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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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XXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“Con Dio non perdiamo mai!”


 

(Ger 20,7-9; Sal 62; Rm 12,1-2; Mt 16,21-27)

 

       «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16, 24).

       Di fronte a questa affermazione di Gesù chi non si sente incapace o, addirittura, impaurito per il tenore delle parole?

       Eppure, ad una lettura attenta e corretta, Gesù non pretende da noi cose impossibili, rinunce drastiche, sacrifici immani.

       Alla base di questa affermazione c’è la decisione personale di seguire Cristo: di riconoscerlo e seguirlo. La professione di fede in Cristo, Signore e Figlio di Dio, chiede una conversione radicale della mentalità.

       La sequela è una decisione personale e volontaria: “Se qualcuno vuole venire dietro a me”. Una decisione piena della volontà personale determinata dall’incontro con Gesù, riconoscendo che è il Signore.

       La scelta di sequela è libera e si radica sull’esperienza di amore da parte di Dio in Cristo Gesù. Per vivere la sequela non basta, quindi, essere battezzato ed aver ricevuto una minima conoscenza della fede cristiana. La sequela nasce dall’esperienza, dall’incontro con Cristo, mediante la testimonianza di chi crede, ma poi chiede di essere rielaborata nella personale esperienza di relazione di fede.

       La relazione personale con Cristo comporta percorrere il cammino di conversione che esige il rinnegamento di sé per vivere pienamente da figli di Dio.

       Il “rinnegare sé stessi” di Gesù indica, quindi, non il rinunciare ai propri desideri, alla propria felicità, perché non è questo il progetto di Dio per l’uomo, in quanto lo chiama alla piena e totale realizzazione di sé, appunto, come figlio nel Figlio Gesù.

       Il “rinnegare sé stessi” significa cambiare ciò che di sé non è secondo Dio; ciò che non è amore, ma egoismo; ciò che non edifica, perché chiude su sé stessi.

       Il “rinnegare sé stessi” non è, dunque, un sacrificio, ma un gesto di amore: non è un perdere, ma un guadagnare, perché mentre rinunciamo al nostro modo di pensare, giudicare, guadagniamo il modo di pensare, di giudicare e di amare di Dio.

       Con Dio non perdiamo mai! Dio non ci chiede di rinunciare a qualcosa senza darci molto di più di quanto pensiamo di aver perso.

       Il “rinnegare sé stessi” è una conquista: mentre rinunciamo a ciò che ci chiude in noi stessi egoisticamente, ci apriamo a ciò che ci rende pienamente noi stessi come persone, come figli di Dio, come amati senza misura che amano con la misura di Dio.

       Questo cammino di conversione interiore per crescere nella piena maturità della fede, come figli di Dio, si realizza nel cammino di obbedienza all’amore, che vuol dire “portare la propria croce”.

       “Prendere la propria croce” non significa soffrire, soccombere, morire, ma vivere nell’amore di Dio, fare la volontà di Dio, del Padre, come Cristo ha fatto. In questo consiste la nostra personale sequela: vivere ognuno la propria obbedienza all’amore di Dio, alla sua volontà nella personale storia e quotidianità di vita.

       La frase di Gesù: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua», è un programma di vita tutto volto a lottare contro l’egoismo per aprirsi all’agape; è un operare nell’amore e cercare sempre ciò che edifica, rinunciando a ciò che distrugge; è un cambiare mentalità per discernere la volontà di Dio.

       San Paolo traduce tutto questo con le splendide parole della pericope ai Romani: «lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12, 2).

       Il culto gradito a Dio, ciò che rende vere le preghiere che rivolgiamo a Padre, è l’impegno di conversione di mente, cuore e volontà, perché la nostra vita sia gradita a Dio: “il nostro culto spirituale” (Rm 12, 1).

       Sentiamoci amati da Dio, accogliamo il suo invito a seguirlo, impegnandoci a cambiare in noi ciò che non è gradito a Lui, ciò che lo offende, ciò che non è secondo il suo amore.

       Ricondiamoci sempre che con Dio non perdiamo mai! Anche quando ci sembra che ci chieda l’impossibile, di fatto Lui vuole solo che siamo noi stessi, suoi figli e non dobbiamo far altro che riconoscerci tali, imparando ad amarci gli uni altri, riconoscendo nell’altro il volto di Dio.

XXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“La fede è lasciarsi interpellare da Dio”


 

(Is 22,19-23; Sal 137; Rm 11,33-36; Mt 16,13-20)

 

       Dopo il dialogo tra Gesù e la donna cananea, la sua professione di fede, la Liturgia di questa domenica ci fa soffermare sulla nostra professione di fede.

Gesù interroga i discepoli e noi chiedendo: «Chi dite che io sia?» (Mt 16, 15). Una domanda da cui dipende tutta la relazione d’amore tra Gesù e i suoi discepoli.

       Ogni domenica l’assemblea liturgica rinnova la sua professione di fede. Recitare il credo non è una formula teologica o un momento liturgico, ma un atto di adesione libera e un gesto carico di amore e di fede.

       Rispondere alla domanda di Gesù, «Chi dite che io sia?», non vuol dire semplicemente riconoscerlo con l’intelletto, ma accoglierlo con il cuore e determinare la volontà a far di ogni cosa del nostro vivere l’espressione della nostra sequela.

       La risposta che Gesù esige non è per riconoscere la sua grandezza e onnipotenza, ma è la condizione necessaria affinché l’amore si doni e ci costituisca discepoli, in una relazione di amore e di fiducia.

       Il cristianesimo non è una dottrina, una morale, ma la relazione da persona a persona con Gesù, una relazione di intimità e di amore, che si esplica in un cammino morale e in una professione di fede. Essere cristiani è un cammino di conformità a Cristo, una sequela che richiede l’impegno costante e continuo di rendere la nostra vita espressione dell’incontro rigenerante con il Cristo.

       Riconoscere Gesù come il Cristo, il Signore, il Figlio del Dio vivente, comporta lasciarsi mettere in questione da Lui. La fede è mettersi in questione e dare a Dio il primato nella propria vita.

      Spesso ci poniamo la domanda su Dio, sulla sua esistenza. Arriviamo ad accettare che esista, ma questo non significa credere, avere fede. La fede nasce solo quando ci lasciamo interrogare da Dio; quando, dopo aver accettato la sua esistenza, siamo disposti a lasciarci mettere in discussione per accettare la sua presenza e fare la sua volontà.

       La fede non è risposta alle nostre attese, ai nostri bisogni e desideri, ma adesione alla proposta di relazione d’amore con Dio.

       La fede non è per tutti, perché non tutti sono disposti a lasciarsi interrogare e rinnovare nel cuore, nella mente e nella volontà per aderire e seguire la volontà di Dio.

       La fede è il “ma” che differenzia dal sentire comune della “gente”. La fede comporta la differenziazione dal pensiero comune e inserisce in quel cammino alto di “santità”, di “conformazione”.

       La misura della fede non è data dalla devozione, dalla pratica religiosa, dal culto, ma è la “novità” di vita, il costante impegno di “rinnovamento interiore” perché tutto il proprio essere sia rigenerato dallo Spirito.

       L’adesione della fede, il riconoscere Gesù come il Cristo, ci costituisce uniti a Lui e tra noi nel cammino ecclesiale, secondo la volontà di Dio.

       La professione di fede di Pietro, «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16), è la professione della Chiesa, del popolo dei credenti in Gesù, di coloro che lo riconoscono e decidono di vivere la sequela, la relazione di amore con Lui.

       Pietro è costituito a fondamento del popolo, della Chiesa e garante della fede. La sua fede è “la chiave” che apre le porte del Regno. Il potere di “legare e sciogliere”, dato a Pietro, significa dichiarare ciò che appartiene o meno al Regno di Dio, secondo la fede professata, la relazione di amore con Cristo.

       La fede non è, dunque, una questione privata ed anche nella sua dimensione di sequela personale, ha sempre un risvolto comunitario, perché la fede che ciascuno professa ci inserisce nella comunione di fede e nella relazione di fraternità.

       Riconoscere Gesù come Signore, come il Cristo, che ci dona la salvezza, ci inserisce nella comunità dei credenti, la Chiesa. Il cammino di fede è adesione personale, ma costituisce il singolo parte integrante e unica del popolo di Dio, la Chiesa.

       Come non si cammina da soli nella sequela di Cristo, ma nella comunione ecclesiale, così non ci si salva da soli. Il cammino di santità, la misura alta della fede che ognuno è chiamato a compiere, coinvolge necessariamente l’umanità, per cui ogni azione, ogni decisione della vita non è mai solo una questione privata. I peccati, seppure personali, non hanno un risvolto solo sulla nostra coscienza, ma hanno sempre una ricaduta sulla comunità.

       La risposta personale alla domanda di Gesù, «Chi dite che io sia?», ci inserisce nella relazione comunitaria ecclesiale e ci impegna a sostenerci reciprocamente in questo cammino, avendo come garanzia la fede di Pietro, la fede della Chiesa.

       Professare che Gesù è il Cristo, il Signore, il Figlio di Dio, fa di ciascuno membra del suo corpo, la Chiesa, e ci unisce nell’amore di Dio, per questo siamo chiamati a operare in comunione e a superare ogni divisione operando con misericordia, essendo stati amati e perdonati da Dio.

      

        “Signore Gesù, ancora una volta,

        alla tua domanda «Chi dite che io sia?»,

        noi riconosciamo che tu sei il Cristo,

        colui che ci ama e ha donato sé stesso per noi.

 

        Siamo consapevoli

che questa nostra professione di fede

comporta un impegno di vita

affinché tutto sia espressione

della nostra adesione a Te.

 

Siamo anche consapevoli

che non siamo sempre coerenti,

capaci di vivere nel tuo amore.

Tante sono le divisioni,

tanti sono i nostri peccati,

tante le incongruenze,

le mancanze, le contraddizioni.

 

Noi confidiamo in Te,

ci affidiamo alla tua misericordia

e ti chiediamo di illuminare il nostro intelletto,

di infiammare il nostro cuore,

e di corroborare la nostra volontà,

perché in ogni occasione siamo capaci

di vivere in pienezza la nostra fede

e dare testimonianza del nostro appartenere a Te,

di essere il tuo popolo, la tua Chiesa santa,

ove ogni persona si senta accolta e amata da Te.

Amen!”

XX Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“Siamo figli per fede”


 

(Is 56,1.6-7; Sal 66; Rm 11,13-15.29-32; Mt 15,21-28)

 

       La fede è accoglienza, fiducia, abbandono che cresce mediante il dialogo con Dio fatto di ascolto della sua Parola, preghiera e gesti conformi alla fede.

       La preghiera, nelle sue diverse espressioni, è l’atto di risposta amorosa, di fiducia filiale e di richiesta umile a Dio.

       Il brano evangelico di questa domenica, che presenta il dialogo di Gesù con la donna Cananea, ci suggerisce molti spunti per il personale e comunitario cammino di fede, sia in merito alla fede che all’essenza della preghiera.

        La donna cananea è l’immagine della nostra Chiesa, che proviene dal paganesimo, dai Gentili convertiti chiamati a partecipare alla promessa di Abramo mediante la fede.

       La fede ci permette di partecipare al “pane dei figli”, sia per Israele che per i gentili, sia per chi “ha visto” che per la moltitudine di coloro che “crederanno senza aver veduto”.

       Il brano evangelico presenta, di fatto, la missione di Gesù rivolta ad Israele, erede della promessa, e la partecipazione alla salvezza destinata a tutti i popoli, di cui la cananea e il centurione ne sono l’anticipo profetico.

       La fede è la via che permette l’intervento di Dio al di là di ogni differenza culturale e religiosa: questa sarà l’esperienza degli Apostoli dopo la risurrezione e la missione di Paolo presso i Gentili.

       Il dialogo tra Gesù e la donna riguarda il “pane dei figli” e a chi spetta. La fede della donna abbatte la distinzione cani/figli: i pagani per fede possono partecipare della mensa e saziarsi.

       L’evangelista Matteo, che scrive alla comunità di giudei cristiani, mette in evidenza la missione di Gesù rivolta ad Israele e vuole stimolare la gelosia dei giudei (figli), che ancora non accolgono quel pane del quale invece i pagani (cani) convertiti si saziano.

      San Paolo esprime questo concetto con le parole:«[…] come apostolo delle genti, io faccio onore al mio ministero, nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni» (Rm 11, 13).

       Oggi noi credenti, che di fatto siamo gli eredi dei Gentili convertiti, ci comportiamo, spesso e purtroppo, con “gelosia” e “giudizio” verso i lontani che si affacciano alla fede e i neo convertiti, timorosi che possano toglierci “il privilegio” che pensiamo acquisito per la pratica religiosa che viviamo e la fedeltà ad un cammino più o meno autenticamente di fede.

       Siamo, di fatto, come i discepoli che dicono a Gesù, con imbarazzo di fronte alle grida della donna: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». La traduzione letterale del verbo “ἀπολύω” è “liberare, congedare”, quindi i discepoli chiedono a Gesù di mandarla via, di darle ciò che vuole e di congedarla. È la tentazione, in cui spesso cadiamo, di “requisire” il Signore, sottraendolo alle attese di chi lo cerca, non considerando che così facendo escludiamo il prossimo dall’eredità e rinneghiamo il nostro essere figli.

       La donna cananea, consapevole di non appartenere al popolo scelto, alla stirpe di Abramo, nonostante la risposta di Gesù, continua a supplicarlo e si pone in atteggiamento di adorazione, si prostra ai suoi piedi e lo chiama “Kurios”, “Signore”.

       Alla risposta di Gesù, la più dura che un pagano possa aspettarsi di ricevere, «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini», la donna risponde con semplicità e fede, che esprimono l’atteggiamento di affidamento ed abbandono alla volontà del Signore: «[…] eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».

       Gesù riconosce la fede grande della donna, a differenza di quella degli discepoli, per la quale lei ottiene di entrare nell’eredità, come la moltitudine di coloro che “verranno da oriente ed occidente, e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe” (Mt 8, 11).

       La preghiera della donna è stata esaudita perché ha chiesto con fede, riconoscendo il Signore e ponendosi nella sua volontà. Il dono della salvezza è per chi lo chiede con fiducia, non per chi lo pretende o per chi pretende un segno per avere fede.

       Dio conosce i nostri bisogni, i nostri desideri, i nostri limiti e le nostre fatiche, ma chiede da noi di saperne prendere coscienza e di affidarci in umiltà, fiducia e abbandono.

       La preghiera è accolta dal Signore quando è presentata con fede e nella sua volontà. Tante volte chiediamo e pretendiamo dal Signore di fare come desideriamo noi; convinti di pregare con fede, di fatto ci rivolgiamo con la pretesa di voler essere esauditi secondo le nostre attese.

      

        “Signore Gesù,

        come la donna cananea ti chiediamo:

        pietà di noi, Signore, figlio di Davide!

 

        Sostienici nella nostra debolezza,

        guidaci nel nostro cammino,

        rafforza la nostra fede,

        perché non sappiamo cosa sia conveniente domandare.

 

        Spesso, presi dai nostri desideri,

        ottenebrati dalle nostre paure,

        dimentichiamo l’essenziale:

        amare Te, fare la tua volontà, amare il prossimo.

 

        Donaci il tuo Spirito,

        perché ci insegni a pregare,

        a comprendere il tuo volere,

        a servirti nei fratelli.

       

        Usaci misericordia,

        donaci la tua Grazia,

        e rendici degni di essere il tuo popolo,

        la tua stirpe, la tua eredità,

        per la quale hai offerto te stesso sulla croce.

        Amen!”

       

Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria - 2020

“Alla scuola di Maria per vivere in umiltà”


 

 

       La Chiesa celebra la Solennità dell’Assunzione della B. V. Maria nel tempo delle ferie, nella giornata del Ferragosto (feriae Augusti indicante la festività istituita dall’Imperatore Augusto nel 18 a.C.), probabilmente perché in quella data si commemorava la dedicazione di una grande chiesa a Maria in Gerusalemme. La Chiesa ortodossa e la Chiesa apostolica armena celebrano il 15 agosto la festa della Dormizione di Maria.

       La solennità dell’Assunzione è la più grande festa dedicata alla Vergine, proprio perché celebra la sua nascita in Dio ed è preludio della resurrezione finale dei corpi alla fine del mondo.

       Ogni anno questa solennità è occasione, proprio nel tempo del riposo, per considerare il fine della nostra vita e la metà della nostra esistenza. Maria assunta in cielo in anima e corpo ci richiama proprio a ciò che siamo destinati: la vita eterna in Dio!

       Meditare il fine della nostra vita nel tempo del riposo, delle ferie e dello svago, permette di riordinare ogni cosa della vita in funzione della metà a cui tendiamo.

       In questo anno, caratterizzato dalla pandemia del Covid, dopo aver passato tanto tempo in lockdown, lamentandoci della privazione della nostra libertà, sperando che cambiasse qualcosa e che tornassimo ad apprezzare la vita come dono, vedendo soprattutto le centinaia di migliaia di morti, che ancora contiamo nel mondo interno, la solennità dell’Assunta ci offre la possibilità di riconsiderare tutto ciò, riprendere vivo il cammino di fede ridando la centralità della nostra vita a Dio e tenere sempre presente, in ogni momento della nostra esistenza, che siamo destinati all’eternità.

       La Vergine, nostra Madre, sempre premurosa e amorevole, ci sprona nel cammino e ci insegna la virtù dell’umiltà e la fiducia in Dio. Ci invita a porre valore e impegno in ciò che ci rende graditi agli occhi di Dio, anche se non sempre accettati dagli uomini: la giustizia, la verità, l’onestà.

       A Lei ricorriamo e affidiamoci quando ci sembra di perdere la speranza e forza nel cammino di fede.

 

Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio,

Santa Madre di Dio:

non disprezzare le suppliche

di noi che siamo nella prova,

ma liberaci da ogni pericolo.

O Vergine gloriosa e benedetta

XIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“Dubbiosi e fragili, con Cristo tutto possiamo”


 

(1Re 19,9.11-13; Sal 84; Rm 9,1-5; Mt 14,22-33)

 

       Gesù, dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, dice l’evangelista Matteo, «costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva» (Mt 14, 22), mentre Lui congeda la folla e si ritira in preghiera. Matteo presenta il tutto con dovizia di particolari, che non hanno semplicemente il compito di descrivere i fatti o abbellire il racconto, ma hanno un significato teologico importante, che permette di cogliere il messaggio profondo del racconto evangelico.

       La barca rappresenta la Chiesa, il mare il mondo e la sera il tempo della prova. Tutto avviene dopo che Gesù ha insegnato, guarito e compiuto il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci: niente di diverso da quello che viviamo ogni giorno!

       La fede non è una questione privata che si vive nella riservatezza della propria intimità, nella propria coscienza. La fede si vive nel contesto quotidiano della vita, immersi nella realtà del mondo, ove le prove, le opposizioni, le tentazioni contrastano il cammino e mettono a dura prova la nostra fedeltà al Signore.

       I discepoli, lasciato Gesù, si incamminano nel loro viaggio, come comunità di credenti, seguaci del Maestro e si trovano in mezzo alla burrasca, sballottati dalla furia del vento e delle onde. L’evangelista Matteo sottolinea che “il vento era contrario”: è quello che accade quotidianamente ad ogni credente, cioè “camminare contro corrente”.

La fede cristiana è un cammino in direzione opposta al mondo, con il quale non possiamo trovare compromessi, ma dobbiamo restare fedeli al Vangelo vivendo, inseriti a pieno titolo nel mondo, con responsabilità e impegno, secondo quanto facciamo e siamo, a livello lavorativo, familiare, sociale, politico ecc.

       I discepoli vengono messi alla prova e non riescono a riconoscere il Maestro che cammina verso di loro. Pietro, colui che sarà posto a capo della Chiesa, parla per tutti e chiede di andare incontro a Gesù. Pietro rappresenta la comunità dei credenti e, come essa, nonostante si impegna a camminare incontro al Signore, seguendo la sua Parola, tentenna nella fede.

       La più grande tentazione per il cristiano è confidare su sé stesso, nella convinzione di compiere la volontà di Dio, seguendo la Parola del Maestro. Ogni volta che, nella quotidianità della vita, ci sentiamo sicuri nella fede, certi di stare seguendo la sua Parola, dobbiamo fare attenzione a che anziché confidare nel Signore, stiamo confidando più su noi stessi: quando riteniamo di essere forti e saldi nella fede e che il nostro modo di riflettere e agire è in sintonia con il Vangelo, quello è il momento in cui inizieremo ad affondare, a perdere la via e ad allontanarci dalla Parola, come l’apostolo Pietro, incapaci di resistere agli attacchi contrari “del vento”, cioè della mentalità del mondo.

       Gesù rimprovera Pietro di aver dubitato, di non aver creduto nella sua parola: non si tratta del dubbio che ci coglie quando ragioniamo su Dio e sul modo di vivere la fede, ma il dubbio sull’amore di Dio, sulla sua grazia, sul suo perdono.

       Pietro che dubita di fronte alla furia del vento contrario è l’immagine di ciascun battezzato, che di fronte alle avversità del mondo, al pensiero contrario alla fede e alla perdita dei valori evangelici nella società moderna, perde fiducia nell’amore di Dio e vive o con rassegnazione una fede “tiepida” o rifugiandosi nel “rigorismo morale” e nella “scrupolosità di coscienza”, trovando nei “precetti” il fondamento della propria fede, ma priva di una vera sequela di Cristo.

       Il rimprovero di Gesù a Pietro: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (Mt 14, 32), ci sprona a verificare in chi poniamo fiducia, se nel Dio di Gesù Cristo o nella religione e nei precetti indicati, ma privi del vero riferimento al Dio che li ha dati.

       Ci fa interrogare: “cosa significa per me credere?”, “come vivo il mio rapporto con Dio e la sua parola?”, “cosa significa per me credere nella Chiesa e appartenere ad essa?”, “cosa sono per me i sacramenti e come li vivo?”. Ed ancora: “quale Dio preferisco, quello che si manifesta nel fragore roboante di un terremoto o nel sussurro di una brezza leggera?”, “un Dio che intervenga con forza contro coloro che gli si oppongono, o il Dio che manifesta il suo amore nel dono continuo della sua Grazia?”.

       Tante volte ci farebbe comodo un Dio che manifestasse la sua forza verso i suoi avversari, ci risparmierebbe tanta fatica e sofferenza, ci faciliterebbe il compito della testimonianza, il servizio di “carità nella verità”.

       Dio, invece, ci chiama a confidare nel suo amore e a convertirci nella mente e nel cuore per vivere con la sua “logica di amore”. Ci dona costantemente la sua grazia nei Sacramenti per sostenerci nella nostra debolezza e poter dare a tutti “ragione della speranza che è in noi” (1Pt 3, 15), andiamo a Lui con cuore umile e con ferma volontà per ristorarci e impegnarci a vivere da cristiani maturi nella fede.

       Impauriti, affaticati e sfiduciati, come gli Apostoli sballottati nella barca per la furia del vento contrario e per il mare agitato, seguiamo l’invito che Gesù rivolge a Pietro: «Vieni!». Andiamo a Lui accostandoci all’Eucaristia, alla Riconciliazione e meditando la sua Parola, per trovare forza e sapienza e poter dare al mondo la nostra semplice ed umile testimonianza di fede nel Dio che ci ama e vuole “la salvezza dell’uomo e non la sua morte” (cfr Ez 33, 11; Gv 12, 44-50).

      

“Signore Gesù,

tante volte mi sento sfiduciato, impaurito e impotente

di fronte al pensiero del mondo,

al male che vedo in me ed attorno a me.

 

Tante volte ritengo di essere un vero credente,

ma se mi fermo a fare un vero esame di coscienza

trovo che confido in me stesso,

rifugiandomi in precetti morali e atti di pietà

che appagano solo la mia coscienza,

ma mi allontanano dall’impegno di testimonianza vera

accanto alle persone che poni accanto a me.

 

Tante volte, anziché trovare e togliere il difetto in me,

riempio il cuore di vanagloria

trovando i difetti nel mio prossimo,

nei tuoi cristiani e nel mondo.

 

Come Pietro e gli apostoli,

tante volte ho paura di fronte

al mondo sempre più ostile alla fede.

Dubito del tuo amore,

della tua presenza,

della tua misericordia.

 

Riconosco che piccola è la mia fede,

ma confido nel tuo Amore e mi affido a Te,

sicuro che Tu non mi abbandoni

e vieni in soccorso alla mia debolezza.

 

Donami il tuo Spirito,

perché mi aiuti a mettermi in ascolto di Te,

come il profeta Elia,

non cercandoti nelle cose straordinarie ed eclatanti,

ma in quelle semplici,

nel cuore dei fratelli,

nel peccatore che non sa come rialzarsi,

nello sfiduciato che ha perso la speranza,

nel dubbioso che ha sete di Te, ma non sa dove trovarti.

 

Fa di me il tuo strumento

per arrivare al cuore di ogni uomo,

con la stessa tua dolcezza e rispetto.

Donami sapienza e umiltà,

per saper annunciare la tua Verità

ed amare con la tua Carità.

 

Illumina la mia coscienza

perché abbia sempre presente la mia debolezza

e senta sempre forte il bisogno della tua Grazia

per raggiungere la vera maturità della fede

e servire Te nei fratelli.

Amen!”

      


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