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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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Giovedì Santo «Missa in Coena Domini» – Anno B - 2021

“Dall’Io al Noi”


 

(Es 12,1-8.11-14; Sal 115; 1Cor 11,23-26; Gv 13,1-15)

 

          «io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso» (1Cor 11, 23)

         Eccoci ancora una volta a rivivere il Triduo Pasquale che inizia con la celebrazione della Messa nella Cena del Signore, in cui facciamo memoria dell’istituzione dell’Eucaristia.

         Sono giorni forti della fede, che coinvolgono emotivamente e caratterizzati da particolare devozione. Sono giorni e celebrazioni che ancora richiamano ad una partecipazione anche i meno praticanti e quelli legati ad uno dei cinque precetti generali della Chiesa: “Confessarsi almeno una volta all'anno e comunicarsi almeno a Pasqua”.

        Resta comunque indispensabile in questo giorno domandarsi: “Cosa è l’Eucaristia? Cosa significa per me? Come vivo l’Eucaristia?”. Sembrano domande scontate e, forse, inutili, ma a ben rifletterci nascono dall’affermazione di San Paolo di 1Cor 11,23.

         L’Eucaristia è dono di Cristo che esige di essere trasmesso con la vita. Prima di essere un precetto da assolvere (Partecipare alla Messa la domenica e le altre feste comandate), è comunione con Cristo che si traduce in una vita rinnovata, rigenerata dall’amore, che non può non essere trasmessa, perché tutti possano godere di questo dono di amore del Cristo.

         L’Eucaristia è la nuova alleanza con Dio nel sacrificio di Cristo; è presenza vera e viva di Cristo; è fonte di comunione con Dio e i fratelli; è viatico, sostegno al nostro cammino di fede.

         L’Eucaristia fa la Chiesa: essere Chiesa significa essere e vivere in comunione con Cristo e con il prossimo. Senza la vita di comunione vera con il prossimo il battezzato non vive la fede: «Se dunque tu presenti la tua offerta all'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5, 23-24).

         Se questo vale per l’offerta sacrificale antica, tanto più vale per accostarsi al dono di amore di Cristo: se non si è in pace, se si è escluso qualcuno dalla propria vita, non ci si può accostare a ricevere il dono di amore e di comunione, la presenza reale di Cristo. Il dovere morale della riconciliazione ha carattere prioritario su tutti gli altri obblighi, compreso il culto e la preghiera: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe» (Mc 11, 25).

       Le tante celebrazioni eucaristiche offerte e a cui partecipiamo come battezzati, credenti, come sono vissute e cosa trasmettono al prossimo?

       Inutile continuare a pensare che la nostra società segua i valori cristiani. Inutile illudersi che la religione cattolica sia professata dalla maggioranza degli italiani. Oramai solo una piccolissima percentuale pratica con regolarità e vive secondo il Vangelo.

        Colpa della cultura, del tempo che viviamo? Forse era più facile anni addietro, magari al tempo di Gesù? Nulla di più errato! Tutto dipende dalla scelta personale e dalla testimonianza di fede che incontra. Se oggi la società non ha riferimenti con la fede cattolica molto dipende dalla testimonianza dei cristiani, da come vivono la loro fede.

        Newman, a tal proposito, afferma: «Inoltre, è difficile resistere all’idea che, se fossimo vissuti in un’epoca di miracoli, o al tempo della vita terrena del Signore, saremmo stati uomini completamente diversi: tanto è difficile persuaderci che indipendentemente dalla forza esercitata dalle circostanze esterne sulla nostra condotta, in fin dei conti siamo noi e non quelle la causa prima di ciò che facciamo e di ciò che siamo»[1].

       Questo Giovedì Santo, in questo anno segnato dalla pandemia, non possiamo non soffermarci a considerare la personale responsabilità di essere “testimoni” con la vita del dono dell’Eucaristia; non possiamo non verificare se siamo portatori di speranza nel mondo per il dono di amore dell’Eucaristia.

       Fare memoria dell’istituzione dell’Eucaristia significa non dimenticare che Gesù ci ha insegnato a “fare come Lui”: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13, 14-15).

      Celebrare e ricevere l’Eucaristia conduce inevitabilmente a vivere “di Cristo” e “come Cristo”: alimentati del suo amore, amare e servire il prossimo in verità e carità.

    L’Eucaristia conduce al rinnovamento della propria esistenza, al cambiamento radicale di mentalità, di prospettiva. L’Eucaristia esige assumere la logica del servizio, abbandonare la logica del potere e valutare ogni cosa nella prospettiva del “noi”, cioè non per un bene e tornaconto personale, bensì nella ricerca del bene di tutti.

      Ciò che ostacola questo rinnovamento radicale è l’egoismo, il peccato. La grazia sacramentale non può portare frutti se ostacolata dal cuore che non vive nell’umiltà: «Quel che pone ostacolo alla loro efficacia è, per il battesimo, la mancanza di fede; per la confessione, la mancanza di contrizione; per il sacramento dell'altare, il peccato mortale o la volontà perversa; e così di seguito, per gli altri sacramenti. Non solo non si ricevono allora nuove grazie, ma aumentano i peccati»[2].

     Vivere l’Eucaristia, essere “cristificati”, trasmettere ciò che abbiamo ricevuto, significa passare dalla logica dell’Io alla logica del Noi, dall’egoismo alla comunione, dal potere al servizio. In questa novità di vita siamo inseriti e guidati dalla Grazia del dono dell’Eucaristia: senza non possiamo vivere; senza non siamo cristiani!

 

[1] J. H. Newman, Sermone VIII. La responsabilità umana non dipende dalle circostanze, in A. Bosi (a cura di), Opere di John Henry Newman. Apologia, Sermoni universitari, L’idea di università, UTET, Torino 1997, 570.

[2] G. Ruysbroek, L’ornamento delle nozze spirituali, in S. Simoni (a cura di), Mistici del XIV secolo. Imitazione di Cristo, Tauler, Ruysbroek, UTET, Torino 1988, 322-323.

Domenica delle Palme – Anno B - 2021

“Segno o Fede?”


 

(Mc 11,1-10; Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47)

 

         «Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!» (Mc 14, 10)

       Ad un anno dall’inizio di questa pandemia, eccoci di nuovo a vivere una Settimana Santa all’insegna del ridimensionamento delle tradizioni e dei gesti che contraddistinguono questo tempo forte e fondamentale della fede cristiana.

     Meditando sulla liturgia della Domenica delle Palme e sulle indicazioni della Santa Sede e della CEI[1] per la celebrazione dei riti della Settimana Santa (ed in particolare l’indicazione «in nessuno modo ci sia consegna o scambio di rami d’ulivo»), mi sono soffermato su alcuni aspetti e considerazioni che spero possano tornare utili anche a chi legge.

     La celebrazione della Domenica delle Palme, chiamata anche Domenica della Passione del Signore, ricorda l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, ricevuto da una folla che agitava rami di palma, emblema del trionfo del Messia.

      Il racconto evangelico fa riferimento all’ingresso di Gesù a Gerusalemme durante la festa ebraica di Sukkot o “Festa delle Capanne” (Levitico, 23, 41-43), una delle tre feste di pellegrinaggio prescritte nella Torah, feste durante le quali gli ebrei dovevano recarsi al Santuario a Gerusalemme, fino a quando esso non fu distrutto dalle armate di Tito nel luglio del 70 d.C.

      Durante il pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme gli ebrei portano con se il lulàv: un mazzetto intrecciato di vegetali composto da un ramo di palma, due di salice, tre di mirto e da un cedro, che va agitato durante le preghiere.

      Forte è il significato simbolico del lulàv: la palma, simbolo della fede, il mirto, simbolo della preghiera che s’innalza verso il cielo, il salice, la cui forma delle foglie rimandava il significato della bocca chiusa dei fedeli, simbolo del silenzio di fronte a Dio, legati insieme con un filo d’erba, il cedro, l’etrog, che rappresentava il frutto che Israele unito rappresentava per il mondo (Lv. 23,40).

       Secondo un’altra interpretazione simbolica la palma sarebbe la colonna vertebrale dell’uomo, il salice la bocca, il mirto l’occhio ed infine il cedro il cuore. L’uomo rende grazie a Dio con tutte le parti del suo essere.

      Il cammino era ritmato dalle invocazioni di salvezza (Osanna, in ebraico Hoshana) in quella che col tempo divenuta una celebrazione corale della liberazione dall’Egitto: dopo il passaggio del mar Rosso, il popolo per quarant’ anni era vissuto sotto delle tende, nelle capanne; secondo la tradizione, il Messia atteso si sarebbe manifestato proprio durante questa festa.

       Gesù entrò in Gerusalemme seduto sull’asina come aveva chiesto il giorno precedente, simbolo di umiltà e mitezza. La folla lo osanna come Messia e, come riporta l’evangelista Matteo, riconosce l’adempimento della profezia di Zaccaria (9, 9) «Dite alla figlia di Sion; Ecco il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma».

      I cristiani, commemorando l’ingresso a Gerusalemme, proclamano e riconoscono Gesù come il Messia. Camminano con Lui portando il ramoscello di ulivo o di palma, gridando Osanna al Figlio di Davide, consapevoli che Gesù è il Messia manifestatosi nella sua gloria con la sua passione, morte e risurrezione.

       Per i cristiani il ramoscello di palma, o di ulivo, ha un significato diverso da quello ebraico, perché è segno della testimonianza della fede; del camminare nella volontà di Dio nella piena sequela del Cristo Messia; della unione personale alla kenosi del Cristo indicata in Filippesi 2, 6-11.

      Il ramoscello è un segno, che se non seguito dal vero cammino di fede, rischia di essere vuoto o addirittura un amuleto, con cui invitare alla “pace” (ricordando la colomba del diluvio universale), ma non il segno della “pace” che Cristo porta nei cuori, per l’alleanza definitiva sancita nel suo sacrificio, che si ottiene con l’obbedienza della fede alla sua Parola.

      In questa domenica, oltre la commemorazione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, viene proclamata la Passione di Gesù tratta da uno dei sinottici (in questo anno dall’evangelista Marco), mentre il Venerdì Santo viene sempre letta la Passione dall’evangelista Giovanni. La lettura della Passione ricorda ai fedeli che riconoscere e proclamare Gesù come Messia significa unirsi alla offerta di sé sulla croce, in obbedienza alla volontà del Padre, per partecipare così alla sua gloria nel suo Regno.

      L’evangelista Marco, nel suo racconto dell’ingresso a Gerusalemme, è l’unico che riporta questa invocazione del popolo: «Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!» (Mc 14, 10). Con questa espressione vuole proclamare Gesù «re davidico», il Messia atteso, che non restaura la potenza di Israele su altri regni, ma viene a indicare il Regno di Dio, regno di pace e di giustizia, di umiltà e amore, a cui parteciperanno tutti coloro che lo seguono e lo riconoscono come Re e Signore della propria vita.

      In questa domenica, in questo anno segnato ancora dalla pandemia, il Signore ci invita a vivere i riti soffermandoci sul loro vero significato, andando all’essenziale della nostra fede.

     La Domenica delle Palme non può limitarsi al ramoscello di ulivo, alla palma donata, altrimenti resta un segno vuoto, trasformandosi in un amuleto! Di esso possiamo fare a meno, ma non possiamo esimerci da vivere la nostra unione a Cristo imitando la sua kenosi!

     Al segno possiamo rinunciare, ma non alla sequela di Cristo attraverso la vita basata sull’ascolto della sua Parola, la grazia sacramentale e la vita di carità.

     Siamo noi chiamati ad essere “testimoni”, “palme viventi” che annunciano con la vita la gioia di essere cristiani e la pace che abita nei cuori per la sequela del Cristo Signore, Re e Messia.

     Tocca a noi decidere di scegliere il “segno” o la “fede”: se essere “palme viventi” con la vita o usare un “simbolo” senza la nostra vera testimonianza!

 

[1] MI riferisco alla Nota della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti del 17 febbraio 2021 e alle indicazioni della presidenza della Conferenza episcopale italiana del 23 febbraio 2021.

V Domenica di Quaresima – Anno B

“Dalla Morte alla Vita”


 

(Ger 31,31-34; Salmo 50; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33)

 

       «[…] se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12, 24).

     Nella continua ricerca del senso della vita, della propria affermazione e realizzazione, spesso perdiamo il fine della nostra esistenza e cadiamo nella profonda solitudine interiore, nel vuoto esistenziale, che cerchiamo di colmare e sublimare con il possesso e il potere.

     Senza comprendere il fine dell’esistenza si resta imprigionati nella visione egoistica della vita; attaccati alla vita; ripiegati su sé stessi; perdendo la vita con l’illusione di viverla.

     Gesù ci ricorda che per vivere pienamente occorre non dimenticare che la vita è dono di amore e va vissuta nella logica del dono e dell’amore.

       «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12, 25).

       La contrapposizione odio/amore, riportata in questo versetto, ci insegna che solo vivendo la vita nella logica del dono è possibile viverla in pienezza.

     Odiare la vita secondo la visione del mondo significa liberarla dalle strette maglie dell’egoismo e della rivalità reciproca in cui cadiamo cercando di affermarci nella società.

     La vita è relazione, amore. La vita circola in quanto ricevuta e donata per amore. In questa prospettiva siamo chiamati a morire a noi stessi, secondo la visione egoistica ed egocentrica, per vivere nella reciprocità di amore.

     Gesù ci insegna che amare veramente significa servire, come lui stesso ha fatto. Servire è espressione dell’amore vero, libero da ogni affermazione egoistica, per trovare vita nella reciprocità costruttiva delle coscienze.

      Credere in Cristo, scegliere di essere suo discepolo, chiede di vivere nella logica del servizio. Essere “servo” seguendo Lui che si fa “servo” per salvare l’umanità.

      Questa identità del cristiano, del battezzato, di vivere da “servo” non è compresa dal mondo e, a volte, neanche dai cristiani stessi. Trova la sua fonte e ragione nella croce di Cristo, che resta “stoltezza” per coloro che non credono.

    La logica del servizio nasce dalla “kenosis” di Cristo, dal suo spogliarsi, svuotarsi (Fil 2). Sul suo esempio, il battezzato, per vivere l’obbedienza alla volontà del Padre, è chiamato a svuotarsi del proprio orgoglio per aprirsi alla carità, all’amore agapico di donazione, libero dal bisogno del contraccambio e del tornaconto.

    «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,9)

    La lettera agli Ebrei richiama il concetto paolino della “kenosis” e presenta il sacerdozio di Gesù come perfetto, portando a pienezza quello dell’A.T., che nonostante i molteplici e ripetuti sacrifici non poteva rendere perfetti coloro che li offrivano. Il suo sacrificio, a cui siamo uniti per il battesimo e partecipi nel sacrificio eucaristico con una condotta di vita secondo l’amore, ci rende degni di stare alla presenza di Dio e ci fa eredi della gloria di Dio.

      Unica condizione: vivere in obbedienza a Cristo!

    L’obbedienza a Cristo consiste nel vivere secondo la sua Parola, in verità e carità, sempre tesi a costruire il bene, nel servizio e nella accoglienza.

    Obbedire a Cristo significa vivere nella Legge nuova, che è Lui stesso. Una legge che sgorga dal cuore di chi vive in comunione con Lui attraverso la meditazione della sua Parola e i Sacramenti.

     La legge nuova del Cristo che è l’amore vero, in contrasto con i desideri umani. È una Legge iscritta nel cuore per l’azione dello Spirito. Per essere fedeli a questa Legge nuova occorre camminare secondo lo Spirito lottando contro i desideri naturali, che S. Paolo chiama i desideri della carne.

    I desideri della carne cercano l’appagamento egoistico della persona. San Paolo ne dà un elenco chiaro: «fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere» (Gal 5, 19-21).

    I desideri dello Spirito sono tutti rivolti alla reciprocità e rispetto della comune dignità: «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 22). Inseriscono nella logica del servizio, dove ciascuno si sente rispettato e accolto, ma nella comune ricerca della verità, che non può mai confondersi con il personale interesse o esigenza del proprio cuore.

     Il cammino del cristiano, nella sequela del Cristo, va dalla “morte alla vita”, dall’egoismo all’amore agapico.

     Il cammino dell’umanità, chiuso nella ricerca della personale affermazione, va di fatto “dalla vita alla morte”, perché porta inevitabilmente in se stesso la diffidenza verso il prossimo, l’uso dell’altro per interesse personale, ricerca egoistica di ciò che è utile e conveniente, affermazione di sé nell’esercizio del potere a diversi livelli.

    Seguire Cristo crocifisso e risorto permette di trovare la vera vita imparando a morire ogni giorno a sé stessi per cercare sempre ciò che edifica nella comunione con il prossimo.

     Il cammino quaresimale che stiamo compiendo ci porti a riscoprire la novità del Vangelo in un cammino che conduce dalla “morte” del nostro egoismo alla “vita” di comunione con Dio e il prossimo, soprattutto in questo anno di pandemia, in cui nonostante stiamo sperimentando la fragilità della nostra condizione umana e delle sicurezze del mondo e della scienza, riscontriamo spesso l’affermazione della libertà personale a discapito del prossimo.

     Cristo sia glorificato in ogni battezzato con la piena adesione alla sua Parola, in obbedienza a Lui, per un cammino di conversione e di amore costante dalla “morte alla vita”!

IV Domenica di Quaresima – Anno B

“Credere è fare la verità”


 

(2Cr 36,14-16.19-23; Salmo 136; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21)

 

«[…] chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3, 21).

 

        Tante volte ci chiediamo cosa significa credere. Si confonde, spesso, la fede con le pratiche di culto, limitando la fede al solo “praticare” la chiesa, partecipare alle funzioni, alla Messa.

        Il Vangelo di Giovanni presenta la fede come conoscere, accogliere e vivere la Verità, che è Cristo stesso.

      Nel brano di Nicodemo troviamo questa espressione: “fare la verità”. Una espressione insolita per il linguaggio attuale. Siamo soliti usare: “dire la verità”. Fare la verità è l’opposto del “fare il male”, perché Dio è Verità e quindi operare secondo Dio vuol dire “fare la verità”. Fare la verità significa vivere nella luce. Nel versetto precedente Gesù afferma: «Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate.» (Gv 3, 20).

      Il male è associato al buio, alle tenebre. Il bene è luce e chi lo opera vive nella luce. Il male opera nel buio e nasconde, quindi è menzogna, falsità, ipocrisia, meschinità. Il bene opera nella luce e non ha paura di nascondere, per questo è verità, giustizia, onestà, trasparenza.

     Il male cerca di restare nascosto per non essere sbugiardato, come la menzogna, per questo, di fronte a Gesù reagiva affermando: «Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio» (Mc 1, 24).

      La lotta tra il bene e il male è presente in ognuno di noi. In ciascuno c’è una lotta interiore (cfr Rm 7, 7-25): siamo contesi tra menzogna e verità, paura e fiducia, egoismo e amore. In questa lotta diuturna siamo giudici di noi stessi ed ogni volta aggiudichiamo a chi dare la vittoria, se al bene o al male, all’egoismo o all’amore.

      Il nostro libero arbitrio ci consente di decidere da che parte stare. L’arbitro della nostra vita è la nostra coscienza, che va educata, formata e illuminata con il costante confronto con la verità.

    Per “fare la verità” e “scegliere la verità” occorre conoscerla. Occorre riconoscere che Gesù è il Signore, il Messia, per questo dice a Nicodemo che «bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (v. 14).

     Credere in Gesù, ascoltare e vivere la sua Parola, è “fare la verità”, essere liberi e operare nell’amore: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (v. 17). Dio ci ha dato la possibilità di accogliere e scegliere la verità e vivere nel suo amore. La salvezza o la perdizione non è predestinazione di Dio, ma dipende dalla nostra libertà di scelta nel riconoscere ed accogliere la verità o rifiutarla.

     Al capito 8 del vangelo di Giovanni, Gesù afferma: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31-32).

     “Fare la verità” dipende dalla nostra libertà di scelta, dalla nostra accoglienza e adesione alla Parola di Dio, al Verbo fatto carne. Aderire a Lui è partecipare alla sua gloria, essere figli nel Figlio; è santità, giustizia; è “vivere nella luce” ed operare nella “luce” compiendo opere buone, «fatte in Dio» (v. 21).

      Credere, dunque, non è “praticare” ma “essere”! Non si identifica con gli stereotipi del “perfetto e devoto credente”, ma si concretizza nelle scelte quotidiane che nascono dalla verità, compiono la verità e conducono alla verità.

      Credere è un impegno costante di adesione alla parola e di costante verifica interiore; è una lotta continua con sé stessi per “fare la verità”, a costo di essere impopolare, andare contro corrente, avendo come misura e modello il Cristo: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime» (Mt 11, 29).

     “Fare la verità”, “conoscere la verità” ci rende veramente liberi perché impareremo a superare il nostro egoismo, ogni scelta concorrerà al bene ed ogni azione sarà per il bene.

    Credere nel Figlio, Parola vivente fatta carne, è nascere dall’alto, dall’acqua e dallo Spirito; è fondare il senso della propria esistenza sull’affidabilità del suo amore e camminare nel suo amore.

      L’alternativa è fondare la propria vita sull’osservanza di convinzioni e devozioni, sulla pratica religiosa che “ri-lega” (da “religio”) l’uomo ai suoi doveri sterili, rinunciando all’amore vero di Dio che libera e ama. L’alternativa è vivere la religiosità e non la vera fede!

III Domenica di Quaresima – Anno B

“Religiosità o Fede?”


 

(Es 20,1-17; Salmo 18; 1Cor 1,22-25; Gv 2,13-25)

 

«[…] noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1Cor 1, 23).

«Egli, infatti, conosceva quello che c’è nell’uomo» (Gv 2, 25).

 

       Religiosità o Fede? Credo che tutta la riflessione di questa terza domenica di quaresima possa ruotare intorno a questo binomio e interrogativo. Cosa viviamo, una religiosità o la fede nel Cristo risorto?

          Sembra una domanda inutile a prima vista, ma i due concetti esprimono una realtà completamente diversa.

        La religiosità è espressione della iniziativa di culto dell’uomo verso Dio; è atteggiamento e sentimento religioso, non necessariamente legati a una particolare religione storica, così definita nel dizionario della Treccani.

        In altre parole, è una pratica di culto, di devozione verso Dio, verso i Santi, anche senza una autentica relazione con Dio, perché manca dell’ascolto e accoglienza dell’iniziativa di Dio.

       La fede, dal suo canto, è iniziativa di Dio a cui l’uomo risponde. È una relazione profonda con Dio che parte dall’accoglienza della sua proposta di amore, di alleanza; è, dunque, caratterizzata dalla logica del dialogo, dalla reciprocità.

        La fede è una relazione vitale abitata soprattutto da molto ascolto più che da tante chiacchiere. Non è uno spreco di parole, ma un ascolto che si fa dialogo e condivisione. Avere fede non è dedicare a Dio qualche attimo della propria giornata offrendo preghiere o atti devozionali, ma è una relazione profonda, da cuore a cuore, che genera vita e costante rinnovamento interiore.

       Spesso la fede dei credenti assomiglia ad un monologo religioso, ove non si percepisce la chiamata di Dio; non si comprende la sua volontà; non si sa, di fatto, dialogare con lui.

        È allora che la fede decade a religiosità fredda e sterile, arrivando perfino ad essere disastrosa nelle sue espressioni, dal momento che non è più Dio a indicare il cammino, ma l’uomo in base alle sue ristrette visuali e ai suoi interessi immediati. La religione, a quel punto, è sfruttata per mascherarli, per legittimarli. Ma è un crimine orribile.

       «Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!»» (Gv 2, 14-16).

      

       Le varie fazioni presenti a vario livello nella Chiesa; le chiusure al dialogo, alla ricerca di cosa chiede il Signore per l’oggi, pensando di perdere qualcosa; le manifestazioni di potere che si riscontrano a diverso titolo nella Chiesa; il commercio che spesso c’è dietro alla devozione e al culto; l’ipocrisia e la meschinità che chiudono all’ascolto dello Spirito e scandalizzano i deboli e piccoli nel cammino di fede: tutto questo è ciò che profana il tempio di Dio e non è espressione della fede, ma della sterile e vuota religiosità. Un abomino davanti a Dio!

        Credere e avere fede significa vivere la relazione profonda e vitale con Cristo, crocifisso e risorto, potenza di Dio e sapienza di Dio (cfr 1 Cor 1, 24). Una relazione che è ascolto, adesione, costante verifica e dialogo continuo, impegnandosi a vivere nel suo amore compiendo il massimo bene possibile qui ed ora.

         I comandamenti, che il brano di Esodo ci ricorda, non sono altro che la via per il bene, la strada per la felicità vera e piena. Prima ancora di essere un divieto, sono un invito all’amore verso Dio, verso i fratelli e verso sé stessi. Solo nella logica dell’amore possono essere seguiti e attuati nelle varie circostanze della vita.

      Credere nel Cristo crocifisso e risorto vuol dire rompere con la visione di Dio giudice e potente, a cui attribuire le sorti del mondo e accusarlo per il male che ci circonda.

        Credere nel Cristo crocifisso e risorto vuol dire leggere, valutare, decidere con la logica dell’amore, vivendo con responsabilità e impegno ogni cosa per l’edificazione comune.

        Questo è stoltezza per il mondo, per chi ripone tutto nel potere, nel denaro, nel successo. Credere in Cristo significa cercare non il proprio tornaconto ed interesse, ma quello di tutti, che non chiede di disprezzare il benessere e la ricchezza, ma di non vivere in funzione di essa. Significa cercare il proprio bene senza escludere quello del prossimo; cercare il bene per sé favorendo e permettendo quello degli altri; usando i beni senza escludere, privare, negare al prossimo di averne ed usarne.

         Il culto gradito a Dio, che ci permette di vivere la relazione piena e vitale con Lui, non è altro che la nostra vita, le nostre opere, le scelte, le parole, i gesti tutti orientati al bene personale e di tutti.

        «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12, 1-2).

       Le preghiere, il culto, le devozioni e la stessa partecipazione ai Sacramenti, sono graditi a Dio se tutta la vita è un’offerta al Signore; se ogni cosa e in ogni cosa cerchiamo e compiamo la volontà di Dio: amare Lui e i fratelli!

       «Allontanate dunque ogni genere di cattiveria e di frode, ipocrisie, gelosie e ogni maldicenza. […] Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo» (1Pt 2, 1.4-5).

        Siamo il tempio di Dio, l’edificio spirituale. Offriamo il vero e gradito culto a Dio della nostra vita mediante l’ascolto e la meditazione della sua Parola, ricevendo la grazia dei Sacramenti ed operando nel suo amore verso il prossimo e nel mondo.

Religiosità o fede? Quale delle due realtà ci appartiene?

      


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