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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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IV Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

CHIAMATI ALLA SANTITÀ E NON ALLA NOTORIETÀ


 

(Dt 18,15-20; Sal 94; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28)

 

       «La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea» (Mc 1, 28).

       La fama, il successo, la notorietà, i follower, sono i punti cardini della vita di oggi. Nulla a che vedere con la fama di cui parla il Vangelo, ma di fatto è il male di questa generazione, che non riesce a comprendere il senso e il valore della vita se non nel bisogno di notorietà.

Viviamo in una piazza virtuale in cui mettere a nudo le nostre vite, i momenti della quotidianità, come se questi non avessero senso se non venissero pubblicizzati sul social.

       Una fama che di fatto genera ancor più vuoto esistenziale e disorientamento, incapacità anche di una vera relazione con il prossimo.

       Una fama a cui, senza comprendere le conseguenze il più delle volte nefaste, permettiamo anche ai minori di entrare e abusare, senza limiti, senza controlli e senza sostenere la loro crescita umana con esempi e valori solidi.

       La fama di cui parla l’evangelista Marco, è la conseguenza di un evento straordinario a cui il popolo assiste: una Parola detta con autorità, a differenza di quella degli scribi!

       Gesù sarà seguito e cercato per i prodigi che compirà, per i suoi insegnamenti, ma alla fine per divenire suoi discepoli occorrerà accogliere il suo insegnamento fino in fondo, accettando di mettere in gioco se stessi e cambiare vita.

La fama, di fatto, è una conoscenza superficiale, fatta di un parlare che passa da persona a persona, ma è carente di esperienza personale e di relazione profonda che permette la vera unione di intenti e di cuori e che costituisce la “sequela”.

       Nella vita di fede spesso accade che ci si ferma alla fama piuttosto che impegnarsi nella sequela. Si va alla ricerca del miracolo, del sensazionale che genera il sentimentalismo sterile della religiosità.

       Si pretende e si preferisce un Dio che intervenga per derimere le situazioni difficili, per compiere miracoli, per togliere il male, che spesso è generato dal nostro egoismo.

       Non si accetta facilmente un Dio che responsabilizza e invita ad una condotta di vita basata sulla carità e sulla verità, sulla giustizia e sulla corresponsabilità per il bene di tutti.

     Non è accettabile un Dio che ci indica la sua Via, di amore e di condivisione, di responsabilità e di impegno per edificare il suo Regno, perché richiede una conversione radicale. È più facile accettare un Dio, che abbia la fama di compiere miracoli, di togliere di mezzo il male fisico e morale, di fare giustizia secondo le nostre valutazioni e comprensioni, ma non che chieda il personale coinvolgimento e la responsabilità di seguirlo.

     Gesù, il Cristo, la Parola fatta carne, non è il Dio secondo questa logica umana, ma è Via, Verità, Vita, che interpella nell’intimo della coscienza e chiede la conversione!

       La sua autorità è riconosciuta e accolta solo da un cuore disposto a fare verità e libero dalle logiche umane e di egoismo.

      È venuto ad annunciare il Regno di Dio, a chiamare alla conversione e alla adesione al Vangelo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1, 15).  

       L’Evangelista Marco pone la guarigione dell’indemoniato subito dopo questo annuncio. Sebbene a prima vista sembra che i due brani abbiano uno stretto nesso cronologico, di fatto Marco lo inserisce per mettere in luce l’autorità di Gesù, la potenza della sua Parola, che libera e permette all’uomo di realizzarsi in pienezza.

       La guarigione avviene di sabato e nella sinagoga: due particolari posti in evidenza da Marco per evidenziare che Gesù è il compimento di tutte le parole dei profeti e della promessa di Dio. In questo giorno solenne per gli ebrei, in cui ogni membro dell’assemblea poteva alzarsi a leggere e commentare il testo sacro, Gesù parla e la sua parola genera liberazione e guarigione.

       L’insegnamento di Gesù è nuovo, fatto con un’autorità che nessuno ha, perché è Lui la Parola, il Verbo che illumina, la Via da compiere per vivere in comunione con Dio.

       La sua Parola è luce che dirama le tenebre; è potenza che spezza le catene; è Verità che squarcia ogni durezza ed egoismo.

       Il contrasto tra l’indemoniato e Gesù è evidenziato dall’affermazione: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?» (Mc 1, 24).

       Gesù viene a distruggere l’egoismo, a scardinare le false sicurezze in cui spesso ci barrichiamo, a spezzare le catene dell’interesse personale a cui la società sempre più ci condiziona e strumentalizza.

       La liberazione dell’uomo dalle sue alienazioni, dall’egoismo, dall’egocentrismo, dalla ricerca spasmodica della propria affermazione e successo, a scapito del resto della società e a volte dei nostri stessi affetti, è possibile solo dando spazio alla sua Parola.

        La sua Parola è autorevole, lontana dalla logica umana del potere che si impone e domina. La sua Parola è una parola che rinnova, trasforma, edifica, libera e responsabilizza.

        La sua Parola edifica perché è parola di amore. A differenza delle parole degli uomini, che sebbene finalizzate a generare una forma di comunione e di condivisione, legano a sé, perché sempre cariche della componente egoistica, connaturale con l’essere umano, la Parola di Gesù libera e apre alla vera comunione e condivisione perché parte dal donarsi, in una logica di servizio e di amore: «il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 45); «[…] ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10, 43-44).

        La sequela di Gesù non si basa, dunque, sulla sua fama, sul riconoscere il suo parlare con autorità e compiere miracoli, ma nel lasciare che la sua Parola ci interpelli nel profondo e compia la liberazione del cuore, della mente e della volontà, perché la nostra vita diventi sorgente di liberazione per gli altri (cfr Gv 7, 37-39).

       Ogni battezzato, nell’obbedienza alla Parola, è chiamato ad illuminare e sanare le varie situazioni di sopruso, di ingiustizia, di umiliazione, di egoismo, ma sempre partendo dalla personale e costante verifica ed impegno di vita. Non si tratta di denunciare il male, ma di lottare contro esso con il servizio di verità nella carità, secondo il Vangelo, con un costante discernimento perché il bene vinca sul male. Bisogna operare in uno spirito di servizio alla Parola e al prossimo, perché sia Cristo a regnare nei cuori e a liberare.

       Il credente vive in pienezza la sequela: se la sua esistenza si fa parola che esorcizza i segni di morte e proclama la vita liberata e redenta dall’amore di Dio in Cristo; se la sua fede diviene prassi di liberazione totale dalle tante forme di schiavitù ed egoismo, attraverso la Parola meditata e attualizzata nella quotidianità della sua vita, affinché ogni istante sia vissuto nella logica di Dio.

       Liberiamo la nostra religiosità da quelle forme sterili legati alla logica della “fama”, cercando ed inseguendo situazioni di sensazionalismo, miracolismo, sentimentalismo e devozionismo.

       Fondiamo e radichiamo la nostra sequela in Cristo nella sua Parola che rinnova, trasforma e opera, che libera il cuore e permette di agire nell’amore, per la comune edificazione e realizzazione nel bene.

       Siamo chiamati alla Santità e non alla notorietà; al servizio e non alla fama e al protagonismo!   

III Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

“Credere è essere conquistati da Cristo”


 

(Gn 3,1-5.10; Sal 24; 1Cor 7,29-31; Mc 1,14-20)

 

       «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1, 15).

       L’Evangelista Marco presenta Giovanni il Battista come colui che, concludendo l’A.T., introduce Gesù come colui che porta a compimento le promesse dei profeti, quindi come il Messia!

       L’espressione di Gesù, sintesi del Vangelo, è l’essenza della fede e del rapporto con Dio.

       Credere non è una questione intellettuale o un moralismo da attuare: è aderire al Regno nella sequela del Cristo.

      Credere è atto di maturità, di fiducia, di abbandono, di coinvolgimento pieno del proprio essere; è rischiare tutto per lasciarsi coinvolgere da Cristo nel vivere di Lui, in Lui, come Lui.

      “Il tempo compiuto” indica appunto che in Cristo la rivelazione è conclusa e la promessa attuata in pienezza. È il tempo della pienezza per l’umanità perché in Cristo è svelata la sua identità e il fine a cui è destinata: essere figli di Dio e partecipare alla sua Gloria!

      “Il Regno di Dio”, una categoria ben chiara agli ebrei, ma non più per noi cristiani di questo tempo. Il Regno di Dio è giustizia, libertà, pace, verità, fedeltà, amore: totalmente opposto al regno dell’uomo, ove egoismo e interesse personale prendono sempre il primo posto! Il Regno di Dio proietta l’umanità in una nuova visione della vita, ove l’amore e la verità sono i pilastri della convivenza e il riscatto dell’umanità.

       “Convertitevi” è la condizione “sine qua non” per la vita di fede. È una realtà radicale e profonda, quindi, non un sentimento pio, bensì un volgere le spalle alla vita di egoismo e chiusura in sé stessi, per aprirsi, voltarsi alla luce che irrompe e permette di assumere la logica dell’amore e della condivisione, nella piena sequela di Cristo.

      La conversione è l’atto di volontà necessario per affrontare il cammino di maturità della fede e affidarsi a Dio, camminando nella sua Parola.

       Convertirsi e credere non sono due condizioni in sequenza: una prima e una dopo. Sono dipendenti e conseguenziali: non c’è conversione senza credere e non c’è possibilità di credere senza una conversione.

       La fede nasce dall’incontro con il Cristo, dal riconoscere che la sua Parola è vera e libera il cuore inserendolo nella dinamica del vero amore e nella pienezza della propria esistenza.

     Questa dinamica della fede è ben evidente nella modalità della chiamata dei discepoli presentata dall’evangelista Marco. Cristo passa, chiama e genera l’esodo da sé per la sequela e la novità di vita, conseguenza dell’incontro.

      Essi abbandonarono tutto e lo seguirono (cfr Mc 1, 18.20): l’abbandono non è degli affetti, ma della prospettiva con cui si vive. La chiamata è generata dall’ascolto e dall’incontro: la parola di Dio accolta e dalla verità che illumina la propria coscienza.

       La prospettiva nuova a cui Cristo chiama è tutta orientata a comprendere il valore della vita non per “ciò che si ha” ma per “ciò che si è”.

       “Diventare pescatori di uomini” è una metafora, già presente in Ger 16, 16, che esprime l’essenza della fede e la sequela di Cristo. Seguire Cristo e credere in Lui eleva la condizione umana dalla sua caducità e materialità proiettandola alla trascendenza e al valore pieno della sua essenza: essere figli di Dio! Da qui la necessaria e imprescindibile missione nel coinvolgere e condividere la fede con il prossimo.

      La fede impegna nella condivisione di ciò che si è incontrato con il prossimo perché ogni persona abbia la possibilità di incontrare Cristo e camminare secondo la sua Parola.

     Il cammino della fede è una continua uscita da noi stessi per ritrovarsi in Lui e vivere nella giustizia, nella verità, nella vera libertà. Il cammino di sequela è difficile e richiede abbandono e fiducia, ma anche impegno per uscire da sé, per cambiare prospettiva e dare il giusto valore ad ogni cosa.

      La fede, la sequela di Cristo, è risposta ad una chiamata; è accoglienza dell’imperativo categorico ed incondizionato di aprire il proprio cuore alla novità dirompente del Vangelo e al conseguente cambiamento di prospettiva e di mentalità.

     La fede non ci disincarna e non ci esime dalla realtà terrena, ma ci inserisce nella realtà con maggiore impegno e responsabilità per “pescare” nel profondo dell’essere umano.

       “Essere cristiani” significa, dunque, non l’accettazione intellettuale di una dottrina e di un insegnamento, ma accoglienza della persona del Cristo e decidere di vivere per Lui e come Lui. È compiere le sue stesse scelte, che sono qualitativamente diverse da quelle degli uomini.

      Scegliere di seguire Cristo significa decidere il cambiamento radicale di prospettiva: dalla logica del mondo a quella del regno di Dio! La logica del Regno di Dio è l’amore! Un amore che implica la durezza e la radicalità della croce: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8, 34).

       La sequela di Cristo, che comporta l’uscita da sé per entrare nella logica di Dio, è cambiamento di prospettiva dal sé all’altro, dall’io al noi, in una ricerca di ciò che edifica tutti nell’amore!

     Seguire Cristo è vivere nel mondo senza essere del mondo, come dice San Paolo nel brano di 1Cor 7,29-31, dove tutto va vissuto nella prospettiva del Regno, della vita in Dio. Seguire Cristo è fare di questo tempo il tempo del Regno, ove ogni persona è posta nella condizione di figlio, rispettato nella sua dignità e aiutato a comprendere e accogliere la proposta di amore di Dio in Cristo.

      Credere, dunque, non è ideologia, dogmatismo, ma quotidianità di gesti e di impegni carichi di amore e di condivisione; scelte concrete di amore per l’edificazione comune, per la costruzione del Regno di comunione e di amore.

      La sequela non consiste nel porre prima una verità, nel raggiungere certezze e convinzioni, seguire regole, prassi e ritualismi, come nel fariseismo denunciato dal Cristo. La sequela non è conquista di verità o affermazione di sé, ma “essere conquistati da Cristo” (cfr Fil 3, 12).

      Il cammino di fede, cammino di santità, è lasciarsi “pescare” da Cristo e rinunciare alla propria giustizia per accogliere quella di Dio, ove l’amore è l’unica e importante misura della vita!

II Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

“Un gioco di sguardi che apre alla Vita”


 

(1Sam 3,3-10.19; Salmo 39; 1Cor 6,13-15.17-20; Gv 1,35-42)

 

       «[…] fissando lo sguardo […]» (Gv 1, 36.42).

       Ogni incontro è un gioco di sguardi che si scambiano emozioni. La fede e la sequela nascono dallo sguardo del cuore che incontra l’amore di Dio, Via, Verità, Vita. Giovanni il Battista fissa lo sguardo su Gesù e lo indica come il Messia, l’Agnello di Dio. Gesù fissa lo sguardo su Simone, fratello di Andrea, e lo investe della sua missione.

       Di fatto se non incontriamo lo sguardo di Dio su di noi, se noi non alziamo lo sguardo da noi stessi per vedere oltre e incontrare quello di Dio che ci ama, non riusciremo mai a vivere la fede.

       Fissare lo sguardo su Gesù e lasciare che Lui fissi su di noi il suo significa uscire da noi stessi, dal nostro egocentrismo per dare spazio a Dio e concedergli di essere Signore e Re della nostra vita.

       È l’esperienza di Samuele che incontra Dio. Non lo conosce ancora, non ha mai sentito la sua voce e per incontrarlo deve dare spazio a Lui nel suo cuore: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta». Da questa disposizione interiore nasce la relazione profonda e di sequela, che “non lascia andare a vuoto una sola delle parole del Signore” (cfr 1Sam 3, 19).

       L’esperienza quotidiana della nostra società ci porta a tenere basso il nostro sguardo, tutto ricurvo su noi stessi, sulle cose da fare e rincorrere, su necessità e bisogni legati alla materialità e indotti dal consumismo, a cui siamo asserviti.

       In questa condizione Dio non trova spazio e noi non riusciamo a vederlo. Non riusciamo a riconoscerlo come Via da seguire, Amore che si dona e Verità che illumina. Totalmente immersi nella nostra individualità perdiamo la capacità della reciprocità con il prossimo e, tanto più, con Dio. Tutto è condizionato dal personale tornaconto ed interesse, dove gratuità e servizio non possono esistere.

       Quando riusciamo a rialzare lo sguardo dalla nostra soggettività e ci apriamo alla relazionalità gratuita ed accogliente, allora impariamo a vedere l’altro come fratello/sorella, reciprocità e ricchezza, e a conoscere Dio come Amore, che si dona e chiama a partecipare di questo amore nella donazione libera e gratuita di noi stessi.

       La fede nasce e si sviluppa in un cuore umile e disposto a uscire da sé, dalle proprie visioni e sicurezze ed essere pronto a camminare secondo la volontà di Dio.

       Samuele e Giovanni il Battista ci insegnano questa disposizione del cuore, a saper accogliere la Parola di Dio e viverla.

       San Paolo ci ricorda che accogliere Dio, seguirlo e camminare secondo i suoi insegnamenti significa fare di noi, battezzati, il tempio dello Spirito Santo e di conseguenza non apparteniamo più a noi stessi, ma siamo sua proprietà, per la sua gloria.

       La fede, dunque, ci rende proprietà di Dio, partecipi della sua Gloria. Per la fede, tutto ciò che siamo diventa espressione dell’amore di Dio. Il nostro corpo, la nostra vita diventa presenza di Dio nel mondo.

       San Paolo, quindi, mette in guardia dall’impudicizia ed esorta a conservare il proprio corpo nella purezza, nell’amore, perché membra del Corpo di Cristo.

       Appartenere a Dio in Cristo Gesù per il dono dello Spirito nel Battesimo ricevuto, non annulla la nostra umanità e tutto quanto è ad essa correlato: desideri, piaceri, bisogni, sentimenti, passioni. Tutto ciò che appartiene alla corporeità non è annullato, né sublimato, ma elevato alla santità di Dio.

       La capacità di amare, propria dell’essere umano e contraddistinta dalla passionalità, dall’eros, viene elevata all’amore di agape, di gratuità, di donazione, che permette di superare l’egoismo e il tornaconto personale per aprirsi alla donazione di sé e al servizio di amore al prossimo.

       Tutto questo è possibile e vissuto al meglio se il cuore, la mente e la volontà sono fisse in Dio; se lo sguardo della nostra intelligenza e del nostro cuore è costantemente orientato a Dio; se la coscienza è attenta a discernere ciò che è bene nell’ascolto costante e fedele della Parola di Dio.

       Con Samuele, rinnoviamo il dono del nostro Battesimo, dicendo a Dio: “parla perché il tuo servo ti ascolta”. Con Giovanni il Battista e i discepoli “fissiamo lo sguardo” in modo continuativo su Gesù, l’Agnello di Dio, il Maestro, Via, Verità e Vita, per fare della nostra vita la sua presenza nel mondo; il nostro corpo il tempio dello Spirito e dare la nostra “bella testimonianza di fede” davanti a tutti, perché chi ci incontra possa alzare il suo sguardo, rivolgerlo a Dio ed aprirsi alla sua sequela.

      

Battesimo del Signore – Anno B

“Rigenerati dall’Amore per testimoniare la novità dello Spirito”


 

(Is 55,1-11; Da Is 12; 1Gv 5,1-9; Mc 1,7-11)

 

       Sono trascorse le festività natalizie, ma cosa hanno significato? Sono state giornate segnate dalla normalità, dalla monotonia, dal vuoto, oppure ci hanno permesso di recuperare il nostro rapporto con Dio, con il senso e valore del nostro esistere? Sicuramente non hanno avuto lo stesso tono di allegria e gioia degli altri anni e, purtroppo, per qualcuno segnati dal lutto per la perdita di cari a causa della pandemia.

       A conclusione di queste festività e all’inizio di un nuovo anno liturgico la Parola di Dio di questa Festa del Battesimo del Signore, ci viene incontro per dare speranza e per invitarci a rinnovare la nostra accoglienza dell’amore di Dio e la nostra capacità di camminare secondo i suoi comandamenti.

       «In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi» (1 Gv 5, 3).

       I comandamenti di Dio non sono gravosi, perché sono la via per vivere e conservarci nel suo amore. Non sono pesi e limitazioni, privazioni o imposizioni, ma indicazioni per dare il meglio di noi stessi sia nella relazione con Dio sia nella relazione con il prossimo.

       La vita di fede è vita d’amore, perché accoglienza e attuazione dell’amore di Dio per noi, nel suo Figlio Gesù, l’amato, in cui il Padre ha posto il suo compiacimento (cfr Mc 1, 11).

       Dio è amore, gioia, Verità che libera, misericordia che rigenera e rialza, e il suo giudizio non è per la morte, ma per la vita; non è per la condanna, ma per la conversione e la rinascita a vita nuova nello Spirito.

La difficoltà che spesso incontriamo e che si riscontra nelle comunità cristiane, è quella di sperimentare l’amore di Dio, che libera e rigenera, causata dall’imperante idea di Dio come giudice severo e della religione fatta di cliché di comportamento che rendono triste e noiosa la vita di fede.

       La festa del Battesimo del Signore ci ricorda che siamo stati immersi in un battesimo dello Spirito e non di penitenza. Siamo stati rigenerati dall’amore per amare e testimoniare la novità che viene dallo Spirito.

       Occorre, per vivere appieno il dono dello Spirito, avere sempre “fame e sete” di Verità. Occorre essere attenti a porgere l’orecchio verso Colui che dà senso al nostro esistere ed ha per noi parole di vita: «Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete» (Is 55, 2-3).

       Occorre mettersi in ascolto, in ricerca per incontrare Dio ed essere trasformati dal suo Amore.

       Oggi manca proprio questa capacità di ascolto! L’uomo di oggi è troppo preso ad ascoltare e dare spazio al suo egoismo, nella ricerca del piacere personale, restando nella condizione continua di assetato ed affamato, senza trovare ciò che appaga veramente la sua ricerca di soddisfazione e felicità.

       «Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia?» (Is 55, 2).

      Crediamo di trovare risposta e appagamento nella ricerca del piacere e del successo. Ci illudiamo che potere e affermazione di sé nella società, secondo la logica del mondo, possa portare alla gioia e alla realizzazione piena di sé. Ciò che di fatto otteniamo, in questa prospettiva, non è altro che perdita!

      «Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino» (Is 55, 6). Dio è vicino sempre a noi, perché è l’Emmanuele, il Dio con noi. È presente nel Figlio, attraverso la Parola e l’Eucaristia.

       Dio si lascia trovare da chiunque lo cerca in semplicità e verità. Nel suo Figlio ha definitivamente aperto le porte del suo Regno a coloro che vogliono entrarci. Unica condizione riconoscere che Gesù è il Signore e il Messia.

       «E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?». San Giovanni (1Gv 5, 5) ci dice che per la fede in Cristo siamo posti nella condizione e nella possibilità di vincere il mondo, cioè il male. Siamo resi capaci, per la fede, di operare in carità e vivere nella vera gioia. Rinvigoriamo la nostra fede con l’ascolto della Parola e la grazia Sacramentale, perché lo Spirito ci trovi disponibili e docili alla sua azione in noi.

      

“Signore Dio, nostro Padre,

ci hai donato il tuo Figlio unigenito,

in cui hai posto il tuo compiacimento.

 

In Lui ci hai resi tuoi figli,

e ci hai donato lo Spirito Santo

perché ci insegni ogni cosa

e ci sostenga nel cammino di fede.

 

Accresci la nostra fede,

perché sentiamo sempre più

fame e sete della tua Parola,

che libera e dona gioia.

 

Rendici docili al tuo dono del tuo Spirito,

ricevuto nel nostro Battesimo,

perché sappiamo vincere il male,

evitare le occasioni di peccato,

camminare nell’amore

e testimoniare al mondo

la gioia di essere tuoi figli .

 

I tuoi comandamenti

siano sempre per noi, tuoi figli,

la via da seguire

per camminare nel tuo amore.

 

Fa che sappiamo anteporre

Te al nostro io;

cercare ciò che è gradito a Te

per fare sempre la tua volontà;

amare Te in ogni persona,

per vincere il nostro egoismo

e vivere nel tuo Amore.

Amen!”

      

Pietro Perugino Baptism of Christ Sistine Chapel cat13a

 

Battesimo di Cristo - Perugino - 1482 - Cappella Sistina - Città del Vaticano

Epifania del Signore – 2021

“Essere epifania di Cristo”


(Is 60,1-6 - Sal 71 - Ef 3,2-3a.5-6 - Mt 2,1-12)

      

        Qualche giorno fa leggevo sul “Corriere della Sera”, nella versione online, un articolo intervista al sociologo Franco Garelli, in merito alla sua ultima indagine sulla religiosità in Italia. Garelli afferma: «Negli ultimi 25 anni i non credenti sono cresciuti del 30%, mentre le altre fedi sono passate dal 2 all’8%. È un cattolicesimo stanco. Già nel 1998 il cardinale Carlo Maria Martini distingueva i cristiani in quattro gruppi: della linfa, del tronco, della corteccia, del muschio. I primi, convinti e attivi, rappresentano il 22%; i secondi, non sempre attivi, il 30%; i terzi, attaccati all’albero per tradizione e cultura, sono la maggioranza, il 44%. Infine vi è un 4% di critici che si riconoscono soltanto in alcune idee del cattolicesimo»[1].

        Queste parole mi sono ritornate in mente meditando la Parola della Solennità dell’Epifania e mi hanno fatto interrogare sulla mia fede, su come la vivo e quanto essa sia luce al mio vivere, sia visibile nel mio modo di operare, parlare, in ogni momento della mia giornata. Non nascondo che mi sono ritrovato molto nella descrizione fatta da Garelli e, di conseguenza, mi sono chiesto: la mia vita di fede è epifania del Signore?

       Se ci pensiamo bene, celebrare questa solennità della Epifania di Cristo, della sua manifestazione a tutte le genti, significa, per ogni credente nell’oggi che vive, essere “epifania” nel mondo della novità di vita che viene dalla fede.

       L’oggi, nello scorrere dei secoli, è per ogni cristiano il kairos (καιρός), il tempo della salvezza e il momento opportuno da vivere in pienezza. Il cristiano, rinnovato dalla fede, vive il tempo come “manifestazione” della salvezza, come tempo di grazia.

       Ciò che si contempla nella solennità dell’Epifania, la visita del Magi che vennero dall’oriente per adorare il Re d’Israele, è preludio di quello che è la missione della Chiesa dopo la Risurrezione di Cristo e la Pentecoste, che Paolo espleta agli Efesini: «[…] le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo» (Ef 3, 6).

        La missione della Chiesa è propria di ogni battezzato, nel suo particolare carisma e apostolato, nel suo specifico compito nella società, in cui rendere visibile, manifesta, a tutti la promessa di salvezza in Cristo Gesù.

         L’evangelizzazione è compiuta da ogni singolo battezzato con il suo essere, i suoi gesti e le sue parole.

        Se oggi il cattolicesimo risulta stanco è perché si vive più il sacro e la tradizione di fede, che la fede in sé stessa; più le espressioni che l’essenza della fede.

        Questo non vuol dire che occorre rinnovare, o peggio modernizzare, le celebrazioni o i vari momenti di culto per attirare giovani e adulti, ma occorre rinnovare i cuori, le coscienze.

        Occorre verificare se risplende la luce di Cristo in noi; se, di fatto, ragioniamo con i nostri criteri o con quelli di Dio.

        I Magi hanno adorato il bambino Gesù! I cristiani devono essere adoratori di Cristo, nella Parola, nei Sacramenti, nel prossimo! Dalla adorazione di Cristo viene la luce che risplende nei nostri cuori, nei nostri occhi, che spinge a vivere in modo nuovo la vita, a non conformarla alle logiche del mondo, ma a quelle di Dio.

       Celebrare l’Epifania del Signore vuol dire riconoscere Cristo Signore e Re della nostra esistenza; seguirlo camminando secondo i suoi insegnamenti; testimoniarlo al mondo non con la pratica della religione sterile e vuota, fatta di riti e tradizioni che non incidono sulle scelte di vita, ma con un impegno responsabile nel mondo per essere “luce e sale”, testimoni della novità evangelica.

       I Magi hanno visto sorgere la sua stella! Il mondo ha bisogno di vedere la luce che traspare dagli occhi e dal cuore di cristiani convinti, gioiosi, che vivono con speranza e operano con carità, sostenuti da una fede viva e gioiosa.

       I Magi al vedere la stella, provarono una gioia grandissima! Il mondo ha bisogno di essere contagiato dalla gioia della fede pasquale. I cristiani sono figli della risurrezione, della Pasqua di Cristo, che ci ha redenti, resi figli di Dio, liberi dal peccato e redenti dalla colpa.

         L’Eucaristia è la fonte della gioia del cristiano, perché è unione al sacrificio di Cristo, partecipazione alla sua gloria, viatico nel cammino quotidiano per vivere nella fede e operare nella carità, dando ragione della speranza che è in lui.

         Se la Chiesa di questo tempo risulta stanca, come emerge dalla indagine di Garelli, è proprio perché l’Eucaristia non è celebrata, adorata, vissuta. Occorre recuperare la forza vitale della santità e liberarsi dalla stantia visione del sacro. Meno rito e più liturgia! Indicando con questa espressione il vero rendere culto a Dio di una comunità che celebra i Sacramenti e li vive nel fare quotidiano.

       Occorre recuperare il senso del “Ite missa este”, che è l’invito a portare la gioia della Pasqua, la luce che invade i cuori per aver partecipato al banchetto di nozze con l’Agnello, la gioia dell’essere figli di Dio ed eredi di Cristo, Re e Signore!

       Celebriamo questa Epifania riscoprendo la nostra vocazione ad essere “manifestazione dell’amore di Cristo, Re e Signore” con la nostra vita, nelle pieghe delle vicende umane, donando gioia e speranza all’umanità assetata di Dio!

fabriano adoration magi

 

 

Gentile da Fabriano - “L'Adorazione dei Magi” - dipinto a tempera e oro su tavola - 1423

Galleria degli Uffizi di Firenze

 

[1]  S. Lorenzetto, Franco Garelli: «Italiani di poca fede, 40 giovani su 100 senza Dio». Indagine del sociologo sulla religiosità dai 18 agli 80 anni. «Una Chiesa stanca e invecchiata, appena 22 su 100 alla messa festiva», in  https://www.corriere.it/cronache/20_dicembre_31/franco-garelli-italiani-poca-fede-40-giovani-100-senza-dio-47091668-4b3f-11eb-9611-5c537b64e8e9.shtml

II Domenica dopo Natale – Anno B - 2020

“Il Natale è …”


 

(Sir 24,1-4.12-16 - Sal 147 - Ef 1,3-6.15-18 - Gv 1,1-18)

      

          Nei mesi scorsi, tutti impauriti per la pandemia, abbiamo elevato un grido di coraggio e di speranza: “Andrà tutto bene!”.

       Col passare dei giorni abbiamo imparato a convivere con questa situazione esorcizzando la paura, dicendo che non è altro che una influenza, forse un po’ più difficile da superare.

       Abbiamo creduto, comunque, che questa esperienza ci avrebbe cambiati, migliorati, perché ci ha colpito negli affetti, ci ha privato delle persone care, delle relazioni, ecc.

       Invece, nulla di più fatuo e aleatorio! Non è cambiato nulla, se non addirittura peggiorato in egoismo e superficialità! Perché? Come mai, nonostante viviamo una situazione così difficile, che mette alla prova tutti, ci dimostra quanto siamo fragili ed impotenti, non siamo in grado di recuperare i valori importanti e cambiare?

       A mio avviso, perché abbiamo perso di vista il senso dell’esistere, immersi in un materialismo e soggettivismo esasperato, finalizzando tutta l’esistenza nel pragmatismo.

       Abbiamo, di conseguenza, allontanato, se non eliminato, ogni riferimento al trascendente, il pensiero metafisico e il senso dell’esistere oltre questa vita.

        In questa particolare circostanza in cui stiamo vivendo, toccati da questa pandemia, da un nemico invisibile che ci costringe a fare i conti con i nostri limiti, la nostra finitudine e piccolezza, di fronte al continuo sperimentare la fragilità della nostra vita, il mistero dell’Incarnazione di Cristo resta un’occasione favorevole per recuperare il corretto rapporto con la vita e il suo valore.

       L’umanità, così bella nella sua realtà, seppure fragile e caduca, è stata assunta da Dio per elevarla alla sua Gloria, per permetterle di scoprire il valore intrinseco e il fine a cui è stata pensata e destinata. Il Natale è questo!

       Nonostante la fragilità, la miseria, la cattiveria e l’egoismo, l’umanità è destinata all’amore! Nella fragilità di un bimbo, nella sua piccolezza e dolcezza, sperimentiamo la forza dell’amore, della vita, della bontà e semplicità. Soffermandoci a guardare la vita che nasce comprendiamo la forza e la bellezza dell’esistere, eppure, nonostante tanta bellezza e forza, siamo capaci di fare del male e provare sentimenti malvagi, distraendoci da ciò che ci rende “belli e buoni”.

      Le parole di San Paolo agli Efesini ci aiutano a recuperare il valore della vita e capire su cosa fissare l’attenzione e fondare il nostro operare.

       San Paolo esorta i credenti ad essere fondati e radicati nella carità per essere ciò a cui Dio ci ha destinati: “santi e immacolati”. Il fine dell’umanità, e di coloro che accolgono e credono in Dio, è quello di vivere nell’Amore! Dio ci ha creati per il bene, per amare, e la realizzazione piena avviene proprio nell’amore, nel rendere la nostra vita, il nostro impegno, il nostro operare una espressione piena dell’amore, che si manifesta in ogni gesto, piccolo o grande, in ogni parola e in ogni pensiero destinati a operare e costruire il bene per sé e per gli altri.

       La santità non è altro che vivere nell’amore di Dio e attuarlo nella realtà in cui siamo inseriti.

      Il Natale non è, quindi, essere più buoni, ma accogliere la chiamata alla santità, che si esplica nella vita di carità, di amore. Il Natale è appunto la nostra umanità che, assunta dal Verbo, dal Cristo, è stata elevata e resa capace di vivere in pienezza l’Amore di Dio.

      «[…] il Dio del Signore nostro Gesù Cristo […] illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi» (Ef 1, 17-18).

      Siamo chiamati a vivere nella speranza, cioè nella certezza dell’Amore di Dio, che non è un desiderio, un moto del cuore di fronte alle difficoltà, come quello che si è levato in questo periodo: “andrà tutto bene”, ma una certezza che fa affrontare con saggezza e forza ogni situazione senza mai dubitare dell’amore di Dio.

       Una speranza che cambia la prospettiva della vita, non limitata all’occasione e alla situazione, ma sempre tesa verso la meta finale della vita in Dio. Una speranza, dunque, che è certezza perché essa è Dio stesso.

       La vita, nella prospettiva della fede, speranza e carità, assume una forza e una ragione che non è basata su sé stessi, ma su Colui che dà senso e forza alla vita, Gesù Cristo: «[…] non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato sé stesso per me» (Gal 2, 20).

       Il Natale, la contemplazione dell’Incarnazione, ci riporta dunque alla Pasqua, al sacrificio d’amore di Dio, che ha redento la nostra umanità. Il Natale è l’occasione per comprendere che questa nostra umanità, se non si apre all’amore di Dio, resta immersa nelle tenebre, nella chiusura dell’egoismo e del male. Il Natale è il celebrare la nostra possibilità di vivere in Dio, rendendolo presente nella nostra esistenza con un impegno di carità, di apertura al prossimo.

      Il Natale è fare della nostra esistenza la presenza di Dio nella storia, non con il ricordo, ma con la novità di vita che viene dalla fede, dalla sua Parola; con la speranza che permette di vivere ogni cosa con impegno e responsabilità, non per un vanto personale, ma nella carità.

      La speranza, che è Dio, ci permette di vivere in pienezza tutto, ma senza restare schiavi delle cose, affrontando ogni cosa con la libertà del cuore e la certezza che nulla ci può separare dal suo amore.

     In questo tempo di Natale, chiediamo al Signore di accrescere la nostra fede; di aprire i nostri cuori ad accogliere la sua Parola e di vivere nella sua volontà; di vivere con impegno e responsabilità ogni situazione non vacillando mai nella fede, speranza e carità, certi che siamo destinati alla gloria, ad essere eredi fra i santi del suo Amore, del suo Regno.


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