Privacy

I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi. Utilizzando tali servizi accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra Clicca qui per ulteriori informazioni




La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
  • Occhi


Germogli della Parola



×

Errore

Strange, but missing GJFields library for /home/utxxpkem/public_html/plugins/system/notificationary/HelperClasses/GJFieldsChecker.php
The library should be installed together with the extension... Anyway, reinstall it: GJFields

XVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“Uniti a Cristo, a servizio della Verità per amare il prossimo”


 

(Is 55,1-3; Sal 144; Rm 8,35.37-39; Mt 14,13-21)

 

       «[…] egli vide una grande folla, sentì compassione per loro» (Mt 14, 15). «Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature» (Sal 144).

        Quante volte dubitiamo dell’amore di Dio? Quante volte pensiamo che Dio manda disgrazie e sembra godere nel vedere gli uomini nel dolore e nella prova? Quante volte, di fronte a disgrazie, incidenti, atti di violenza, guerre, ecc., ci chiediamo perché Dio lo permette, attribuendo a Lui, direttamente o indirettamente, la responsabilità di ogni male e di avere un cuore insensibile?

       L’Evangelista Matteo, invece, presenta il cuore di Gesù pronto alla compassione verso il popolo, che si commuove vedendolo nel bisogno.

       La compassione di Dio verso di noi è il segno del suo amore, ma come interviene? Dio non interviene mai senza l’uomo: anche quando compie miracoli di guarigione, in cui manifesta la sua potenza e grandezza, lo fa sempre con il consenso e la partecipazione della persona.

       Manifesta il suo amore e opera con la sua Grazia senza mai fare violenza, ma attende la richiesta della persona, che “si alzi il grido del povero”, che “il cuore sia pronto a ricevere il suo intervento”.

       Dio ha scelto di manifestare la sua grandezza, il suo potere e il suo Amore mediante l’umanità, per questo ogni battezzato è rivestito della grande responsabilità di renderlo visibile con la sua vita. Per la sua volontà di scegliere la mediazione umana ha costituito la Chiesa, suo popolo santo, suo corpo mistico, per rendere presente sé stesso mediante la sua missione e i Sacramenti.

       Il brano evangelico presenta il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, preludio dell’Eucaristia. Alcune sottolineature, che l’evangelista Matteo riporta, sono importanti per comprendere il senso del miracolo e l’insegnamento per noi oggi.

Il luogo dove si trovavano era un deserto ed il miracolo avviene dopo una giornata di guarigioni e di annuncio da parte di Gesù, sul far della sera: il deserto e la sera nella Bibbia rappresentano la condizione di prova, di tentazione, di smarrimento. I discepoli sono presentati preoccupati della fame materiale della folla e del poco che hanno per sfamarli, sia in cibo che in denaro; questa preoccupazione sembra sminuire tutto quello che hanno ascoltato e assistito da parte di Gesù.

       Gesù risponde alla preoccupazione dei discepoli investendoli di una grande responsabilità, che è oltre quella del momento di dare il sostentamento materiale alla folla: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Quello che accadrà da quel momento in poi è il segno di quanto gli apostoli, i discepoli, la Chiesa, tutti i battezzati, sono chiamati a fare: dare alle folle di ogni tempo il sostegno alla loro fame e sete di senso, di verità, non dimenticando mai anche i bisogni materiali per il rispetto della dignità della persona.

       Il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci è segno dell’Eucaristia come viatico, ma anche segno della responsabilità di ogni credente di fare a tutti “la carità della verità” (Ef 4, 5), cioè prendersi cura del prossimo dando un servizio attento al bisogno “integrale” della persona.

       Il battezzato, nella diversità dei carismi e ministeri, ha l’obbligo morale di dare Cristo al mondo. Questo servizio è possibile se si alimenta quotidianamente di Cristo, con la Parola e i Sacramenti, in particolare con l’Eucaristia. Dare Cristo al mondo significa servirlo nel prossimo dando risposta ai suoi bisogni e alla sua ricerca di senso e di verità.

       Questa missione è il senso dell’Eucaristia, che ci inserisce nella comunione con Cristo e con i fratelli. È espressa nel “Ite Missa est”, tradotta impropriamente con “la messa è finita”: la celebrazione si conclude nei riti e continua nella vita quotidiana con il servizio di “carità nella verità” da offrire ad ogni persona.

       È il senso dell’espressione di Gesù: «Voi stessi date loro da mangiare»; la responsabilità di dare ciò che abbiamo ricevuto: Cristo stesso! L’Eucaristia non va ridotta ad un rito; essa è viatico, sostegno per la nostra vita ed anche fonte di grazia per l’annuncio e la testimonianza della fede.

       L’Eucaristia ci unisce a Cristo, ci inserisce in Lui e niente e nessuno ci può separare da Lui: «Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 38-39).

       Solo noi stessi, con il nostro peccato, con la nostra libera volontà possiamo separarci da Cristo. Solo noi abbiamo la possibilità di rompere il legame d’amore con Dio in Cristo Gesù, decidendo di non vivere nel suo amore, di non camminare secondo i suoi insegnamenti, non operando nella carità e nella verità: questo solo ci separerà da Cristo, la nostra libertà!

       Accostiamoci al cibo spirituale, alla presenza reale di Cristo e impegniamoci a vivere “la carità della verità” verso il prossimo, annunciando il Vangelo con un servizio integrale alla persona.

      

“Signore Gesù,

presente in mezzo a noi

nel Sacramento dell’Eucaristia,

fa di noi servi della tua Parola,

e testimoni del tuo Amore.

 

Conservaci nel tuo amore,

donaci il tuo Spirito

per amare e servire il nostro prossimo.

 

Fa di noi la tua Eucaristia vivente,

capaci di fare a tutti “la carità della verità”,

annunciando la tua Parola,

facendoci prossimi a tutti,

capaci di ascoltare i bisogni

e le attese del prossimo.

Amen!”

XVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“Cercatori di tesoro e di perla preziosa, operando con cuore docile e puro.”


 

(1Re 3,5.7-12; Sal 118; Rm 8,28-30; Mt 13,44-52)

 

       Parlare di “Regno di Dio” nel contesto sociale in cui stiamo vivendo, in cui il dibattito politico è acceso tra populisti e sovranisti, tra chi rivendica il potere nazionale liberato dall’egemonia dell’Europa, può essere totalmente frainteso o, addirittura, manipolato a favore di una corrente o di un’altra.

       La categoria “Regno di Dio” non ha nulla a che vedere con la nostra concezione di Regno, Nazione, Sovranità monarchica o popolare. Nella Bibbia, a partire dall’AT, il termine “Regno” indica l’azione potente di Dio e non un territorio o una moltitudine di persone su cui regnare, ma neanche va inteso come una realtà celeste opposta alla terra.

La categoria “Regno di Dio” indica l’intervento potente di Dio nel mondo e nella storia umana, entrando in relazione con la coscienza personale, invitandola ad accogliere la sua proposta di vita e condividendola in un cammino di comunione, formando la Chiesa.

       Le parabole del Regno in Mt 13, 44-52 evidenziano questa proposta libera e coinvolgente da parte di Dio, che interpella la libertà di scelta del soggetto il quale, nello stesso tempo, ne resta totalmente preso e coinvolto.

       «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra».

       Il Regno è presentato come qualcosa di grande valore (tesoro, perla preziosa), che non produce avidità ed egoismo, ma genera “gioia” e spinge a lasciare i propri “averi” per acquistarlo: è una risposta libera e coinvolgente della coscienza personale, che viene interpellata, stimolata, catturata, coinvolta, per cui tutto diventa secondario e relativo al “Regno”, presentato come qualcosa di bello, sublime, eccelso al cui confronto tutto perde di valore.

       Il Regno di Dio lascia liberi anche dopo averlo scelto perché non si impone con regole ed imposizioni, ma orienta alla pienezza e alla bellezza che lo caratterizzano.

       Il Regno di Dio è una proposta di valore e di pienezza che spinge alla radicalità della scelta nella libertà personale, perché appaga ogni ricerca di senso ed ogni bisogno di amore e di felicità.

       Sebbene interpella la coscienza personale, non è una esperienza individuale, bensì comunitaria: «il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci». La proposta è per tutti e, una volta accolta, inserisce in una comunità: la Chiesa.

       Accogliere il Regno di Dio produce separazione da tutto quello che è contrario, opposto ad esso, per cui comporta fare scelte radicali che separano dal “mondo”, ma non “escludono” da esso.

       La Chiesa non potrà mai essere conforme al mondo, ma neanche in opposizione. La radicalità del Regno di Dio pone la Chiesa distante dal mondo, perché non è una realtà terrena essendo di Dio, ma inserita nel contesto terreno per i suoi membri, che vivono nel mondo ma sempre proiettati verso la destinazione finale: la partecipazione alla Gloria di Dio.

       San Paolo ci aiuta a comprendere questo concetto usando, nel brano di Romani, i termini di “predestinati”, “giustificati”, “glorificati”: «Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati» (Rm 8, 29-30).

Il cristiano, vivendo la sua “conformità” a Cristo, divenendo così “figlio nel Figlio”, partecipa alla sua Gloria già da questa vita terrena, vivendo nella sua Grazia, lontano dal peccato, seguendo i suoi insegnamenti, con il sostengo alla sua debolezza per l’azione in lui dello Spirito Santo.

       Il cristiano, che si rivolge al Padre con la preghiera insegnata da Cristo, domanda l’avvento del suo Regno e, di fatto, impegna sé stesso a renderlo visibile nella sua vita e nella relazione di comunione con la Chiesa e nella Chiesa.

       La Chiesa è, dunque, inserita nel contesto terreno, ma non può assoggettarsi alla secolarizzazione, perché essa è sempre protesa verso la meta finale della Gloria di Dio. Essa vive e interpreta la storia alla luce della Verità di Dio, non può “conformarsi alla mentalità del secolo, ma rinnova sé stessa nel continuo ascolto dello Spirito, per discernere la volontà di Dio, scegliendo ciò che è bene secondo Dio” (cfr Rm 12).

       La preghiera di Salomone è ciò che, ogni singolo cristiano e la Chiesa intera, chiede in dono da Dio per accogliere, attuare e rendere presente il Regno di Dio: “un cuore docile”, “il discernimento nel giudicare”.

 

 

“Signore Dio,

Padre misericordioso e fedele,

tu ci chiami ad accogliere e a rendere presente

il tuo Regno di amore e di pace.

 

Donaci un cuore docile,

per ascoltare il tuo Spirito,

che ci aiuti a comprendere il bene e ad attuarlo;

che ci sostenga nella nostra debolezza;

che ci illumini nelle nostre scelte.

 

Ci hai costituiti come tuo popolo santo,

guidati dalla luce della tua Parola,

sorretti dalla grazia dei tuoi Sacramenti.

 

Fa che sappiamo vivere nella vera comunione,

perché la tua Chiesa sia per il mondo,

Madre e Maestra,

capace di indicare la Via;

accogliere con dolcezza;

insegnare con autorità;

correggere con mitezza e misericordia.

 

Ogni battezzato,

esprima con gioia la sua appartenenza a Te;

viva la sequela con determinazione e umiltà;

operi sempre in verità e carità, guidato dal tuo Spirito,

con “cuore docile”, capace di discernere sempre il bene.

Amen!”

XVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“Essere grano o zizzania: la scelta fondamentale di coscienza”


 

(Sap 12,13.16-19; Sal 85; Rm 8,26-27; Mt 13,24-43)

 

          Quante volte di fronte alla sofferenza, al male, alle guerre, alla violenza ci siamo chiesti: “perché Dio permette tutto questo?”

       La parabola del grano e della zizzania riportata dall’Evangelista Matteo dà la risposta al male del mondo ed indica lo stile di vita del credente.

           L’umanità, nella sua libertà e responsabilità, sceglie di operare nel bene o nel male, di seguire e di appartenere a Dio o al Maligno.

       Per chi crede, Dio indica la via del bene da seguire mediante la sua Parola; è cosciente che il Male esiste e che si oppone a Dio. Comprende che deve impegnarsi nel conservarsi nella fedeltà alla volontà di Dio e lottare per fuggire la tentazione e la seduzione del male.

          Chi non crede ha comunque la consapevolezza di poter operare bene o male; impara a distinguere il vero bene da ciò che è egoismo e a valutare situazioni, azioni, parole come male perché non giovano al bene comune, ma seguono la logica dell’interesse e del piacere personale a scapito di quello del prossimo e della collettività.

         Se il male prende il sopravvento nelle vicende umane non è responsabilità di Dio, ma dell’umanità e in particolare del singolo, nelle scelte quotidiane che compie e nell’orientamento che dà alla sua esistenza.

        “Essere grano o zizzania” è questione di scelta fondamentale di coscienza, che si ripercuote nei piccoli e grandi momenti di ogni giorno. Ogni persona, in ogni singolo momento della propria vita, ha davanti a sé la scelta del bene e del male e da essa dipende tutto il bene e il male che è nel mondo, perché si ripercuote comunque sulla vita di tutta l’umanità. Purtroppo, non sempre siamo consapevoli di questa realtà, illudendoci che le personali decisioni abbiano una ricaduta solo su noi stessi, in nome della nostra libertà di scelta. Dimentichiamo che non viviamo da soli in questo mondo, pertanto ogni singola scelta, direttamente o indirettamente, ha una risonanza sull’intera società.

        Il cristiano deve sentire maggiormente la responsabilità delle scelte che compie proprio per la fede che professa, sapendo che è chiamato da Dio a costruire il suo Regno, a testimoniare la volontà di Dio, ad essere “lievito” per il mondo.

       La parabola del grano e della zizzania è un chiaro invito ad assumere in toto la responsabilità di operare nel bene e di evitare il male. Il cristiano non si deve “preoccupare o scandalizzare” del male presente nella società, ma “occupare” ad operare nel bene affinché esso sia compreso e condiviso dal prossimo.

       Quello che deve maggiormente preoccupare il credente non è se e come il male opera, ma discernere con sempre maggiore attenzione le situazioni della vita per scegliere ed operare il bene.

      «Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 13, 41-42).

      Il discernimento continuo del credente è necessario per evitare di essere di scandalo per i “piccoli nella fede” e per evitare ogni “iniquità” e meschinità, operando sempre in “verità e carità”.

      Dobbiamo essere consapevoli che la società odierna non è più cristiana, pertanto ha bisogno di testimoni ed operatori di bene, che vivono gli insegnamenti evangelici; che ascoltino e attuino la Parola di Dio; che operino con coscienza retta e formata, sapendo discernere le situazioni scegliendo sempre il massimo bene possibile da compiere. La società non ha bisogno di difensori della fede, ma di testimoni credibili ed autentici, anche perché è una società di fatto indifferente alla fede, in cui si vive una religiosità intesa sempre più come qualcosa di privato ed intimistico.

     Oggi credere richiede maggiore impegno nell’annunciare il Vangelo, consapevoli di essere in un tempo di neo-paganesimo e di neo-gnosticismo, come più volte hanno detto Papa Benedetto XVI e Papa Francesco. Ogni battezzato, chiamato a costruire il Regno di Dio, ha la responsabilità di evangelizzare con la vita, perché il Cristo sia conosciuto e la sua Parola accolta e seguita.

       San Paolo ci ricorda che non siamo soli, ma abbiamo ricevuto lo Spirito Santo, che illumina e guida nelle scelte e sostiene la nostra fede. Il libro della Sapienza ci sprona a confidare nell’amore di Dio: «Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere. Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento» (Sap 12, 18-19).

       A ciascuno la scelta di essere “grano” o “zizzania”!

 

“Signore Gesù,

Tu che sei Via, Verità e Vita,

ascolta la nostra preghiera

che presentiamo a te,

consapevoli della nostra debolezza,

ma desiderosi di scegliere e compiere il Bene.

 

Vogliamo essere “grano” nel mondo,

che opera nella verità e carità,

con giustizia ed onesta.

 

Aiutaci con la tua grazia,

perché non ci lasciamo

sopraffare dalle lusinghe del piacere,

ammaliare dalla bramosia del potere

e corrompere dall’effimero fascino della ricchezza.

 

Sostienici con il tuo Spirito,

perché possiamo essere “sale, luce, lievito”

per la nostra società,

perché il Bene vinca sul Male.

 

Fa di noi testimoni autentici e credibili

affinché le nostre opere

proclamino la Tua Signoria di amore e di pace,

e ogni cuore sia consolato e guidato

per compiere il bene per sé e per il prossimo.

Amen!”

XV Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“La Parola di Dio agisce in noi, ma non senza di noi”


 

(Is 55,10-11; Sal 64; Rm 8,18-23; Mt 13,1-23)

 

        La parabola del seminatore permette di fare una profonda introspezione per verificare il fondamento della fede che si vive.

        L’invito è rivolto a comprendere come accogliamo e facciamo fruttificare la Parola di Dio in noi.

       La domanda che più è risuonata dentro, dopo la lettura meditata della Parola, è stata: «La mia vita è guidata dalla Parola di Dio?». Questa domanda trova ragione nel passo di Isaia, in cui il Signore dice: «[la mia parola] non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55, 11).

        Quali sono gli effetti della Parola di Dio in me, nelle relazioni che vivo, nella routine quotidiana?

        È difficile capirlo! Occorre fare un profondo lavoro di introspezione per comprendere le fondamenta della propria esistenza.

      Ulteriore spunto di meditazione e approfondimento della Parola di questa domenica l’ho trovato in un articolo-intervista ad Aisha Silva Romano sul sito “La Luce”, in cui lei presenta la sua conversione all’Islam.        Lungi dal voler commentare e giudicare lei ed il contenuto dell’articolo, ma il racconto della sua esperienza è stato stimolo di riflessione facendomi interrogare sulla fede cristiana e sulla testimonianza dei credenti. Riporto i passi che hanno interpellato la mia coscienza di cristiano.

      Silvia Romano, nata e cresciuta in Italia, operatrice volontaria con un’associazione umanitaria, raccontando la sua vita prima della sua conversione, presenta chiaramente la realtà culturale della nostra Italia, in cui la fede cristiana non incide più sul pensiero e sulla morale dei cittadini.

      Afferma: «Prima di essere rapita ero completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente […] Mi ponevo queste domande (“esistenziali” n.d.r.) rarissime volte, solo quando – appunto – mi confrontavo con i grandi mali del mondo. Nel resto della mia vita ero indifferente, vivevo inseguendo i miei desideri, i miei sogni e i miei piaceri. […] Per me il giusto, prima, era semplicemente fare ciò che mi faceva sentire bene; non avevo un criterio diverso relativamente a ciò che fosse giusto e sbagliato; il bene per me corrispondeva a ciò che mi faceva sentire bene. In realtà ora capisco che mi illudevo mi facesse stare bene»[1].

      Queste parole mi hanno fatto domandare: “Professare e praticare la fede cristiana come incide sul mio modo di pensare?”; “La Parola di Dio, che leggo, medito e prego, è guida per la mia vita?”; “Le persone che incontro, a partire dalla mia famiglia, riconoscono che tutto di me è in funzione degli insegnamenti evangelici”.

      Sicuramente la Parola di Dio ha efficacia in sé stessa, ma ogni credente è un testimone della sua azione rigenerante e rinnovatrice. Ogni credente è esempio vivente che è possibile attuare ciò che Dio insegna. La Parola di Dio agisce in noi per la sua potenza ed efficacia, ma non senza di noi, senza l’accoglienza da parte nostra. Esige da noi disponibilità e accoglienza.

     Nella sua onnipotenza, Dio non opera senza di noi, ma agisce mediante l’umano, attraverso ogni persona che ascolta e mette in pratica i suoi insegnamenti.

      La parabola del seminatore ci interpella sulla nostra testimonianza e sull’impegno di trasmettere i valori evangelici. Pone interrogativi chiari e diretti al nostro essere credenti, in merito a quanto conosciamo la Parola di Dio; quale accoglienza trova nel nostro cuore; se le permettiamo di agire in noi, cambiando quello che non è conforme e degno davanti a Dio.

    In ogni celebrazione dell’Eucaristia viene proclamata la Parola di Dio ed ogni domenica viene commentata e attualizzata nell’omelia. Nell’itinerario catechetico la Parola è fondamento di ogni incontro di catechesi. Se sono in calo i matrimoni celebrati in Chiesa, la richiesta del Battesimo e della Prima comunione sembrano ancora essere richiesti per la maggioranza dei bambini e ragazzi.

     Tutto questo impegno, tutta l’azione pastorale della Chiesa, però non si perde nel tempo adolescenziale, facendo riscontrare un disinteresse nei giovani del discorso di fede.

    Possiamo dire che è tutta responsabilità loro o della società? Possiamo ritenerci tranquilli e sicuri di aver fatto di tutto perché la fede sia conosciuta e vissuta da ogni persona?

   La parabola del seminatore presenta i diversi terreni che ricevono il seme della parola. Sicuramente ogni persona ha la personale responsabilità di fronte a Dio, ma non dimentichiamo la corresponsabilità come credenti e comunità di fede di educare e testimoniare la fede.

     La cultura, la società, il mondo è costituito anche da noi credenti e come tali, per la fede cristiana che professiamo, siamo stati costituiti da Cristo “sale e luce”, “lievito che deve fermentare la massa”.

     Non possiamo essere tranquilli in coscienza pensando di essere buoni cristiani per il solo fatto di pregare e vivere i sacramenti, ascoltare la Parola e cercare di comportarci nel miglior modo possibile. Dobbiamo sentire la responsabilità di aiutare il prossimo a conoscere e comprendere la Parola di Dio, perché la possa accogliere e far fruttificare nella sua vita.

    «Avevo anche letto alcuni versi della Bibbia e appreso i punti in comune del Cristianesimo e dell’Islam. In definitiva, il Corano mi era parso un testo sacro con dei principi chiari che guidavano verso il bene» queste parole della signorina Romano, senza entrare nel merito della differenza tra Bibbia e Corano, ci devono far comprendere quanto è urgente rinnovare il nostro impegno di credenti. Lei è una dei tanti giovani della nostra Italia, che ancora vanta di essere cattolica nella tradizione, ma di fatto non conosce la fede cristiana.

    Possiamo dire che come credenti conosciamo bene la Bibbia? Non certamente a memoria, ma almeno in modo generale sapendo indicare quali sono i capisaldi della nostra fede?

    Come possiamo essere soddisfatti delle espressioni di pietà popolare, quanto sappiamo che le coscienze ignorano i fondamenti della fede? Tutta la devozione popolare in cosa si traduce nell’impegno quotidiano?

    Le numerose celebrazioni eucaristiche; le catechesi in vista dei sacramenti, anche se di fatto solo per la Prima Comunione; le devozioni e feste in onore dei Santi Patroni, che caratterizzano le comunità locali, perché poco incidono sul nostro tessuto sociale? Perché riscontriamo un calo di frequenza alla Santa Messa?

    Domande che richiedono una riflessione di ciascun credente e di ogni piccola comunità di fede perché la Parola di Dio non cada invano, ma ci trovi attenti e pronti a cooperare per portare frutto di conversione personale e di testimonianza credibile.

 

O Dio, che mostri agli erranti la luce della tua verità,

perché possano tornare sulla retta via,

concedi a tutti coloro che si professano cristiani

di respingere ciò che è contrario a questo nome

e di seguire ciò che gli è conforme.

 

Accresci in noi, o Padre, con la potenza del tuo Spirito

la disponibilità ad accogliere il germe della tua parola,

che continui a seminare nei solchi dell’umanità,

perché fruttifichi in opere di giustizia e di pace

e riveli al mondo la beata speranza del tuo regno.

 (Collette della XV domenica del T. O.)

 

 

[1] https://www.laluce.news/2020/07/06/aisha-silvia-romano-si-racconta-per-la-prima-volta-mi-son-chiesta-perche-a-me-e-ho-trovato-dio/

XIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“Libertà dell’amore e libertà della Legge”


 

(Zc 9,9-10; Sal 144; Rm 8,9.11-13; Mt 11,25-30)

 

       Qualche anno fa, esattamente 18 anni or sono, ricordo di aver letto un libro in pochissimo tempo, forse catturato dall’interesse della storia di vita presentata o dallo stile redazionale. Sta di fatto che, nonostante sono passati anni, ricordo benissimo ciò che mi ha lasciato dentro: la consapevolezza che per incontrare Dio occorre farsi piccoli!

       Il libro in questione è la storia personale della conversione di Leonardo Mondadori[1]. Leggendo la sua storia di conversione ho ringraziato Dio per il suo amore, che non irrompe nella nostra vita con prepotenza e forza, ma invade tutto l’essere con delicatezza e dolcezza per poi esplodere in una esuberante voglia di gridare al mondo l’esperienza vissuta e l’incontro vitale che sconvolge tutta l’esistenza.

       Le parole dell’inno di benedizione, che Gesù eleva e che è riportato nel brano evangelico di Matteo, presentano la condizione per accogliere Dio e la sua Parola, cioè l’umiltà e la disponibilità di cuore, come quella dei piccoli, che si affidano e si lasciano condurre ed educare dai genitori: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11, 25).

       L’incapacità e impossibilità dei sapienti e degli intelligenti di conoscere Dio e la sua rivelazione, non è una punizione o una esclusione decisa da Dio, bensì la conseguenza del loro stile di vita. I “sapienti”, intesi come coloro che hanno la pretesa di sapere come vanno le cose, e gli “intelligenti”, coloro che di fatto dirigono le cose a loro piacimento e volontà, si negano ciò che non possono possedere chiudendosi ad ogni relazione d’amore con l’altro. Non è Dio a escluderli dal suo amore, ma loro stessi si tengono a distanza per l’egoismo che alberga nel loro cuore.

       I piccoli del vangelo, paragonati ai bambini, sono coloro che non hanno la pretesa di controllare e assoggettare tutto, ma si lasciano condurre per mano affidandosi a chi li ama.

       Dio si rivela a chi si fa piccolo perché Egli non è oggetto della nostra intelligenza, ma principio e fine del nostro amore. Dio bussa alla porta del nostro cuore per entrare in relazione con noi e solo quando gli permettiamo di entrare, riusciamo a comprenderlo in pienezza anche con la nostra mente.

       Il discorso di Gesù evidenzia che per conoscere Dio Padre occorre conoscere Lui, il Figlio. Dio, che nessuno ha mai visto, è rivelato dal Figlio unigenito, come recita il prologo di Giovanni.

       Nell’ascolto della sua Parola e nella sua sequela abbiamo la possibilità di conoscere il Padre e vivere la relazione filiale con Lui.

       «Venite a me» (Mt 11, 28) è l’invito rivolto da Gesù a seguirlo, a entrare nella relazione sponsale e filiale con Dio Padre, perché Egli è la Via, la Verità e la Vita che conduce al Regno e ci permette di partecipare alla sua eredità.

       Condizione per tutto questo?

       «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11, 29-30).

       Accogliere la sua Parola e porsi alla sua scuola: ecco le condizioni per vivere la fede.

       Il termine “giogo” può essere inaccettabile per la mentalità odierna, tutta impegnata ad evitare ogni condizione di limitazione della libertà personale. Il “giogo” indica imposizione, rigore, guida. Gesù lo usa per indicare la Legge divina, la sua Parola.

       A ben riflettere ogni libertà personale ha comunque una legge da seguire, se non altro quella della autodeterminazione di cosa fare, di quello che è piacere e valutato come buono ed utile per sé stessi.

       La legge è necessaria perché è disciplina, canalizza le forze per raggiungere l’obiettivo prefisso, tutela il valore da raggiungere e indica la via per viverlo.

       L’immagine del giogo richiama la durezza e la fatica a cui i buoi sono sottoposti. Esso grava sull’animale e lo costringe a fare quello che il padrone vuole.

       Sebbene l’immagine richiama fatica e imposizione, Gesù afferma che il suo giogo è dolce e il suo peso è leggero. Perché?

       La Legge di Dio non è imposizione; non rende schiavi, ma libera perché è una Via di amore. Ogni legge, svuotata del valore che vuole salvaguardare e sancire, stimola la trasgressione perché interpretata come limitazione e imposizione.

       La legge divina, la legge dell’amore, non è un peso perché è compresa come possibilità per vivere e conservarsi nella relazione d’amore con Dio. La sua Legge ci insegna una cosa fondamentale, da non dimenticare mai: Lui ci ha amati per primo e non per merito nostro, ma per dono suo! In questa prospettiva si comprende il senso dell’affermazione di Gesù.

       Il suo carico è leggero perché permette la realizzazione di sé nella affermazione della libertà individuale, che non è fare ciò che si vuole, ma operare per essere quello che si è, persone e figli di Dio.

       La Legge di Dio non limita la libertà, anzi la realizza perché permette alla persona di realizzarsi per quello che è e vivere la reciprocità e cooperazione con le libertà altrui, senza ostacolarle o limitarle.

       Per questo occorre “imitare” Gesù, “imparare” da Gesù, “mite ed umile di cuore”. La mitezza è la qualità del Signore, venuto per servire e dare la sua vita (Mc 10, 45). L’umiltà del cuore è la qualità fondamentale di Dio, perché l’amore è umile (Fil 2, 5-11; 1Gv 4).

       Dio non solo ci ha amato per primo, ma non ci lascia soli nel cammino di sequela a portare il “giogo” della Legge. Ci ha dato il suo Amore, lo Spirito Santo, che abita in noi, come dice San Paolo nel brano di Romani.

       Consapevole della nostra fragilità ed incostanza, della nostra durezza di cuore e di cervice, ci ha donato il suo Spirito per sostenerci e guidarci nel cammino.

       «Voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi» (Rm 8, 9).

       Dobbiamo essere consapevoli che la vita cristiana è una vita secondo lo Spirito, che consiste nel mettere in pratica la Parola di Dio.

       Mettere in partica la Parola di Dio ci renderà liberi, perché è “legge di libertà”, come ci insegna l’apostolo Giacomo (Gc 1, 22-25; Gc 2,12).

       Mettere in pratica la Parola non è semplice, occorre meditarla e comprenderla; non consiste nel citarla al momento opportuno o ostentare di conoscerla, bensì significa averla come regola di vita, che scruta le profondità del proprio essere e mette a nudo ciò che siamo per indicarci la via migliore per realizzare noi stessi.

       La Parola di Dio, legge di libertà, ci permette di raggiungere la mitezza e l’umiltà del cuore permettendo di conoscerci nel profondo e comprendere di essere amati da Dio, per vivere nel suo amore ogni cosa ed ogni relazione.

       «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11, 28).

       Essere “stanchi ed oppressi” credo sia la condizione comune ad ogni persona, sebbene può essere dovuta a tante cause e condizioni, ma abbiamo in Cristo colui che pone ristoro al nostro animo, consolazione al nostro cuore.

       Il ristoro che Cristo dona è il suo amore e il suo essere Via che ci permette di camminare nella vera gioia e nella pace. Egli ci dà conforto e forza perché è la Verità che libera (Gv 8, 32).

 

“Signore Gesù,

tu ci inviti a seguirti,

a prendere il tuo giogo di amore su di noi.

 

Tu sei la Via da seguire,

la Verità da amare,

la Vita da vivere.

 

Vogliamo imparare da te,

che sei mite ed umile di cuore,

per vivere in comunione con Te e con il Padre.

 

Ogni giorno, però, facciamo i conti con la nostra fragilità.

Ci ritroviamo spesso a volere il bene,ma a compiere il male.

L’orgoglio e la presunzione caratterizza la vita quotidiana

e ci ritroviamo a doverne pagare le conseguenze.

 

Ti chiediamo di accrescere in noi la fede,

di donarci il tuo Spirito

e di perdonarci per la durezza del nostro cuore.

 

Rendici docili nell’ascolto della tua Parola,

per saperla mettere in pratica

lasciando che essa ci scruti nel profondo

e ci guidi nel cammino di vera conversione

del cuore e della mente.

 

Rendici veri discepoli,

liberi e fedeli,

capaci di mettere in pratica i tuoi insegnamenti

e non soltanto ascoltatori superficiali della Parola.

 

Rendici veri operatori di carità

nella attenta ricerca di ciò che edifica

e impegnati a costruire il bene

nella reciprocità di coscienze,

attenti a seguire Te,

Signore e Maestro,

Via, Verità e Vita.

Amen!”

 

[1] L. Mondadori – V. Messori, Conversione. Una storia personale, Mondadori, Milano 20028.


Passa alla modalità desktopPassa alla modalità mobile