dipende proprio dalla resistenza naturale dell’essere umano alla “resa incondizionata”, cioè senza avanzare alcuna pretesa!

       I discepoli, dopo aver ascoltato le parabole sul Regno, aver ricevuto spiegazioni in privato sul senso delle parabole, dopo aver seguito Gesù, lasciando ogni cosa, non sono ancora arrivati alla vera fede: sono presi dalla paura di fronte all’infuriare del vento e del mare in tempesta, gridano al Signore, ritendo che è indifferente verso di loro, che non gli importa di quello che possa accadere a loro.

       La paura di perdere le certezze, la vita, la posizione sociale, il potere; la paura di essere “etichettati” ed “esclusi”, mette in crisi la fede. Quante volte, legati alle consuetudini, alle tradizioni, alle modalità e ritualità con cui si vive la religiosità, alziamo resistenze di fronte ai cambiamenti, alla necessità di rivedere modalità e usanze per crescere nella fede?

       La fede è oltre le modalità con cui si esprime. La fede è altro e di più delle certezze e abitudini nelle quali pensiamo di viverla.

       La fede è riconoscersi amati e vivere nell’amore di Dio, come dice San Paolo: «l’amore del Cristo ci possiede» (2Cor 5,14).

       La fede è la consapevolezza di essere amati da Dio; riconoscere che nulla ci può separare dal suo amore: «Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-39).

       Riconoscersi immersi, posseduti dall’amore di Dio, permette di vivere in pienezza la fede; di cooperare all’edificazione del Regno di Dio; ad affrontare in speranza ogni cosa, ogni situazione ed evento della vita; a saper comprendere la volontà di Dio e attuarla; di lottare contro il male.

       La fede porta a saper placare ogni tempesta; a far cessare ogni vento contrario; a vincere sul male e far tacere ogni specie di demone; a vincere ostilità e superare ogni divisione; a vivere nella vera comunione e fraternità; ad essere Chiesa, membra viva del Corpo mistico di Cristo.

       Il brano evangelico della tempesta sedata, posto dall’evangelista Marco a conclusione delle parabole sul Regno, è un invito a riflettere sulla nostra fede nel Dio di Gesù Cristo, per comprendere che, per edificare il Regno di Dio, occorre operare nel suo amore, che “ci possiede” e ci spinge a guardare la vita con fiducia, certi che nulla ci potrà mai separare dall’amore di Dio.

       Avere fede, non dubitare dell’amore di Dio per noi, deve condurre a operare nell’amore, vincendo ogni fazione e divisione, per quanto possa dipendere da noi.

       Avere fede significa avere uno “sguardo nuovo” capace di essere ed operare “come Cristo”; ricercando ciò che edifica; riconoscendo nel prossimo il volto di Cristo, amandolo come fratello e costruendo una società in cui la carità sia la regola e la misura del vivere.

       I venti contrari, le onde che sballottano la vita destabilizzando sicurezze e incrinando speranza e volontà, non mancano nella nostra società e assumono sempre nuovi volti, nuove forme.

       La fede in Cristo, la consapevolezza di essere “posseduti dal suo amore”, spinge ogni credente alla “prudenza”, al “discernimento”, a leggere le circostanze sempre con gli occhi di Dio, cercando il bene ed operando in esso.

       Le parole del Salmo 106 fanno eco al brano evangelico e ci inondano di gioia e gratitudine. Con queste parole rendiamo lode a Dio per il suo amore riversato nei nostri cuori: «La tempesta fu ridotta al silenzio, tacquero le onde del mare […] Ringrazino il Signore per il suo amore, per le sue meraviglie a favore degli uomini».

      

XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“Vivere il Regno per essere testimoni credibili”


 

(Ez 17,22-24 - Sal 91 - 2Cor 5,6-10 - Mc 4,26-34)

 

       Come credenti siamo consapevoli di appartenere alla Chiesa, ma non sempre ci pensiamo membri del Regno di Dio, operai del Regno, edificatori.

       La nostra appartenenza alla Chiesa è sì identitaria, ma a volte carente della dimensione divina perché la componente umana diventa il criterio di stile e prassi. L’espressione molto comune tra i fedeli, legati alle prassi pastorali e devozionali: “Abbiamo sempre fatto così!”, ne è la dimostrazione esplicita.

       Cosa significa essere membri del Regno di Dio? Appartenere al Regno di Dio come incide sull’essere Chiesa per il credente?

       La categoria Regno di Dio spesso pensiamo rimandi a qualcosa dell’aldilà, mentre Gesù dice che è qualcosa che già ci appartiene in questa vita terrena: «Il Regno di Dio è in mezzo a voi!» (Lc 17, 21).

       Per essere membri del Regno di Dio occorre accogliere il Vangelo e attuare una conversione continua per renderlo presente nella quotidianità, nelle varie situazioni e scelte per vivere appieno la nostra fede.

       Essere membri del Regno consapevoli e coscienti significa, dunque, non solo vivere una appartenenza fisica ma molto più morale.

       La categoria del Regno aiuta la comunità di fede ad essere scevra da tutte le dinamiche prettamente umane ed essere così “comunità evangelizzatrice” in ogni cosa che fa. L’appartenenza al Regno forgia il credente e lo libera da ogni forma di potere, di privilegio, di autoreferenzialità: situazioni spesso riscontrabili soprattutto in chi guida la comunità parrocchiale e nei principali referenti dei vari servizi pastorali.

       Il Regno di Dio è una categoria evangelica che deve essere sempre posta a fondamento dell’identità dell’essere Chiesa perché questa sia la Chiesa di Cristo, comunità di fratelli, agape fraterna, in cui la Verità del Vangelo e la Carità siano stile autentico di ogni azione di culto e pastorale.

       La Chiesa, per essere secondo il Vangelo, per liberarsi dalle varie forme di limite umano dei suoi membri, occorre che sia sempre orientata alla meta della sua missione: rendere partecipi tutti del Regno di Dio!

       Gesù, parlando del Regno, non lo presenta come qualcosa di esclusivo, per pochi eletti prescelti, ma realtà a cui tutti posso entrare a far parte. La forza del Regno non dipende dal potere umano, ma dall’azione dello Spirito, che conduce ogni membro a piena maturità per essere degno di farne parte.

       Pertanto, per essere veri cristiani e testimoni del Vangelo, per essere vera comunità di fede nella piccola porzione di Chiesa, occorre lasciarsi guidare e convertire dallo Spirito, essere pienamente cosciente che tutto è di Dio e a Dio deve tornare, per cui ognuno è “servo inutile”, chiamato a fare bene e al massimo il suo compito.

       San Paolo ci ricorda: «Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male» (2Cor 5, 10).

       Questa frase, se fosse tenuta presente da ciascun credente, nelle varie situazioni della vita, permetterebbe di arrivare a dare piena testimonianza del Vangelo e a raggiungere la santità, non intesa come perfezione, ma piena comunione con Dio e i fratelli, nel vero stile del “servo inutile” del Vangelo.

       Consapevoli che da Dio abbiamo ricevuto tutto e a Dio dobbiamo ridare tutto, permette di vivere l’umiltà evangelica, di operare sempre e comunque per il bene del prossimo.

       Nella categoria del Regno l’azione pastorale della Chiesa, nelle piccole e svariate realtà parrocchiali, diviene libera da ogni limite umano, perché tutto viene vissuto con la libertà dei figli di Dio; con la responsabilità dell’amministratore saggio e prudente; con la semplicità del cuore e con la consapevolezza che tutto è di Dio e a lui deve tornare.

       Il cristiano, per vivere appieno la sua fede, l’essere membra del corpo di Cristo, della Chiesa e dare testimonianza del Vangelo, non deve mai perdere la dimensione del Regno, la consapevolezza che tutto è di Dio e a Lui deve tornare.

       Il cristiano è chiamato a vivere in pienezza la sua appartenenza al Regno di Dio per essere testimone credibile e ciò significa vivere nella piena responsabilità ogni cosa presente, sempre proteso a Dio, consapevole di dover rendere conto a Lui per ogni cosa.

       In questa prospettiva evangelica, le comunità parrocchiali diverranno sempre più luoghi in cui vivere nella vera fraternità e accoglienza; le varie realtà umane saranno permeate della testimonianza del Vangelo per lo stile di vita e le opere compiute dai credenti.

       Concludo con le parole della Esortazione Apostolica di Papa Francesco “Evangelii gaudium”:

       «Leggendo le Scritture risulta peraltro chiaro che la proposta del Vangelo non consiste solo in una relazione personale con Dio. E neppure la nostra risposta di amore dovrebbe intendersi come una mera somma di piccoli gesti personali nei confronti di qualche individuo bisognoso, il che potrebbe costituire una sorta di “carità à la carte”, una serie di azioni tendenti solo a tranquillizzare la propria coscienza. La proposta è il Regno di Dio (Lc 4,43); si tratta di amare Dio che regna nel mondo. Nella misura in cui Egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti. Dunque, tanto l’annuncio quanto l’esperienza cristiana tendono a provocare conseguenze sociali. Cerchiamo il suo Regno: «Cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33)» (180).

SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO (ANNO B) - 2021

“Celebrare, adorare e contemplare”


 

(Es 24,3-8 - Sal 115 - Eb 9,11-15 - Mc 14,12-16.22-26)

 

           «Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri […] è mediatore di un’alleanza nuova» (Eb 9, 11.15).

       La relazione con la divinità rimanda immediatamente all’offerta dei sacrifici. Il culto verso la divinità, oltre ad essere espressione dell’interiorità personale, è accompagnato dalla presentazione di sacrifici, quali atti rituali volti a dedicare un oggetto o un animale o un essere umano a un’entità sovrumana o divina, sottraendolo alla sfera quotidiana, come segno di devozione oppure per ottenere qualche beneficio, per espiare le colpe o per assicurarsi la benevolenza della divinità.

         La religione o religione naturale è lo specifico rapporto dell’uomo con Dio, e il culto è l’insieme degli atti mediante i quali l’uomo realizza il suo contatto col divino.

       Se tutto questo è valido per le religioni in generale, con l’ebraismo la relazione con Dio assume una connotazione diversa: la relazione uomo-Dio si basa sull’Alleanza voluta e stipulata da Dio stesso nel rivelarsi all’umanità.

       La professione di fede dell’ebreo inizia con le parole dello “Shema’ Jsra’el”, “Ascolta Israele” (Dt 6, 4), che evidenziano l’invito ad ascoltare la Parola del Signore che è “uno” ed “unico”, cioè l’unico capace di liberare l’uomo dalla schiavitù trasformando la sua storia perdente in storia della Salvezza.

         Nell’Antico Testamento due grandi cerimonie erano basate sui sacrifici di animali: l'inaugurazione della prima alleanza da parte di Mosè sul monte Sinai (Es 24, 8) e la cerimonia della purificazione dei peccati del popolo compiuta ogni anno dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell'Espiazione (Lv 16). Questi sacrifici restavano inefficaci, non potendo dare al popolo il desiderato accesso a Dio, impedito dalla coscienza del peccato, essendo inefficace, per la remissione dei peccati, l’aspersione con il sangue degli animali, come dice Eb 10, 4.

       L’alleanza di Dio con l’umanità è stata definitivamente sancita nel suo Figlio, incarnato, morto e risorto e la remissione del peccato definitivamente ottenuta con il sangue sparso per la salvezza degli uomini.

        L'autore della Lettera agli Ebrei è l'unico scrittore del Nuovo Testamento che attribuisce a Cristo i titoli di "sacerdote", "sommo sacerdote" e di "mediatore della Nuova Alleanza".

       Considerata da diversi esegeti quasi un vero e proprio commentario alle azioni e parole di Cristo nell'ultima cena, presenta il Cristo come un nuovo “sommo sacerdote” che ha offerto un nuovo sacrificio consistente nel suo corpo, inaugurando così la “nuova ed eterna alleanza”.

       Il culto cristiano non è, dunque, un’offerta estranea al credente, perché egli offre al Padre sé stesso unito al Cristo, per il dono della fede e per la comunione di vita attraverso l’agire secondo i suoi insegnamenti.

       Nell’Eucaristia, presenza reale di Cristo, il cristiano è inserito nella vita di “comunione” con Dio e con i fratelli. Per l’Eucaristia il cristiano è costituito presenza di Cristo mediante il suo agire, secondo il Vangelo, nella carità e nella verità.

        L’Eucaristia è la fonte indispensabile ed inesauribile della vita di fede: senza l’Eucaristia non c’è vita cristiana!

       Ogni azione di culto del cristiano trova origine e sostegno nell’Eucaristia. Senza l’Eucaristia, presenza reale di Cristo, la preghiera, le devozioni, le stesse azioni caritative perdono di senso, divenendo mozioni sentimentali del fedele slegate dalla volontà di Dio.

       L’Eucaristia, celebrata, adorata, contemplata, permette di essere e agire nella volontà di Dio, di camminare in fedeltà al comandamento dell’amore, attuando il volere del Cristo: “come ho fatto io” (Gv 13).

       Il teologo cardinale Henri De Lubac coniò la doppia affermazione: “L’Eucaristia fa la Chiesa e la Chiesa fa l’Eucaristia”. Senza l’Eucaristia non c’è Chiesa e la Chiesa, per essere tale, deve essere Eucaristica, cioè espressione vivente della comunione con Dio e con i fratelli.

       Questi concetti sono stati ben espressi in due documenti pontifici di San Giovanni Paolo II: l’Enciclica “Ecclesia de Eucharistia” (2003) e la Lettera Apostolica “Mane nobiscum Domine” (2004).

       L’Eucaristia deve essere al centro della vita del credente e della Chiesa, che non vuol dire moltiplicare le celebrazioni delle Messe, bensì che tutto deve trarre origine dall’Eucaristia e tutto deve essere espressione della comunione eucaristica.

        La celebrazione rituale dell’Eucaristia per essere degnamente vissuta, occorre che la comunione con Dio e i fratelli sia reale e non ideale! La vita di comunione suppone la vita di grazia e la pratica delle virtù della fede, della speranza e della carità. La vita di comunione, la vita eucaristica è un perseverare nella grazia, mediante un cammino di verifica interiore ed un agire autentico di comunione fraterna.

       Senza un cammino di grazia, un impegno morale nel vivere nella carità secondo verità, non si celebrerà ed attuerà l’Eucaristia: il Sacramento della salvezza diviene motivo di condanna (cfr 1Cor 11, 23-29).

         L’Eucaristia, mistero di comunione e presenza reale di Cristo, va celebrata, adorata, contemplata.

       La solennità del Corpus Domini, in cui si ribadisce la presenza reale di Cristo nel Sacramento, deve stimolare ogni credente ed ogni comunità parrocchiale a camminare nella comunione vera con Dio e con i fratelli. Deve essere una rinnovata occasione per costruire relazioni basate sulla verità e sulla carità; sulla sincerità e sulla fiducia; sulla semplicità e sulla onestà; sull’attenzione al prossimo e sulla disponibilità di cuore e di volontà.

         Adorando Cristo, realmente presente nell’Eucaristia, chiediamo che le famiglie cristiane siano veri cenacoli di comunione.

       Accostandoci al Sacramento dell’Eucaristia, chiediamo al Signore di renderci eucaristia vivente, pane spezzato per il nostro prossimo, pronti a servire e ad accogliere, amare e perdonare, correggere e sostenere, istruire e accompagnare.

        Contemplando il dono di Cristo nell’Eucaristia, chiediamo di essere umili e docili al suo amore, capaci di ascoltare e praticare la sua Parola, saper servire e amare “come Lui”, disposti a morire al nostro orgoglio per vivere nella vera comunione.


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