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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“Fede è vita”


 

(Dt 6,2-6 - Sal 17 - Eb 7,23-28 - Mc 12,28-34)

 

       Cosa significa essere credente?

       È una domanda che spesso viene rivolta a chi crede, a chi insegna religione nelle scuole. Non sempre è scontata la risposta, anche perché si associa il credente a colui che vive una pratica religiosa, che prega e vive le regole espresse dalla fede.

       Nella società multietnica in cui viviamo capita non di rado riscontrare la convinzione che il credente più autentico è chi osserva le regole imposte dalla religione e di conseguenza il cristiano è il credente che meno rientra in questa categoria, per la convinzione comune che la religione cristiana lascia liberi di vivere o meno le pratiche religiose.

       Da queste considerazioni scaturisce naturale la domanda: «Da cosa si riconosce il credente?». In modo ancor più profondo: «Che differenza c’è tra Fede e religiosità?».

         Sono domande che necessarie per comprendere qual è il rapporto che si vive con Dio: se basato sull’osservanza di una ritualità oppure se espressione di una relazione di fiducia e di amore.

       Credere in Dio non sempre implica vivere una relazione di fiducia e di amore con Lui. Si crede nella sua esistenza; ci si rivolge a Lui per chiedergli aiuto, grazie, miracoli; si offrono offerte e preghiere; eppure, tutto questo non indica che Dio è a fondamento della propria esistenza e dà senso al vivere.

       Lo scriba interroga Gesù sulla osservanza della Legge divina e, di conseguenza, su come essere graditi a Dio nella vita quotidiana. Non mette alla prova Gesù, ma intesse un dialogo sulla dottrina da seguire. Chiede, in sostanza, come essere credenti!

       La domanda dello scriba esprime l’essenza del giudaismo: essere una religione della legge!

       Alla domanda dello scriba: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?», Gesù risponde indicando l’essenza dei Comandamenti: amare Dio con tutto sé stessi e il prossimo come sé stessi.

       Gesù non elude la domanda dello scriba, ma indica ciò che permette di superare il legalismo sterile e vivere il corretto rapporto vitale con Dio: designa come “primo” comandamento l’amore per Dio e lo collega subito al “secondo” che è quello per il prossimo, proprio ad indicare che non può esserci fede in Dio senza una relazione con il prossimo carica dell’amore ricevuto e donato a Dio.

       La fede in Dio è una relazione di amore che si declina nell’amore del prossimo e di sé stessi. Il precetto dell’amore è al centro dell’etica cristiana ed esprime la via della salvezza.

       «[…] amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza» (Mc 12, 30).

       La relazione con Dio deve pervadere tutto l’essere perché sia una relazione di fede, di abbandono alla sua volontà. Dio deve essere amato con tutte le facoltà della propria vita perché la fede sia guida nelle vicende dell’esistenza quotidiana.

       Amare Dio con tutto il cuore significa che Egli è la ragione e la fonte dell’amare, che dall’eros si eleva all’agape, cioè da un amore passionale e possessivo si apre alla logica della gratuità, al perdono, all’offerta di sé senza condizioni e interessi.

       Amare Dio con tutta la propria anima significa che la propria mente, la propria coscienza, il discernimento sono guidati dalla Legge di Dio, illuminati dalla sua Parola.

       Amare Dio con tutta la forza significa che la propria volontà è totalmente orientata al Bene secondo Dio, nella carità e nella verità; che in ogni cosa e per ogni cosa nulla è anteposto a Dio e alla sua volontà; che l’interesse personale è vivere nella volontà di Dio.

       Da questo amore per Dio, che pervade, orienta, guida, sorregge e corregge, scaturisce l’amore per sé stessi e per il prossimo.

       L’amore per sé stessi non cadrà, di conseguenza, nell’egoismo e nell’egocentrismo, ma sarà amarsi in Dio riconoscendosi figli di Dio nel Figlio, amati e rigenerati da Dio.

       Amarsi in Dio significa imparare a superare il proprio limite, le proprie fragilità per la forza dell’amore misericordioso, riconoscendosi perdonati e guariti interiormente.

       Amare il prossimo con la forza di questo amore per sé rigenerato da Dio apre all’accoglienza e accettazione dell’altro, pronti al perdono perché perdonati a nostra volta da Dio.

       Vivere in questa logica di amore verso Dio, sé stessi e il prossimo significa superare ogni devozionismo sterile e vivere nella fede autentica.

       La religiosità, che è legata a una credenza sterile, a pratiche devozionali, che difficilmente si traducono in vita concreta, a preghiere che non coinvolgono e non si traducono nella esperienza quotidiana come azioni di carità e di verità, diventa fede solo se e quando l’amore di Dio diventa la ragione e la misura del proprio essere.

       Gesù, nel suo insegnamento condanna una relazione con Dio fondata sulle cerimonie cultuali, biasima la lode innalzata solo con le labbra (Mt 7, 21- ss) e un culto mescolato con la speculazione e l’interesse (Mc 11, 15-19).

       Lo scriba, riflettendo sulla risposta di Gesù, ne riconosce la verità e trae la conclusione che l’amore a Dio e al prossimo vale più di ogni sacrificio, rito e preghiera elevati con una religiosità sterile ed esteriore.

       «[…] amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come sé stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici» (Mc 12, 33).

       Gesù afferma che lo scriba non è lontano dal Regno di Dio (v. 38): cosa gli manca? Riconoscere che Gesù è il Messia e che in Gesù il Padre ha donato la salvezza a chiunque crede in Lui e vive nella sua Parola.

       Essere credente, avere fede significa vivere di Dio e per Dio. La fede genera una vita nuova, una ragione e una volontà tutte orientate a Dio e al prossimo nella costante ricerca del Bene, di ciò che è Amore e genera vita.

       Fede è Vita! Fede è vivere nell’amore per Dio e per il prossimo! Fede è vivere il culto a Dio non esteriore ma di una esistenza tutta spesa nell’amore per costruire il suo Regno di Amore, di Verità e di giustizia.

Appartenere al Regno! Non è semplicemente praticare, frequentare i momenti liturgici, pregare, vivere il culto verso Dio, ma è tradurre in vita concreta la fede che si professa: in questo consiste la differenza tra religiosità e fede!

       Come credenti, seguaci di Cristo, siamo chiamati a testimoniare l’amore per Dio e il prossimo, come distintivo e costitutivo dell’essere cristiani.

       Oggi c’è bisogno di cristiani che sappiano testimoniare l’appartenenza a Dio in una vita di fede carica di amore e non con una religiosità sterile, fatta di ritualità, parole e offerte slegate dalla vita.

       Oggi manca alla società credenti che testimoniano una Fede che è Vita, una Fede che si esprime in un essere radicati e fondati nell’Amore di Dio e del prossimo.

      

XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“Dalla cecità alla Luce”


 

(Ger 31,7-9 - Sal 125 - Eb 5,1-6 - Mc 10,46-52)

 

       Pregando quante volte non si sa cosa chiedere e come chiedere. Tante volte desideriamo che il Signore ci faccia ciò che chiediamo, ma non siamo certi di saperlo chiedere.

       Altre volte evitiamo di chiedere perché non siamo certi che Dio porga a noi il suo sguardo e ci conceda ciò che speriamo.

       La preghiera così si riduce ad una recita di formule, di preghiere della tradizione, accompagnate da qualche anelito del cuore, da un afflato dello spirito, esprimendo timidamente un pensiero per una necessità personale o del prossimo.

       Il dialogo con Dio non diventa coinvolgimento pieno del nostro essere, della nostra mente, del nostro cuore e della nostra volontà.

       Viene ridotta a un presentarci a Dio come ad un “potente” a cui chiedere un intervento, una grazia, una risposta ad un bisogno.

       La preghiera, il dialogo con Dio, non coinvolge e rinnova interiormente, non genera conversione, rinnovamento, rigenerazione profonda del proprio esistere.

       Il grido espresso dal cieco Bartimeo non è semplicemente una invocazione di guarigione, bensì una vera rinascita: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! […] Rabbunì, che io veda di nuovo!» (Mc 10, 47-48.51).

       Fa appello alla misericordia di Dio e chiede di tornare a vedere: è la preghiera fondamentale del cristiano invocare la misericordia di Dio e aprirsi alla conversione!

       Il cieco è simbolo dell’umanità incapace di comprendere il vero e profondo senso del vivere. La condizione della nostra società, che poco sente il bisogno di Dio, è data dalla cecità della coscienza, tutta ricurva sulla soggettività e sulla ricerca dell’affermazione personale.

        La cecità del cuore, della coscienza, incapace di comprendere e discernere, di comprendere il Bene e seguirlo e riconoscere il Male, evitarlo e denunciarlo apertamente.

       Da questa condizione di cecità è possibile uscire solo affidandosi alla misericordia di Dio, riconoscendosi bisognosi di perdono e di guarigione interiore.

        Il cieco grida insistentemente a Gesù chiedendo di liberarlo dalla condizione di buio, di ascoltare il suo grido di liberazione e di guarigione.

      Il cieco Bartimeo, seduto lungo la strada, è immagine dell’umanità incapace di comprendere la via da percorrere verso la vera gioia e felicità.

       Egli rappresenta tutta l’umanità che cerca la luce della Verità, ma resta ferma ai margini della vita risucchiata da bisogni effimeri e illusori, che la rendono sempre più cieca ed incapace di vedere e comprendere il senso della vita e l’amore di Dio.

       La preghiera del cieco viene accolta da Gesù ed esaudita perché parte dalla consapevolezza che è nella volontà di Dio che si raggiunge la piena visione della vita e il pieno senso dell’essere e del fare.

       La domanda del cieco a Gesù è l’opposto della pretesa dei figli di Zebedeo: il cieco chiede la rinascita, il vedere di nuovo, un cuore capace di amare nella misericordia di Dio; Giacomo e Giovanni chiedono la gloria, il prestigio.

       Ancora una volta Gesù rimanda alla fede, al vivere nella volontà di Dio per ottenere la pienezza del proprio essere, raggiungere la maturità del vivere.

       A Giacomo e Giovanni ricorda che è importate camminare nella fede e nella volontà di Dio per partecipare alla sua Gloria; al cieco di Gerico concede per la sua fede la vita nuova, la guarigione interiore e la vista per porsi alla sua sequela.

       La preghiera è porre la propria volontà nella volontà di Dio; è compiere ogni giorno il cammino di conversione ponendosi in ascolto di Dio e presentando a Lui le proprie fatiche, resistenze, mancanze.

       La preghiera è aprirsi alla misericordia di Dio in umiltà e con la coscienza retta di chi sente il bisogno di comprendere, vedere e valutare con gli occhi di Dio.

       In questa prospettiva ogni modalità di preghiera che presentiamo a Dio sarà accolta perché espressa nella apertura alla sua volontà, per crescere nella fede e nella sequela.

       La preghiera è un cammino costante e diuturno nella volontà di Dio per passare dalla cecità alla luce.

       Tanta è la cecità che affligge l’umanità di sempre!

      La prima originaria forma di cecità è la presunzione di potere, di essere autori di sé stessi e di ciò che ci circonda: questo porta all’individualismo, al soggettivismo morale e all’egocentrismo che chiude alla reciprocità e alla carità.

       La seconda forma di cecità, che caratterizza la vita umana, è la presunzione di verità: in un ego assolutizzato non c’è altra verità che quella personale; non c’è posto per l’altro se non in una condizione di inferiorità; il dialogo è sempre più difficile e la convivenza è minata e facilmente distrutta da intransigenze e arroganze di pensiero e posizione.

      Una terza forma di cecità, che riguarda soprattutto la vita di fede, le dinamiche all’interno delle comunità ecclesiali a vari livelli, è la presunzione di giustizia e perfezione: per il fatto di vivere una religiosità osservante e praticante, spesso non riusciamo a riconoscere ciò che ostacola la misericordia e la possibilità di redenzione offerta da Dio all’umanità, diventando così di impedimento alla salvezza del prossimo, e tutto questo perché in nome della presunzione di giustizia nella fede cadiamo nel giudizio e nella discriminazione.

      A tutti i livelli della vita, soprattutto nel cammino di fede, se si vuole essere capaci di “vedere”, passando dalla cecità alla Luce, riconoscendo così ciò che ha valore e edifica l’umanità intera, occorre seguire l’esempio del cieco di Gerico: gettare il mantello che rappresenta il potere economico, culturale, ideologico, politico, la sopraffazione, l’ansia, la pretesa e mire umane, lo spirito di possesso ecc.; alzarsi in piedi, cioè risorgere alla vera vita, indicata da Gesù e che passa per il sacrificio della croce, cioè l’obbedienza alla volontà di Dio; seguire Cristo in umiltà di cuore e in un servizio al prossimo di donazione di sé nella verità e nella carità.

        Nella preghiera quotidiana facciamo nostra l’invocazione del cieco Bartimeo: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! […] Rabbunì, che io veda di nuovo!» per passare dalla cecità dell’egoismo alla Luce dell’amore di Dio, vivere nella volontà di Dio e amare Dio e il prossimo avendo nel cuore la misericordia che Dio ha usata per ciascuna persona.

XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“Sequela e non notorietà”


 

(Is 53,10-11 - Sal 32 - Eb 4,14-16 - Mc 10,35-45)

 

       Ogni persona cerca la realizzazione di sé. Spesso questo accade, ma molte volte, nonostante i tanti sforzi e ricerche, non si riesce a raggiungerla pienamente.

       Nella nostra società, sempre più social e dipendente dalla tecnologia e dal mondo virtuale, stanno aumentando i casi di depressione e ansia soprattutto tra i giovani[1].

       Oggi sempre più si cerca la notorietà, la fama, il successo, la visibilità. Senza un minimo di visibilità e notorietà, di follower e amici virtuali che seguono, non si riesce a trovare senso e valore a ciò che si è e si fa.

       Tutto questo di fatto non appaga e ci si ritrova a fare i conti con una realtà che non sempre è corretta e gentile, ma che chiede il conto e pone alla prova costantemente.

       La notorietà non è realizzazione di sé!

       Il bisogno di notorietà è una caratteristica naturale e fondamentale dell’essere umano. Non sono stati esenti neanche gli apostoli:

       «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo. […] Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10, 35.37).

       Non c’è da scandalizzarsi o da meravigliarsi che i discepoli, in particolare i figli di Zebedeo, facciano una tale richiesta. Essa rispecchia l’attesa orientata verso attuazioni terrene, che di fatto è condivisa dalla maggioranza dei discepoli.

       Nulla di strano, dunque, perché è umano cercare la realizzazione di sé, anche in ambito di un cammino di fede. Il problema è superare questo limite umano e aprirsi alla comprensione della realizzazione di sé in Dio.

       La sequela di Cristo esige orientare la ricerca della propria realizzazione in Dio, vivendo la propria esperienza terrena sempre orientati alla vita definitiva in Dio.

       La vita di fede non è attuazione terrena del regno messianico; la partecipazione alla “gloria” non si realizza nelle dinamiche umane di notorietà e prestigio.

       La partecipazione alla “gloria di Cristo” è sequela piena di Lui, in un costante cammino di “kenosi”, di spogliamento di ciò che ostacola l’azione dello Spirito.

       La Santità, a cui ogni credente è chiamato a tendere e a realizzare nella propria vita, non è questione di potere, di privilegio, bensì è “diminuire perché Cristo cresca” («Egli deve crescere e io invece diminuire» Gv 3,30).

      

       Gesù risponde all’ambizione, alla ricerca di notorietà, con la esclusione del potere dalle proprie aspirazioni e rimettersi completamente a Dio.

       L’istinto di dominare è profondamente radicato nel cuore dell’umanità e la corrompe quanto la ricchezza.

       L’insegnamento di Cristo rivoluziona l’intimo del cuore di ogni fedele imponendo una legge fondamentale che non solo vieta la bramosia di dominio, ma imprima nel vivere quotidiano una diversa prospettiva di vita: “essere nel mondo senza appartenere al mondo”, “vivere nel mondo, sottoposti alla sovranità di Dio”.

      

       L’invito di Gesù a farsi “servi e schiavi” (Mc 10, 43-44) è l’invito alla sequela, a seguire il suo esempio, a fare “come Lui”.

       L’invito di Gesù va realizzato concretamente nella condotta di vita di ciascuno da diventare la norma valida sia per il singolo che per la comunità intera dei credenti.

       Nessuno si può esimere da questo invito ad essere “servitore e schiavo” perché è l’essenza vera della sequela di Cristo, la norma fondamentale per vivere il Vangelo.

       Essere “servi” imitando Cristo significa vivere il presente sempre rivolti alla vita eterna. Charles de Foucauld aveva questa regola di vita, riportata nel suo taccuino scritto a Beni-Abbès nel 1901-1095: «Vivere come se io dovessi morire oggi martire». Vivere rivolti alla vita eterna significa vivere da “martiri”, cioè da testimoni autentici”, sempre pronti a dare “ragione della speranza che è in noi” (cfr. 1Pt 3, 15), fino alla effusione del sangue.

       Essere testimoni di Cristo nel mondo, nella quotidianità, nelle relazioni sociali: questa è l’essenza del Vangelo!

       Essere “servi” imitando Cristo significa avere una coscienza sempre orientata al bene, retta nel discernere e ben formata per vivere in fedeltà a Cristo. Vivere la fede significa saper anteporre il bene del prossimo, anche se comporta rinunciare al proprio. Il “come ho fatto io”, lasciato in eredità ai discepoli nell’ultima cena, è l’espressione massima dell’amore, fino alle estreme conseguenze. A questo amore il cristiano si deve “impegnare” formando la propria coscienza con l’ascolto della Parola, la preghiera, la catechesi continua, la direzione spirituale, il confronto con chi ha più esperienza e conoscenza nel cammino di fede.

       Essere “servi” imitando Cristo significa vivere nella logica del “riscatto che Cristo ha vissuto per l’umanità”. Cristo ha offerto sé stessi in “riscatto per molti” e la Chiesa ed ogni credente devono saper vivere questa unione con Cristo in un servizio al prossimo di “Verità nella Carità”. L’Eucaristia celebrata e vissuta non è altro che attuazione di questa logica del “riscatto: uniti a Cristo per offrirsi al mondo in un servizio di annuncio e di carità; imitare Cristo nella vera umiltà del cuore; essere attenti al prossimo senza giudicare, condannare, ma sostenendo, insegnando, indicando la via della verità e carità, perdonando come Cristo perdona a ciascuno; avendo cuore e mani pure, libere da contese e invidie, disposti a tendere la mano al prossimo.

       Tutto questo esige un attento discernimento su sé stessi, una scelta coerente di imitazione di Cristo e un costante impegno di umiltà.

       Vivere la sequela di Cristo significa vivere nella logica dell’ultimo posto, senza cercare la notorietà, il prestigio e il potere, ma vivendo “al servizio” del prossimo nella carità e nella costante ricerca della volontà di Dio.

 

[1] Tanti studi in merito sono stati condotti. Una ricerca pubblicata sul Journal of Abnormal Psychology rileva che i sintomi depressivi sono aumentati del 52% tra i giovanissimi e del 63% tra i giovani adulti tra i 18 e i 25 anni. Per un ulteriore approfondimento si veda l’articolo riportato sul Il Messaggero Salute: https://www.ilmessaggero.it/salute/medicina/ansia_e_depressione_in_crescita_tra_i_giovanissimi-4363882.html

XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - ANNO B - 2021

“Dall’Io a Dio”


 

(Sap 7,7-11 - Sal 89 - Eb 4,12-13 - Mc 10,17-30)

 

         «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» (Mc 10, 17).

       La domanda è rivolta a Gesù da un “tale”, dice l’evangelista Marco, ad indicare che esso rappresenta ogni credente. La domanda che rivolge esprime, di fatto, la costante tensione e preoccupazione di chi ha scelto e deciso di seguire Dio, credere in Lui e compiere la sua volontà.

       Il fine della vita di fede è la vita eterna in Dio! Il credente sa che per raggiungere la méta della propria fede occorre camminare nella volontà di Dio, compiere le opere a Lui gradite.

         La risposta di Gesù sembra scontata, da catechismo: seguire i comandamenti!

         La fede, però, non è osservanza sterile della Legge, ma adesione del cuore a Dio, libera e totale!

        Marco riporta un dettaglio importante: Gesù, prima di indicare cosa manca di essenziale a quel tale, “fissò lo sguardo su di lui, lo amò, e gli disse” (v. 21).

        “Fissò lo sguardo su di lui”: la relazione che Gesù, Dio, vive con ogni soggetto è personale, è rivolta al suo cuore e chiede una risposta personale.

       “lo amò”: la Verità di Dio non condanna, ma ama! La Legge di Dio è Legge di amore, che non umilia, ma esalta; non distrugge, ma costruisce; non limita, ma libera! Gesù lo ama e in virtù di questo amore profondo, autentico e personale, annuncia la verità e il cammino di conversione da compiere! Non ci può essere conversione se non si incontra l’amore di Dio. Non ci può essere sequela se non ci si sente amati.

         La sequela di Gesù comporta, dunque, l’apertura del cuore a ricevere l’amore di Dio e la Verità per la nostra esistenza.

        Camminare nella fede richiede disponibilità umile del cuore, libertà da ogni schiavitù idolatrica e apertura alla realtà del prossimo con il quale costruire il Regno di Dio.

       Non si è buoni cristiani solo osservando precetti, elevando giaculatorie, vivendo devozioni e riti. Sebbene si possa vivere in totale osservanza ed attuazione della Legge di Dio, non è sufficiente per camminare secondo la volontà di Dio.

         Dio esige il primato del cuore del credente!

         Il cuore del credente deve essere “tutto” orientato a Dio: vuol dire che il pensiero, i sentimenti, la volontà e, di conseguenza, le scelte e le azioni devono esprimere l’appartenenza a Dio: da Dio devono partire e a Dio devono tornare!

        Significa che tutto diventa relativo a Dio!

        Di conseguenza, la persona non viene annullata, ma modifica il baricentro della propria esistenza: dall’Io a Dio!

       Solo nella totale disponibilità del cuore e nell’accoglienza dell’amore di Dio si può raggiungere questa rivoluzione totale della propria esistenza.

        Se può spaventare ciò e risultare difficile o impossibile, ricordiamo la risposta di Gesù allo sgomento dei discepoli: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio» (v. 27).

        Il cambio di baricentro dall’Io a Dio avviene aprendosi alla Grazia di Dio, all’azione dello Spirito Santo e lasciando che la Parola penetri nel profondo illuminando e formando la coscienza.

       La Lettera agli Ebrei presenta in modo chiaro l’effetto della Parola di Dio in chi l’ascolta e l’accoglie in libertà e disponibilità piena: «La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4, 12).

       La Parola di Dio non lascia mai indifferenti, se viene ascoltata ed accolta. Essa è viva ed efficace, pertanto, quando accolta, “genera vita nuova”, “rinnovamento interiore” e “discernimento nuovo”.

       «Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto» (Eb 4, 13).

       Essendo Parola di Verità, quando accolta, smaschera ogni menzogna. Le giustificazioni che ognuno adduce, per le azioni erronee, per le parole e i gesti che producono male e sofferenza, di fronte alla Parola di Dio cadono tutte.

       Il sentirsi giusti, corretti, perfetti, senza alcuna colpa o errore, esprime poco ascolto vero della Parola.

       La Parola di Dio fa verità in ciascuno e spinge al cammino di conversione continua in costante tensione verso la vita eterna.

       La Parola di Dio ascoltata e meditata permette di vivere in modo attivo la propria fede, in una osservanza non sterile della Legge di Dio, ma capace di attrarre e stimolare il prossimo ad accoglierla.

       Dalla Parola, che fa Verità nella coscienza, scaturisce la testimonianza di fede e la santità di vita.

       La Sapienza di Dio, che viene donata dallo Spirito quando ci si pone alla scuola della Parola, conduce a considerare le cose del mondo e gli interessi umani di poco valore; rinnova nel profondo donando una nuova capacità di giudizio a partire da ciò che è bene non solo per sé stessi, ma anche e soprattutto per il prossimo.

       «Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza. La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento» (Sap 7, 7-11).

       La vita eterna, dunque, la si prepara nel tempo della vita terrena, con l’accoglienza della Parola, il continuo lavoro di conversione del cuore per renderlo libero e fedele in Cristo e la costante ricerca del Bene, non solo per sé ma, anche e soprattutto, per il prossimo.

       Con le parole del Salmo 89 impariamo ogni giorno a chiedere al Signore il dono del suo amore e la saggezza del cuore:

Insegnaci a contare i nostri giorni

e acquisteremo un cuore saggio.

Saziaci al mattino con il tuo amore:

esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.


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