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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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II Domenica di Quaresima – Anno B

“Vita da trasfigurati”


 

(Gen 22,1-2.9.10-13.15-18; Salmo 115; Rm 8,31-34; Mc 9,2-10)

 

       «[…] se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8, 31).

       La vita cristiana è espressione della Pasqua. Ogni cosa è vissuta nella certezza della vita di gloria futura in Dio per la vittoria di Cristo sul male e sulla morte.

       La domanda di Paolo è conseguenza di questa certezza, che espone nei versetti precedenti: «Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L'ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8, 18-19).

       Siamo destinati alla gloria in Dio e dobbiamo vivere il presente in questa prospettiva, certi dell’amore di Dio e saldi nella speranza: «[…] anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8, 23).

       La vita cristiana è vita da trasfigurati!

       Si! Essendo figli della resurrezione di Cristo, noi partecipiamo alla sua gloria e veniamo interiormente rinnovati e trasfigurati.

       Per comprendere questa affermazione, soffermiamoci sul brano evangelico facendo alcune attualizzazioni.

       Il racconto della Trasfigurazione è presentato dai sinottici con accentuazione di fatti, ciascuno con uno stile del tutto personale. Per Marco, la trasfigurazione di Gesù è rivelazione del mistero del Messia, prima ai tre discepoli e, dopo la risurrezione, all’intera comunità che ne risulterà illuminata.

       Il racconto, che già presente nelle comunità prima della stesura dei vangeli, ha lo scopo di indicare la realtà nuova in cui è inserito il battezzato: la vita in Dio!

       I sinottici parlano del luogo della Trasfigurazione, che la tradizione indica come il monte Tabor nella Galilea, in modo generico: “alto monte”. Di fatto non è importante indicare di quale “monte” si tratta, perché esso ha un interesse teologico e non geografico. Il monte è il luogo per incontrare Dio. Gesù sale sul monte a pregare; conduce i suoi sul monte a riposarsi; il monte, quindi, è il luogo per avvicinarsi a Dio.

       Anche l’indicazione dei “sei giorni”, che richiama la vicenda di Mosè sul monte Sinai (Es 24, 16), ha un carattere teologico: lascia presagire un evento importante che dà compimento alle attese.

       La trasfigurazione è presentata da Marco ponendo l’accento solo sulle vesti del Cristo rese candide come nessun lavandaio possa mai fare, tralasciando le indicazioni sul volto riportate da Matteo e Luca. Questo particolare ci richiama alla condizione dei salvati in Apocalisse, vestiti di una veste bianca purificata nel sangue dell’Agnello; rimanda alla veste battesimale, alla condizione di ciascun credente.

       Il racconto della Trasfigurazione è, dunque, un invito a considerare il dono ricevuto della fede con il battesimo e la condizione di figli di Dio, per rinnovare il personale impegno a vivere questo rinnovamento interiore ed essere testimoni di questa novità di vita.

       Meditare durante la quaresima sul brano della Trasfigurazione permette di verificarsi in coscienza per comprendere se e quanto si è testimoni della vita nuova in Cristo per la sua resurrezione. Ci permette di verificarci interiormente per eliminare da noi tutto quello che continua ad lasciarci prigionieri di una visione totalmente materialista della vita; tutto quello che ci ostacola nel cammino di santità iniziato con il battesimo, che significa appunto essere rinnovati interiormente, capaci di vivere ogni cosa nella dimensione della fede.

      Meditare sulla Trasfigurazione ci deve ricordare anche che questa condizione ci appartiene proprio per la vita sacramentale che Dio ci ha donato. La grazia che riceviamo nei sacramenti ci trasfigura interiormente e ci permette di essere nel mondo portatori della novità di vita evangelica.

      L’Eucaristia è il Tabor che ogni giorno ci viene donato per incontrare Cristo ed essere da Lui rinnovati e inseriti nella comunione d’amore con Dio e i fratelli. Non possiamo vivere senza Eucaristia!

      Adorare Cristo Eucaristia è necessario e fondante: da questa sorgente di amore troviamo la forza per camminare secondo il Vangelo.

      Il sacramento della Riconciliazione è il Tabor da salire per incontrare Dio e lasciare che ci parli e purifichi interiormente affinché nulla ostacoli la sua Grazia in noi. Fare l’esame di coscienza ogni giorno per aprirsi sempre più alla volontà di Dio, per essere rigenerati dal suo amore e capaci di amare con la sua misura il prossimo. Confessare il proprio limite, la propria fragilità, il proprio peccato, per purificare la veste bianca battesimale macchiata dal nostro errore.

      La vita sacramentale è la fonte di grazia a cui alimentarsi per la vita di fede; è il Tabor in cui essere rinnovati e trasfigurati interiormente. Essa, però, ci rimanda nel mondo a portare la luce ricevuta, la forza prorompente dell’amore di Dio.

      Se ci fermassimo sul Tabor, come i discepoli che volevano costruire le tende per continuare a godere di quel momento, senza tornare nel mondo, andremmo contro la volontà di Dio.

      Dio ci dona la Grazia per servire Lui e i fratelli nella testimonianza di una vita trasfigurata dal suo Amore.

      Vivere una vita di fede legata solo alla religiosità, anche se partecipando alla vita sacramentale, senza un impegno di vita nuova nel mondo, significa non fare la volontà di Dio.

      Di fronte alla trasfigurazione Pietro disse: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (v. 5). Sembra un’affermazione condivisibile e giusta, ma non è nella volontà di Dio. Ognuno potrebbe dire che è bello soffermarsi davanti a Gesù eucaristia e desiderare di restare sempre lì, ma non è questa la vita di fede e la sequela.

      Cristo ci rimanda nel mondo, alla quotidianità della vita ove rendere visibile il nostro ascoltarlo e seguirlo. Rinnovati e trasfigurati con la grazia dei sacramenti siamo inviati a vivere in modo pieno e nuovo il tempo presente in attesa della gloria futura; dobbiamo donare ciò che riceviamo da Dio nella grazia sacramentale attraverso l’impegno di amore verso il prossimo, nelle varie situazioni e condizioni. Non possiamo fermarci sul monte, ma con la grazia ricevuta dobbiamo tornare a valle, incontrando il limite umano per rigenerarlo con la testimonianza di fede.

      La vita dei battezzati è vita trasfigurata!

I Domenica di Quaresima – Anno B

“Fare deserto … nella fedeltà all’alleanza con Dio”


 

(Gen 9,8-15; Salmo 24; 1Pt 3,18-22; Mc 1,12-15)

 

       «Subito lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni» (Mc 1, 12).

       Iniziamo il tempo di Quaresima, un tempo di deserto, come sottolineato dall’evangelista Marco. Per Marco il deserto è soprattutto il luogo dell’incontro con Dio (cfr Mc 1, 35; 6, 13).

       L’evangelista fa iniziare la missione di Cristo nel deserto e, a differenza di Matteo, non presenta le tentazioni nei dettagli, ma unisce la tentazione di satana allo stare con gli animali selvatici e gli angeli, proprio ad indicare un tempo di dialogo con Dio per prepararsi alla sua missione.

       La Quaresima è, dunque, il tempo favorevole per rientrare in sé stessi e affrontare le situazioni della propria vita ponendosi in ascolto di Dio. È il tempo del silenzio, della preghiera, della verifica, della prova. Caratterizzato anche dal digiuno, non solo quello fisico, utile a forgiare la volontà, ma anche da tutto ciò che distrae dall’ascolto di Dio.

       La Quaresima è il tempo favorevole per il resoconto sul proprio cammino di fede, verificando il rapporto con Dio, l’impegno di testimonianza, la fedeltà al battesimo ricevuto.

       In questo periodo di prova a causa della pandemia, questo tempo deve essere occasione favorevole da non perdere per porsi in ascolto di Dio e decidere la personale risposta alla sua “alleanza”.

       «Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra» (Gn 9, 13).

       Dio ha fatto un’alleanza definitiva, eterna, nel suo Figlio, morto e risorto. In Cristo ci ha definitivamente perdonati e posti nella possibilità di vivere nella piena comunione con Lui (1Pt 3, 18).

       A questo patto di alleanza ognuno risponde nella sua condizione e particolarità di vita, con le scelte quotidiane e l’impegno di carità, che deve contraddistinguere ogni momento della vita.

       Consci, che sebbene abbiamo assunto con piena volontà l’impegno di camminare secondo Dio, non sempre siamo capaci di restargli fedeli e vivere atteggiamenti e scelte secondo la sua volontà a causa della nostra fragilità e limite.

       Nella costatazione del proprio limite e peccato non dobbiamo arrenderci e rinunciare a vivere l’impegno della fede. Sappiamo che Dio è pronto a rialzarci dalla nostra condizione di errore, perdonarci e rivestirci della sua grazia.

       Facciamo di questo tempo l’occasione favorevole per far silenzio ed ascoltare la voce di Dio, che non ha mai smesso di parlare, di indicarci la via; non ha mai ritirato la sua alleanza e la sua grazia.

       Non è Dio che ha smesso di donarci il suo amore, ma siamo noi ad aver deviato l’ascolto e posto mente, cuore e volontà nelle cose del mondo.

       Assistiamo spesso a tanti errori dell’umanità, a livello personale, politico, comunitario, lavorativo ecc. In tutti gli ambiti della vita costantemente riscontriamo scelte non orientate al bene comune ma all’interesse personale o di pochi.

       Di fronte a tanto male alziamo il grido e la domanda: “Dove sei Dio?” Pensando che si sia voltato altrove, abbia ritirato la sua “Alleanza” da noi, mentre siamo noi ad aver chiuso il cuore a Lui e rivolto l’ascolto a ciò che genera errore e sofferenza.

       La quaresima è il tempo per verificare e tornare nel deserto ad ascoltare Dio, a decidere per Lui lottando contro il male, le varie tentazioni con l’ascolto della sua Parola, l’apertura del cuore al suo Amore e la volontà educata ed orientata al bene.

       In questo tempo quaresimale, segnato dalla prova della pandemia, in una società sempre più caratterizzata dall’ateismo e dall’agnosticismo, soprattutto nei giovani, occorre sentire l’urgenza di verificare la propria fede, il proprio cammino di credenti e la testimonianza che si vive.

       Ogni singolo battezzato è chiamato a vivere la quaresima come tempo di verifica, revisione e decisione per essere sempre più presenza del Risorto, figli della Pasqua, testimoni dell’alleanza di Dio Padre in Cristo Gesù.

       Sentiamo vivo l’impegno di portare nelle pieghe della società l’amore di Dio, essendo chiamati, per il Battesimo ricevuto, ad essere presenza e testimonianza della sua Alleanza mediante una condotta di vita carica d’Amore.

 

“Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri.

Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,

perché sei tu il Dio della mia salvezza.” (Sal 24)

 

“Signore Gesù,

sei stato condotto dallo Spirito nel deserto,

ove hai vinto la tentazione di satana.

 

Donaci il tuo Spirito,

di Sapienza, di Forza, di Consiglio,

perché impariamo a vincere le nostre debolezze,

a camminare nella fedeltà al tuo Amore,

a saper discernere sempre il bene,

dando testimonianza di Te

con la degna condotta di vita.

 

Sostienici con la tua grazia

perché sappiamo sempre cercare

la volontà di Dio e restargli fedele.

 

Fa di tutti i battezzati

autentici testimoni del tuo Amore,

della tua presenza,

della tua misericordia.

 

Aiutaci a vivere questo tempo di quaresima

con impegno e determinazione

per saper leggere nel profondo del nostro cuore,

riconoscere le fragilità,

e impegnarci nel cammino di fede

con rinnovato slancio e gioia,

fedeli alla tua Alleanza.

Amen!”

VI Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

“ADIRARSI PER IL MALE, TENDERE LA MANO PER ACCOGLIERE LA PERSONA”


 

(Lv 13,1-2.45-46; Sal 31; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45)

 

        «Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1Cor 10, 31).

         L’espressione di Paolo esprime la finalità dell’agire cristiano: la gloria a Dio e il bene del prossimo.

       Dare gloria a Dio non consiste, quindi, in una pratica rituale o nell’offerta di sacrifici, ma nell’agire conforme alla fede, imitando Cristo. Dare gloria di Dio significa vivere nella sua volontà, nel suo amore e nell’obbedienza alla sua Parola.

       La conseguenza di ciò è il cercare il bene del prossimo, evitando innanzitutto lo scandalo, cioè rispettando la coscienza dell’altro e operando per il suo bene.

         Nel capitolo 10 della Prima ai Corinti, Paolo esorta proprio al rispetto della coscienza del prossimo a cui il cristiano, per la fede in Cristo e nella sua libertà di coscienza, deve fare attenzione.

       Dare gloria a Dio significa, quindi, vivere il rispetto e l’attenzione al prossimo, operando cercando sempre il suo bene: sforzandosi di piacere a tutti in tutto, senza cercare il personale interesse ma quello di molti (cfr v. 33). Tutto questo porta ad evitare lo scandalo, cioè ciò che pone inciampo nel cammino di fede, che fa allontanare da Dio, che non permette di incontrarlo attraverso la nostra testimonianza, che non accoglie e inserisce nella comunione vera di fede nella Chiesa.

        Per operare dando gloria a Dio e per il bene del prossimo occorre accogliere senza giudicare, conoscere per indirizzare, istruire con amore per accompagnare nella fede.

       Il brano evangelico di Marco ci aiuta ad approfondire questo concetto presentandoci Gesù che “tocca” colui che è affetto dal male, dalla lebbra.  

       «Secondo la concezione ebraica, la lebbra era una “primogenita della morte” (Gb 18, 13). Chi veniva segnato da questa malattia doveva tenersi separato dagli altri e non poteva avvicinarsi a nessuno»[1].

        Gesù non giudica il lebbroso, ma tende la mano e lo libera dalla sua piaga, dal male, dalla malattia.

       Gesù lo accoglie, lo guarisce e lo invia al sacerdote e gli impone il silenzio. Non vuole essere conosciuto come un taumaturgo, ma le sue opere non possono essere taciute, perché la sua azione non si limita a guarire ma ridona dignità, libera e inserisce di nuovo nella comunità.

       Nella traduzione della CEI leggiamo che Gesù ha compassione di lui: σπλαγχνισθεὶς «Ne ebbe compassione», da σπλαγχνίζομαι (splagchnizomai) essere commosso nelle viscere, essere commosso con compassione, avere compassione. In un codice del NT il verbo usato è ὀργισθεὶς – adiratosi, da ὀργίζομαι (adirarsi). Questo verbo non sta ad indicare l’ira di Gesù di fronte al lebbroso che lo implora e gli chiede la guarigione, ma l’ira di fronte al male, allo stato di sofferenza e d’isolamento in cui giaceva il lebbroso.

       Dovrebbe essere la stessa nostra reazione di fronte alle tante situazioni di emarginazione, di giudizio, di sfruttamento, di ingiustizia nelle quali vivono tante persone.

    Dovrebbe essere la nostra stessa reazione di fronte al giudizio che spesso viviamo come cristiani verso il prossimo giudicandolo, allontanandolo dalla comunità.

       Gesù ci insegna ad accogliere l’altro nella sua condizione, perché la persona è sempre più del suo limite, del suo peccato, della condizione in cui vive, fosse anche la più aberrante e pericolosa.

       Di fronte al prossimo bisogna sempre porsi con rispetto e accoglienza, pronti a “stendere la mano” per rialzarlo dalla sua condizione, per accoglierlo, per ascoltarlo, per amarlo.

       L’evangelista Marco ci invita a soffermarci anche sull’effetto della grazia in colui che l’accoglie. Il lebbroso guarito diventa annunciatore al punto che tutti coloro che lo ascoltano si pongono alla ricerca di Gesù. Il lebbroso non è biasimato, diventa annunciatore, pienamente reinserito nella comunità.

      Spesso nei cristiani assistiamo invece al contrario di fronte a chi si ravvede e si riaccosta alla fede. Riscontriamo giudizi e chiusure, condanne e allontanamenti proprio nelle comunità, in coloro che maggiormente frequentano e sono impegnati nelle parrocchie.

      Il cristiano è figlio della resurrezione e quindi non può permettere che nessuno viva ai margini, lontano dalla grazia di Dio, escluso dall’amore. Il cristiano che vive dell’Eucaristia, del dono della libertà dei figli di Dio per la passione, morte e resurrezione di Cristo, non può chiudere mai il proprio cuore, escludere qualcuno e considerarlo indegno dell’amore di Dio.

        Cristo si adira di fronte alla condizione di emarginazione e male e noi suoi seguaci non possiamo cadere nella condizione di porre l’altro ai margini. Siamo chiamati a “tendere la mano”, a “toccare” la sofferenza dell’altro e ad offrire la nostra testimonianza di fede, accogliendo, ascoltando, operando perché il prossimo sia rialzato dalla sua condizione e rispettato nella sua dignità di persona.

        «(Adiratosi) Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”» (Mc 1, 41).

“Signore Gesù,

come il lebbroso, ti chiedo di guarirmi,

di mondarmi nel profondo della mia coscienza,

affinché allontani da me

ogni forma di giudizio e di discriminazione

a cui spesso cedo dimenticando

di essere tuo discepolo.

 

Fa che sappia essere testimone credibile,

capace di accogliere senza giudicare,

consigliare senza imporre la mia opinione,

sostenere senza legare a me,

aiutare senza pretendere riconoscenza.

 

Insegnami a rispettare sempre la dignità della persona,

guardando nel prossimo la tua presenza,

riconoscendolo come fratello,

figlio di Dio Padre.

Amen!”

 

[1] R. Schnackenburg, Vangelo secondo Marco, Città Nuova, Roma 2002, p.49.

V Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

“SERVIZIO E NON POTERE”


 

(Gb 7,1-4.6-7; Sal 146; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39)

 

          «Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9, 16).

          Oggi si ritiene e si vuole che la fede sia una questione privata che vada vissuta nella propria intimità e riservatezza.

         San Paolo, invece, ci ricorda che credere in Dio, in Cristo, comporta l’obbligo morale di annunciare il Vangelo, di testimoniarlo con la vita e fare la propria professione di fede pubblica!

         La nostra società, che vuole relegare alla sfera privata la vita di fede, ha di fatto bisogno di credenti responsabili e maturi che portino il seme della Parola e siano “sale e luce”, “lievito” perché le coscienze siano risvegliate dal “torpore” nel quale vivono, massificate a causa della cultura laicista e materialista imperante.

         Occorre che i cristiani si destino e sentano l’urgenza e la necessità di dare testimonianza autentica di fede, annunciando il Vangelo, con una condotta di vita conseguente.

       L’annuncio del Vangelo, inderogabile ed urgente, va svolto nella logica del servizio e non del prestigio e del vanto: «[…] annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero» (1Cor 9, 18-19). Se per San Paolo è valida la logica del servizio e della gratuità nell’annuncio del Vangelo, tanto più deve valere per noi!

        E che il servizio sia una condizione imprescindibile lo evidenzia anche l’evangelista Marco. Il miracolo della guarigione della suocera di Pietro, posta all’inizio della attività pubblica di Gesù, dopo l’annuncio del Regno e la chiamata dei discepoli, sembra un miracolo insignificante, che può passare inosservato, come se fosse stato raccontato per abbellire lo stile del racconto.

         Marco pone questo miracolo come chiave interpretativa di quelli che seguono. Gesù, all’inizio del vangelo, ha invitato alla conversione, a credere nel Vangelo, a seguirlo; la sua Parola, autorevole e liberante, guarisce da ogni infermità e spezza le catene del male. La guarigione della suocera di Pietro è il primo risultato della vittoria sullo spirito del male: guarita dalla febbre, che la costringeva a letto, si alza e si mette a servire.

          Marco ci presenta, quindi, la modalità della sequela e dell’accoglienza della Parola: il servizio!

          Il servizio è la vera sequela di tutti! Seguire il Cristo significa vivere come Lui ha vissuto e operare secondo il suo insegnamento.

         Il modello del servizio, quindi, è Cristo stesso: «il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 45).

       Il servizio, secondo il Vangelo, parte dall’umiltà del cuore, dalla consapevolezza di non essere nulla senza Cristo, come San Paolo ci insegna (cfr. Gal 2, 20). Per arrivare a questo traguardo, dell’umiltà vera del cuore, occorre un cammino costante di conversione interiore e di continuo confronto con la Parola di Dio.

        La logica del servizio si oppone a quella del potere. La Chiesa stessa è chiamata alla continua conversione per essere libera dalle strutture e forme di potere.

         I pastori non sono costituiti come autorità sul popolo di Dio, ma come servitori e ministri, per l’edificazione di tutta la comunità (cfr. 1Pt 5, 1-4).

       Anche i fedeli laici sono chiamati ad un servizio alla comunità e al mondo senza alcun prestigio o posto di onore, senza vanto e senza potere.

         La Chiesa, nella sua diversità di ministeri e carismi, è chiamata ad essere sale e lievito, che si sciolgono per dare sapore e fermentare. Il suo compito è essere presenza nel mondo, ma non avere potere; essere luce e guida, ma non determinare le sorti della vita sociale; essere sale e lievito perché il mondo conosca, comprenda e cresca nella Verità del Vangelo.

          Il servizio è possibile solo se non si perde il riferimento con Colui che chiama a seguirlo e a testimoniarlo.

         Gesù steso ci indica come conservarci nel servizio e nella volontà del Padre: «Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava» (Mc 1, 35).

       Gesù, dopo aver annunciato, liberato, guarito, si ritira a pregare il Padre. La sua preghiera deve essere stata un dialogo profondo e angosciato con il Padre. L’uomo Gesù ha vissuto l’obbedienza e il servizio alla volontà del Padre attraverso il dialogo profondo e filiale della preghiera.

       I credenti senza la preghiera, che forgia i cuori e li prepara al servizio vero ed umile dell’annuncio, non possono vivere una sequela autentica e fedele, libera e coerente.

        In forza della preghiera Gesù risponde alla volontà del Padre e alla domanda di Pietro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1, 38).

       In forza della preghiera possiamo lottare contro il male, crescere e conservarci nell’umiltà, annunciare con spirito di servizio il Vangelo senza paura e con autorità, senza vanto o prestigio, ma con carità e umiltà.

       Meditando questa Parola, preghiamo per la Chiesa, perché nei suoi singoli membri, nella varietà di ministeri e carismi, sia sempre al servizio del Vangelo, libera da ogni forma di potere; possa essere per ogni uomo presenza vera dell’Amore di Dio, perché ognuno possa trovare accoglienza, sperimentare la libertà dei figli di Dio e vivere nell’amore di Dio con spirito di servizio e umiltà di cuore.


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