XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021
“Credibili e non Increduli”
(Ez 2,2-5 - Sal 122 - 2Cor 12,7-10 - Mc 6,1-6)
«[…] si meravigliava della loro incredulità» (Mc 6, 6).
L’incredulità è la riluttanza a credere, che può essere, secondo la teologica cattolica: negativa, cioè involontaria, dovuta a ignoranza incolpevole, e quindi non considerata peccato; positiva, cioè volontaria, dovuta a esplicito rifiuto della fede o a ignoranza colpevole, considerata uno dei più gravi peccati contro Dio, quello contro lo Spirito Santo.
Di fronte alla fede dell’emorroissa e di uno dei capi della sinagoga, Giairo, Gesù si trova di fronte alla incredulità crassa dei suoi compaesani, che ammirano i miracoli compiuti da Gesù, ma non lo riconoscono come il Messia, il Maestro, il Figlio di Dio.
Una ammirazione che non permette di aprirsi alla fede, ma resta ferma sulla considerazione dell’evento miracoloso, prodigioso, senza riuscire a fare il salto di qualità, di andare oltre e leggere l’iniziativa di Dio.
L’incredulità appartiene all’umanità come costitutivo del suo essere e ragionare, ma oggi, più che mai, l’incredulità, proprio come riluttanza a credere, è connaturale per la cultura materialista e la divinizzazione della scienza.
Viviamo in una società negativa? Siamo una società alla deriva morale?
Credo che non sia assolutamente così, anzi, se riscontriamo una incredulità diffusa non è responsabilità della società, ma deve essere considerato uno stimolo per chi crede a verificare la propria vita e la testimonianza che dà.
Di fronte all’incredulità sempre più diffusa e palese, la domanda da porsi come credenti è sulla personale e comunitaria “credibilità”: Sono credibile? La Chiesa, nelle sue varie espressioni e componenti, è credibile?
Perché questa domanda è importante? Perché la fede non è mai una condizione scontata, né automatica per l’aver ricevuto il Battesimo e/o gli altri Sacramenti.
La fede è relazione personale con Cristo, che nasce dall’incontro con Lui per la mediazione di testimoni.
Se la fede fosse automatica e scontata per il semplice fatto di appartenere ad una comunità di credenti, gli Ebrei sarebbero tutti cristiani per il solo fatto che Gesù si è incarnato e ha predicato in mezzo a loro.
L’incredulità naturale dell’uomo, lo scetticismo proprio della ragione, esige la credibilità del testimone della fede.
Nella cultura moderna, in cui il soggettivismo religioso la fa da padrona, la credibilità è fondamentale per aiutare la persona ad incontrare Cristo e passare dalla religiosità alla fede.
Il brano evangelico di Marco è l’occasione per soffermarsi a considerare la propria esperienza di fede e la credibilità del proprio agire da credente.
Prima di soffermarsi all’attualizzazione del brano evangelico, credo sia opportuno ricordare la definizione di credibilità, per questo riporto la definizione dell’Enciclopedia Treccani: «Nella teologia cattolica, adesione ragionevole a quanto venga attestato da un’autorità divina o umana, degna di fede. Il giudizio di credibilità precede l’atto di fede soprannaturale ed è condizione necessaria perché la fede sia ragionevole. È dunque un atto naturale; ma ciò non esclude l’intervento della Provvidenza e della Grazia».
La credibilità è necessaria per una fede ragionevole, non legata al devozionalismo, al pietismo, al sentimentalismo.
La credibilità nasce dall’adesione ragionevole al Cristo, che si traduce in una novità di vita, nella conversione di giudizio e comportamento, nel cammino di “cristificazione”, indicato da San Paolo e sintetizzato nella sua espressione: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20).
Il brano evangelico di Marco è, dunque, un invito per ogni battezzato a considerare la propria esperienza di fede a partire dalla relazione personale e coinvolgente con il Cristo, che non consiste in un “toccare magico”, “sensazionale”, “miracoloso”, bensì un “toccare” che libera, che rinnova integralmente la vita, perché mente, cuore e volontà siano abitati dalla Grazia, orientati a Dio e producano “credibilità” che coinvolge ed interpella chi la incontra.
L’evangelista Marco invita la Chiesa tutta ed ogni singolo credente a non cadere nel rischio di “toccare”, “maneggiare” Cristo ogni giorno e non riconoscerlo nel mistero dell’Incarnazione, che ci educa a saperlo riconoscere nel fratello, nostro prossimo.
L’evangelista richiama i credenti a lasciare che l’incontro con Cristo cambi la propria vita e permetta a chi è incredulo di comprendere che la fede non è contro la mondanità e la carnalità, ma la eleva e la rende degna della sua destinazione: la comunione con Dio, essendo stati creati a sua immagine e somiglianza.
La fede non annulla la condizione umana, ma la orienta verso il meglio di sé, verso l’espressione alta dell’umanità, in una relazione di vera fraternità e di amore per la vita.
La fede non è perfezione, intesa come sublimazione della condizione carnale, ma come sostegno e guida perché la debolezza e il limite naturale dell’essere umano raggiunga la vetta alta della Santità.
È l’esperienza di fede dell’Apostolo Paolo, ben espressa nelle parole della Seconda Lettera ai Corinzi: «Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12, 9-10).
Se dimenticassimo che la fede cristiana è Storia di Salvezza, decisione libera Dio che si rivela nella storia degli uomini, che è storia di Gesù di Nazaret, vero Dio e vero uomo, e ci soffermassimo solo all’evento di Salvezza, senza passare per la persona di Gesù e la sua “storia”, presentata nei Vangeli, essa sarebbe pura ideologia, destinata a finire, a perdere di senso, come tante altre ideologie della storia umana.
La fede è incontro personale con Cristo, che illumina il nostro cammino, la nostra storia; è cammino di comunione che si realizza mediante la nostra realtà debole e fragile, perché emerga Lui nella nostra debolezza.
La fede non è, dunque, questione di privilegio, di potere, di superiorità sugli altri, ma è fare i conti con la nostra storia nella quale Dio ha deciso di farne parte perché possa essere una “storia di libertà”, “di grazia”, “di amore”.
Se il mondo è incredulo, se gli uomini di questo tempo stentano a riconoscere Gesù come il Messia, il Signore, il Figlio di Dio, questo deve stimolare noi battezzati a crescere nella nostra fede, perché la nostra vita di credenti sia “credibile” e il mondo possa superare la sua incredulità e aprirsi alla relazione con Cristo, Signore e Maestro.
Chiediamo a Dio di renderci testimoni “credibili”, con le parole della preghiera di Colletta dell’anno B:
“O Padre, fonte della luce, vinci l'incredulità dei nostri cuori, perché riconosciamo la tua gloria nell'umiliazione del tuo Figlio, e nella nostra debolezza sperimentiamo la potenza della sua risurrezione. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen!”