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La Luce Negli Occhi

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Solennità Santissima Trinità – ANNO B – 2021

“Vivere nell’amore trinitario”


 

(Dt 4,32-34.39-40 – Sal 33 - Rm 8,14-17 - Mt 28,16-20)

 

       “Le religioni sono tutte uguali! Le religioni sono invenzioni di uomini. La religione in sé è ottenebramento della intelligenza e limite alla libertà”.

       Queste alcune delle tante affermazioni sulle religioni, soprattutto tra i giovani, che evidenziano una quasi completa ignoranza sia storica che teologica delle religioni.

       Da questa prima superficiale e limitata esposizione del pensiero comune sulle religioni da parte della attuale società, credo nasca spontanea la domanda: «Tra coloro che si professano credenti, quanto profonda e consapevole è la conoscenza della religione cristiana?».

       La solennità della Santissima Trinità è una delle cosiddette “Feste teologiche”, cioè festività che celebrano le verità teologiche fondamento della propria fede.

       La religione cristiana è una religione rivelata, cioè l’iniziativa è di Dio, che si è fatto conoscere, che si è manifestato agli uomini. Ha intessuto una relazione di “predilezione” mostrandosi come Dio di amore, stipulando l’alleanza con l’umanità, definitivamente sancita nel sacrificio del suo Figlio sulla croce.

       Il Dio cristiano è Uno nella sua sostanza e Trino nelle persone; è comunione di amore tra le persone della Trinità; chiama l’umanità a vivere nella comunione trinitaria, donando il suo Spirito di Verità, di Amore, di Comunione.

       Celebrare, dunque, la Solennità della Trinità, a termine del tempo forte della Pasqua, significa ricordare che siamo inseriti nella comunione Trinitaria non per merito, ma per dono di amore gratuito.

       L’impegno del credente deve essere tutto orientato a conservarsi nell’amore trinitario in cui è inserito per il dono del Battesimo ricevuto e vivendo secondo gli insegnamenti del Cristo: «[…] Andate, dunque, e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20).

       La vita di fede è operare nell’amore trinitario generando comunione di vita con i fratelli. La fede si attua nella carità!

       La fede non è, dunque, pratica religiosa, devozione o tradizione di pietà, ma vita di carità, di comunione. Ogni atto di culto trova senso e fondamento nell’amore di Dio ricevuto e accolto, e rimanda ad una vita di amore verso i fratelli, senza la quale ogni preghiera e atto di culto a Dio Trinità perde di significato: «[…] Se dunque tu presenti la tua offerta all'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5, 23-24).

       La preghiera è mozione dello Spirito, è risposta d’amore all’amore ricevuto da Dio: «[…] avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!»» (Rm 8, 15).

       Benedetto XVI, nell’udienza generale del 23 maggio 2012, commentando questa affermazione di Romani 8, dice: «San Paolo vuole farci comprendere che la preghiera cristiana non è mai, non avviene mai in senso unico da noi a Dio, non è solo un «agire nostro», ma è espressione di una relazione reciproca in cui Dio agisce per primo: è lo Spirito Santo che grida in noi, e noi possiamo gridare perché l'impulso viene dallo Spirito Santo. Noi non potremmo pregare se non fosse iscritto nella profondità del nostro cuore il desiderio di Dio, l'essere figli di Dio.»[1]

       Tutto, della vita del cristiano, deve essere espressione dell’amore trinitario, senza il quale non sarebbe una vita di fede, ma una religiosità sterile e finalizzata al momento, all’atto di culto vissuto, alla devozione.

       Per questo Gesù ci insegna a chiamare Dio “Padre”; ci ha donato lo Spirito che ci fa pregare; ci ha insegnato ad amare e perdonare, liberandoci dalla giustizia farisaica (cfr. Mt 5, 20).

       Gesù ci ha insegnato ad amare senza riserve, superando la logica del “dare ed avere”, amando e perdonando con la stessa gratuità con la quale siamo stati amati e perdonati da Dio.

       Vivendo in questo amore siamo inseriti nella vita in Dio, costituiti dallo Spirito “eredi di Cristo”: «[…] se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8, 17).

       Partecipare alle sofferenze di Cristo, significa amare con la sua misura, perdonare oltre ogni logica, donare sé stessi in una relazione fraterna ponendosi a servizio di carità del prossimo.

       Celebriamo, allora, questa Solennità rinnovando la nostra fede nel Dio Trinità impegnandoci a vivere e conservarsi nell’amore di Dio, nella comunione con i fratelli, nella costante ricerca della Verità nella Carità.

       Professiamo la nostra fede nel Dio Uno e Trino e cresciamo nel discernimento per essere sempre più degni figli di Dio, camminando nella Verità, operando nella Carità e vivendo fermi nella Speranza.

       Rendiamo manifesto l’amore di Dio, ricevuto con il Battesimo e nel quale siamo stati inseriti in una comunione nel sacrificio di Cristo, con parole, gesti, scelte di vita tutti orientati a vivere nell’amore e generare amore.

       In ogni cosa viviamo fedeli al “Si” della fede, sull’esempio della Vergine Maria, “umile serva del Signore” (Lc 1, 38).

 

[1] Benedetto XVI, Udienza generale del 23 maggio 2012 in https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2012/documents/hf_ben-xvi_aud_20120523.html

Domenica di Pentecoste – Anno B - 2021

“Amare sì, ma secondo lo Spirito”


 

(At 2,1-11 - Sal 103 - Gal 5,16-25 - Gv 15,26-27; 16,12-15)

 

       La solennità di Pentecoste segna l’inizio della Chiesa. La Chiesa nasce con il dono dello Spirito Santo e sussiste grazie allo Spirito. Senza lo Spirito Santo, la Chiesa non ha vitalità in sé e sarebbe solo una struttura umana priva di ogni riferimento a Dio.

       Occorre comprendere, allora, cosa significa accogliere il dono dello Spirito e celebrare la Pentecoste.

       Non dobbiamo dimenticare che la solennità di Pentecoste cristiana si inserisce nella festa di Pentecoste ebraica. Gli ebrei celebrano la Pentecoste, in ebraico Shavu'òt, che significa, letteralmente, Settimane. Lo scopo originario di questa ricorrenza era il ringraziamento a Dio per i frutti della terra, cui si aggiunse più tardi, il ricordo della rivelazione di Dio sul Monte Sinai e il grande dono fatto al popolo ebraico della Torah, la Legge.

       Era una delle feste di pellegrinaggio al tempo di Gesù, per questo i discepoli si trovano nuovamente a Gerusalemme, nel giorno di Shavu'òt, e riceveranno lo Spirito Santo.

       Nel giorno di Pentecoste gli Apostoli riuniti, insieme a Maria, ricevono lo Spirito Santo promesso dal Cristo e iniziano ad annunciare il Vangelo senza paura e tutti li comprendono: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? […] li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio» (At 2, 7-11).

       Il dono dello Spirito ricevuto permette a tutti di accogliere l’Alleanza di Dio con l’umanità, di accogliere la Legge nuova del Cristo, morto e risorto.

       La Pentecoste cristiana è l’inizio del cammino del nuovo popolo di Dio redento dal Cristo, seguendo la Legge nuova, che non abolisce la Torah, ma la porta a compimento: la Legge dell’Amore!

       Celebrare oggi la Pentecoste deve significare la continua adesione nella vita nuova dello Spirito in cui ogni battezzato è inserito.

       Celebrare la Pentecoste oggi deve significare il bisogno di ricercare sempre ciò che è secondo la volontà di Dio per essere Chiesa viva, corpo mistico di Cristo.

       «Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne» (Gal 5, 16).

       Celebrare la Pentecoste oggi deve significare per ogni cristiano il rinnovato e costatante impegno a camminare secondo lo Spirito.

       Come? Cosa significa? Domanda lecita, anche perché è facile cadere nell’errore di credere di seguire lo Spirito assecondando, invece, il proprio orgoglio.

       Come essere sicuri di camminare secondo lo Spirito?

       San Paolo ci indica il criterio per verificare se in noi agisce lo Spirito di Dio o meno: basta riconoscere i frutti del nostro stile di vita!

       Lo Spirito Santo è amore! Se lo lasceremo agire in noi, tutto ciò che faremo sarà espressione dell’amore e genererà amore: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge» (Gal 5, 25).

       Basta amare per camminare secondo lo Spirito?

       La parola “amore” oggi è la più svalutata e declinata nelle forme più variopinte, ma di fatto è un sentimento che caratterizza l’umanità. Senza amore non si vive, ma cosa significa amare e vivere secondo lo Spirito Santo?

       Provo a sintetizzare in alcuni passaggi ciò che richiederebbe una trattazione approfondita, sperando di non peccare in chiarezza.

       I greci usano tre verbi per indicare diversi livelli e modalità di amore: eros (έρως), philia (φιλία), agapè (αγάπη). Eros indica l’amore umano, passionale e possessivo. La filia è l’amore di amicizia, aperto alla condivisione e solidarietà. Agapè è l’amore di donazione totale, proprio di Dio, a cui l’umanità è portata a vivere per la fede e la docilità all’azione dello Spirito.

       L’amore agapico è possibile raggiungerlo, ma richiede la conversione costante a Dio, la docilità alla sua volontà e all’azione dello Spirito.

       L’agapè chiede il superamento del proprio egoismo, del bisogno naturale di essere ricambiati, apprezzati, considerati, cercati, perché l’agapè è amore totale e gratuito, senza interesse, tornaconto.

       L’agapè è amore dato anche quando non richiesto, fino all’atto supremo del martirio. È Amore che si dona senza aspettare nulla in cambio, pronto a rinunciare a sé pur di fare il bene del prossimo.

       È una misura alta dell’amore, superiore alle naturali possibilità umane, che non annulla la personalità e la sua capacità di amare, ma la eleva.

       L’agapè eleva l’amore di eros rendendolo capace di “amare e rinnegare sé stessi”, cioè quella parte di sé che è orgoglio, bisogno di apprezzamento, ricerca del tornaconto.

       Di fatto l’agapè si innesta sull’eros e lo eleva senza annullarlo. Lo Spirito Santo non annulla la personalità, il carattere, i limiti e difetti di ciascuno, ma dà la forza, la luce, la capacità di superarli, di dirigerli oltre sé per il fine alto della comunione con Dio.

       Amare secondo lo Spirito vuol dire fare della propria esistenza una costante fedeltà a Dio vivendo da figli di Dio, continuando a fare i conti con il proprio peccato, impegnandosi a vivere nella Grazia, nella comunione con Dio, in un costante allenamento spirituale attraverso l’ascolto della Parola e la preghiera: «Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3, 12-14. Vedi anche Rm 7, 18-25; Fil 3, 1-16).

       Amare secondo lo Spirito è, dunque, vivere sempre protesi verso Dio, camminando nella speranza, in un costante impegno di fede e di carità.

       Celebrare la Pentecoste significa, dunque, vivere ogni giorno nella docilità all’azione dello Spirito, in un costante allenamento interiore per superare il proprio limite e fare ogni cosa per amore e con amore, non per interesse personale, ma nella costante ricerca del Bene e per l’edificazione del Regno di Dio.

       Celebrare la Pentecoste comporta una vita vissuta nella “Speranza”, nella certezza dell’amore di Dio e nella tensione verso la vita eterna in Dio.

       Camminare secondo lo Spirito significa vivere nell’amore agapico, che non annulla la personale capacità di amare e il naturale bisogno di sentirsi amati, ma permette di amare con una misura alta e senza aspettarsi nulla in cambio, perché già amati, perdonati e accolti dall’amore di Dio.

       Camminare secondo lo Spirito chiede una umile accettazione e conoscenza del proprio limite, del proprio peccato e, conservando sé stessi nell’umiltà, impegnarsi a vivere nell’amore ricevuto da Dio per amare il prossimo, contro ogni logica umana, superando ogni interesse, ma sempre nella ricerca della Verità e nella giustizia.

       Amare secondo lo Spirito non vuol dire essere “buonisti”, ma cercare il vero Bene, che è Verità, per cui non si può accoglierlo e attuarlo senza fare verità in sé, senza giustizia e denuncia del male.

       Amare secondo lo Spirito non vuol dire che “basta amare”, che “l’amore è amore e basta”, perché non esiste amore vero senza verità. L’egoismo è di fatto una forma di amore, ma esclusivo, di conseguenza non basta dire “amore” per vivere il dono della Pentecoste.

       Dio ci dona il suo Spirito di amore, che è Verità, Sapienza, Luce, Intelletto, Giustizia, Fortezza, Temperanza, Prudenza, Dominio di sé.

       Accogliere il dono dello Spirito vuol dire fare “Verità” e cercare la “Verità”; vuol dire saper riconoscere ciò che è “Agapè” da ciò che è “Eros” nella sua espressione più bassa, che esclude alla vera reciprocità.

       Celebriamo questa Pentecoste chiedendo a Dio di fare verità in noi, per saper: discernere e accogliere in Verità, giustizia e umiltà il suo Spirito; vivere la nostra vita nell’Agapè, ricercando ed annunciando sempre la Verità, pronti ad andare contro la logica del mondo per restare fedeli all’amore di Dio; camminare nella Speranza, guidati dalla fede ed operando nella carità.

      

Ascensione del Signore – Anno B - 2021

“Annunciatori responsabili”


 

(At 1,1-11 - Sal 46 - Ef 4,1-13 - Mc 16,15-20)

 

          «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16, 15).

       La solennità dell’Ascensione del Signore segna l’inizio della predicazione della Chiesa nascente, dopo la sconvolgente esperienza della morte e risurrezione del Cristo. I discepoli, ancora attoniti e presi dal panico, impauriti e incapaci di trovare forza da sé per annunciare ciò che hanno vissuto, sono inviati dal Cristo risorto a dare testimonianza, ad annunciare il Vangelo a tutto il mondo.

       Questo invito risuona ancora forte dopo due millenni e il mandato di annunciare il Vangelo è sempre attuale e investe di responsabilità ogni battezzato.

       Oggi, come i discepoli, i battezzati sono impauriti, increduli, duri di cuore, lasciandosi sopraffare dalla logica del mondo e assecondando spesso quello che è contrario al Vangelo adducendo a giustifica che “tutti fanno così”.

       Le accuse che oggi si levano contro la fede e la Chiesa sono le stesse di sempre, riducendo il Vangelo ad un’invenzione degli uomini, a un racconto per menti ottuse e chiuse. Si preferisce la logica scientifica, ritenendola razionale e dimostrabile, alla tradizione millenaria della Chiesa.

       Da parte dei credenti si levano scudi verso il mondo accusandolo di essere assoggettato al male, incredulo ed empio, giustificando la paura dell’annuncio con il rispetto della libertà altrui e con il fatto che “le porte della Chiesa sono aperte a chiunque”.

       Al di là di ogni accusa del mondo e giustificazione da parte dei credenti, resta il comando di Cristo e il dovere morale di ogni battezzato di annunciare il Vangelo.

       Cosa significa questo? Come ogni credente, nella diversità dei compiti e impegni sociali, deve annunciare il Vangelo?

       La risposta è chiaramente indicata da San Paolo: «[…] comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4, 1-3).

       L’annuncio e la testimonianza del Vangelo consistono nel vivere la propria fede in modo coerente e pieno. L’annuncio, prima di essere azione di catechesi, deve essere novità di vita che esprime la potenza e la bellezza del Vangelo.

       L’annuncio sarà autentico e accolto se traspare dal modo di vivere quanto è bello e vitale amare Dio e seguire i suoi insegnamenti. Se la vita del credente non è contrassegnata dalla novità del Vangelo, non esprime la gioia e la bellezza del seguire Cristo, come può suscitare nel prossimo il desiderio di conoscere e seguire Cristo?

       La nostra società non è diversa da quella del tempo di Gesù e degli apostoli. Il cuore dell’uomo è sempre lo stesso: possono cambiare le condizioni di vita grazie al progresso scientifico-tecnologico, ma i sentimenti, le paure, i desideri e le angosce sono sempre le stesse. Il bisogno di dare senso alla propria vita è lo stesso di sempre.

       Il mondo ha bisogno di credenti che vivono autenticamente l’amore cristiano. Ha bisogno di credenti che, pur vivendo appieno e con responsabilità la quotidianità, hanno ben salda la speranza in Dio, consapevoli di essere destinati alla vita in Dio.

       Il mondo ha bisogno di credenti che sanno discernere il bene e sceglierlo senza compromessi, non rinunciando mai ad esso anche quando comporta esclusione e sofferenza.

       Il mondo ha bisogno di credenti che sentano forte la loro appartenenza alla comunità ecclesiale, nella diversità dei ruoli e carismi, ma tutti uniti nell’«edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4, 12-13).

       Il mandato di evangelizzazione, di annuncio del Vangelo deve partire da sé stessi, dall’impegno per raggiungere, come dice San Paolo, la condizione di “uomo perfetto”, “la misura della pienezza di Cristo”.

       La condizione di “uomo perfetto” e “la misura della pienezza di Cristo” non sono da intendersi né come perfezione morale, né religiosa, ma semplicemente lo stadio compiuto dell’uomo adulto nella fede. L’età adulta della fede indica la piena conoscenza del Cristo, della sua Parola, e il costante lavoro interiore di conversione perché tutto l’essere, mente, cuore, volontà, sia modellato su Cristo.

       È un cammino continuo di conversione, che impegna ogni battezzato, nella diversità di ministero e carisma, perché l’intero “corpo mistico di Cristo”, la Chiesa, raggiunga la piena maturità.

       Il comando di annunciare ad ogni creatura il Vangelo, proprio di ogni battezzato e di tutta la Chiesa, sarà fruttuoso se vissuto nella comunione ecclesiale.

       Per essere testimoni autentici della fede, per raggiungere la maturità della fede, tutto della vita del singolo battezzato, nella diversità di ruoli, responsabilità, carismi e ministeri, deve essere orientato alla “edificazione del corpo di Cristo”. In ogni circostanza della vita deve trasparire l’appartenenza a Cristo, mediante un costante lavoro interiore affinché, come diceva il Battista ai suoi discepoli: «Egli cresca e io invece diminuisca» (Gv 3, 30).

       Ogni credente, costituito annunciatore del Vangelo in virtù del Battesimo ricevuto e della fede che professa, deve vivere con responsabilità, in un costante cammino di crescita interiore perché raggiunga la piena maturità della fede in un impegno di edificazione del “corpo mistico di Cristo” nell’unità.

       Si è fedeli al comando di Cristo di proclamare il Vangelo ad ogni creatura se si vive in «umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4, 1-3). Solo nell’unità di mente, cuore e volontà, guidati dalla Verità e nella Carità, si darà vera testimonianza di Cristo, del suo Vangelo.

       Tenendo fisso lo sguardo al Regno di Dio, in cui Cristo è asceso, viviamo il comando di annunciare il Vangelo al mondo, nella piccola porzione in cui viviamo, con responsabilità, umiltà, gioia e nella piena comunione ecclesiale.

VI Domenica di Pasqua – Anno B - 2021

“La fede: una relazione di amicizia”


 

(At 10,25-27.34-35.44-48 - Sal 97 - 1Gv 4,7-10 - Gv 15,9-17)

 

       Il cammino pasquale ci propone la riflessione sulla relazione da vivere con Dio. Alla domanda: “Chi è Dio?”, i più attempati, risponderebbero immediatamente con la definizione del catechismo di San Pio X: “Dio è l'Essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra”. Una risposta giusta e vera, secondo la teologia, ma non esprime quella che è la relazione che il credente vive con Dio.

       La relazione con Dio è personale, nasce e matura nel tempo per l’esperienza di fede che si vive. Credere non significa semplicemente accettare l’esistenza di un essere superiore che viene chiamato Dio. Credere è tessere una relazione profonda che coinvolga tutto l’essere: mente, cuore e volontà.

       La fede nasce dall’incontro personale con Dio, attraverso la testimonianza, la consegna di “mano in mano” della propria esperienza con Dio, per permettere al prossimo di poter fare la propria.

       Solo per la relazione personale con Dio può nascere la fede, altrimenti è accettazione intellettiva della sua esistenza, oppure una religiosità che si ferma a pratiche di culto senza alcun coinvolgimento nelle concrete circostanze del vivere.

       Credere è vivere una relazione profonda, radicale, che coinvolge tutto il proprio essere. Credere è vivere una profonda relazione di amore con Dio, che si traduce in una novità di vita, di prospettiva, di giudizio e di possibilità.

       «Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9). Il verbo greco è μνω (menô), rimanere, inteso però non tanto nella condizione statica dello stare, ma dinamica di un continuare ad essere. Tradotto anche con “dimorare”, “abitare”.

      “μενατε”, rimanete, indica l’impegno continuo di relazione con Cristo, che permette di vivere nel suo Amore e nel quale tessere le relazioni attorno a noi. “Rimanere nel suo amore” indica la decisione di coscienza di vivere una relazione di amore con Dio con la quale rinnovare la propria vita e farne la propria “ragione d’essere”.

        Rimanere nel suo Amore comporta un impegno personale di crescita nella relazione e di accoglienza libera e piena del suo Amore. Avere fede, dunque, comporta impegnarsi in una relazione di amore con Dio, che si traduce in un rinnovamento della propria vita secondo l’insegnamento del Cristo: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15, 10).

      Gesù indica che non basta conoscere e accogliere la sua Parola, ma è necessario osservare i suoi “comandamenti”. Questo termine, “comando”, usato al plurale, di fatto è uno solo: è il comando dell’amore, amare “come” Lui ha amato; è il comando che muove e dirige ogni nostra azione.

        Avere fede comporta una rivoluzione totale di sé, un cambiamento di rotta, di prospettiva, di valutazione: tutto trova radice e valore nella relazione di amore con Dio e tutto ad esso deve essere riferito.

       In questa rivoluzione e accettazione di novità di vita, siamo costituiti nella condizione di “amici” e non di “servi”: «Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 14-15).

       Siamo costituiti, chiamati e riconosciuti, “amici” per il “rimanere”, “dimorare” nel suo Amore. Siamo “amici” perché Dio ci ama e permette di vivere una relazione con Lui alla pari, di partecipazione piena.

     Il termine greco usato da Giovanni è “φλοι”, plurale di “φλος” (filos), amico, colui che si associa, che condivide. Gesù ci chiama a condividere il suo amore, ad amare “come” Lui ha amato: è una relazione profonda in cui siamo costituiti per la scelta libera della fede.

       Non siamo sudditi, ma amici, che vivono la relazione con Lui e l’obbedienza al suo comando, alla sua Legge, per libera scelta, nella libertà di figli amati.

       La fede è, dunque, una relazione di amicizia, che ci pone su un piano di parità: rispondendo al suo Amore con amore, diventiamo come Dio, “santi” come Lui è Santo!

       La relazione di amicizia con Dio esige necessariamente l’amore per il prossimo: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 15, 17). In questo si realizza e si concretizza la fede cristiana. Senza questo amore per il prossimo non c’è fede, perché Dio è amore!

       «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv 4, 7-8).

       La fede, relazione di amicizia con Dio, conduce a vivere una vita di relazione di amore con il prossimo sul comando e l’esempio di Cristo, che fino alla fine concede la possibilità di aprirsi al suo amore nella scelta di libertà.

       Anche a Giuda, all’apice del suo tradimento, Gesù offre la possibilità di ricordare la relazione di condivisione e di amore con Lui: «Amico, per questo sei qui!» (Mt 26, 49-50). L’evangelista Matteo non usa lo stesso termine di Giovanni, ma “ταρε”, da “ταρος” (hetairos) amico, partner, collega. Sebbene lo chiama “amico”, Giuda non è nella condizione di chi condivide lo stesso amore, come il “filos” (amico), perché la sua scelta di libertà non è di “rimanere” nel suo amore, ma di “chiudersi” in una visione egoistica, che lo porterà alla disperazione e alla morte. Gesù gli ricorda che aveva iniziato a vivere nella sua amicizia, ma per sua libertà ha scelto di uscirne.

     Gesù ci chiama a vivere nel suo amore e a impegnarci in una relazione di amicizia con Lui, che esige un cambiamento radicale di prospettiva e di giudizio, un passaggio dalla visione egocentrica alla relazione fraterna e aperta alla reciprocità.

       Gesù ci offre il suo Amore e ci chiede di “rimanere” in esso amando “come Lui” il nostro prossimo.

     Rinnoviamo la nostra scelta libera di fede impegnandoci in una relazione di amicizia profonda con Cristo, accogliendo la sua Parola e attuando il suo comando di “amarci gli uni gli altri”. Quando tutto questo ci risulterà difficile o impossibile, non abbiamo che da fissare lo sguardo su Lui e ricordarci che: «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4, 10).


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