Privacy

I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi. Utilizzando tali servizi accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra Clicca qui per ulteriori informazioni




La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
  • Occhi



×

Errore

Strange, but missing GJFields library for /home/utxxpkem/public_html/plugins/system/notificationary/HelperClasses/GJFieldsChecker.php
The library should be installed together with the extension... Anyway, reinstall it: GJFields

XIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“La croce come obbedienza all’amore”


 

(2Re 4,8-11.14-16; Sal 88; Rm 6,3-4.8-11; Mt 10,37-42)

 

       Chi non ha mai sentito questa espressione: “Cosa ho fatto di male per meritare questo da Dio?”. Emerge una idea di Dio tiranno, vendicatore o almeno che gode nel vedere gli uomini soffrire.

       Certamente non è questo il Dio cristiano! Egli non è di vendetta, né di condanna, ma di misericordia e di amore. Nell’Antico Testamento, molte volte letto in modo sbagliato, Dio è sempre di misericordia e di giustizia, anche quando viene presentato come giudice che punisce, non è mai per la distruzione dell’uomo. Prima del castigo, esorta alla conversione e indica il cammino da compiere. Solo di fronte alla caparbietà e durezza di cuore dell’uomo, Dio punisce per richiamarlo alla verità e alla fedeltà all’alleanza.

       Dio ci ha chiamati alla verità e all’amore. L’alleanza che Dio ha fatto e definitivamente sancito nell’offerta sacrificale del Figlio, è di amore e fedeltà. Dio non verrà mai meno a questa alleanza, altrimenti contraddirebbe sé stesso.

       L’alleanza nel sangue di Cristo, nella sua croce, è eterna e definitiva. Nonostante la miseria e fragilità, l’umanità può vivere nell’alleanza per il “Si definitivo in Cristo”, per la sua “obbedienza” nella quale tutti noi siamo inseriti per la fede.

       L’espressione: «chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10, 38) non deve essere interpretata come una chiamata alla sofferenza. Prendere la propria croce significa vivere nell’obbedienza di Cristo e vivere la vita da credenti, attuando nella routine della esistenza e nelle situazioni concrete il Vangelo.

       Prendere la propria croce è dire il proprio “Si” a Dio, non con opere straordinarie o con sofferenze cruente, ma essendo sé stessi senza mai dimenticare di essere figli suoi, quindi vivendo nella verità e nella carità.

       Da questo comprendiamo il seguito del discorso di Gesù nella pericope evangelica: «Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà» (Mt 10, 38). Chi pensa di vivere la propria vita in modo egocentrico, cercando solo il proprio interesse e la personale affermazione, perderà di fatto sé stesso, perché non avrà vissuto nella relazione di fede e l’essere figlio di Dio.

       Ovviamente questo discorso è valido se la persona crede e vuole vivere la fede. La relazione con Dio non è, quindi, qualcosa di marginale o legato alla pratica di culto, ma essenziale e costitutiva della propria vita, determinando ogni cosa della sua esistenza.

       Il Battesimo che abbiamo ricevuto, ci ricorda San Paolo nella Lettera ai Romani, ci ha inseriti in Cristo e, perciò, viventi in Lui.

       Chiamarsi cristiani ed esserlo implica centrare la propria esistenza in Lui, rendere tutto relativo a Lui, valutare tutto in funzione di Lui.

       La vita quotidiana, nella sua specificità personale e nella differenza di ruolo e responsabilità nella società, trova nella fede non un ostacolo, ma una diversa angolatura e prospettiva di valutazione.

       Tutto conta, tutto serve, tutto è lecito, ma se non è contro l’appartenere a Cristo, se non conduce alla separazione da Lui perché opposto al suo insegnamento.

       In questa prospettiva comprendiamo il fondamento della morale cristiana e perché è in contrasto con alcune correnti di pensiero.

       La morale cristiana è fondata su una persona, Cristo, e indica la modalità della sequela. Non si basa sull’uomo, ma indica ciò che permette all’uomo di essere veramente umano, sé stesso!

       Il peccato non è “trasgressione della legge”, ma “tradimento dell’amore”, di cui la Legge indica la modalità per vivere in pienezza l’amore di Dio.

       L’espressione di San Paolo: «voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6, 11), indica la specificità del cristiano, che vive ogni cosa in riferimento a Dio, in Cristo. Amati e redenti da Cristo, non possiamo accontentarci di evitare di compiere il male, ma dobbiamo impegnarci a fare il massimo possibile che riusciamo a comprendere in ogni occasione di vita.

       “Vivere in Dio” è accettare la misura alta della “santità”, cioè di cercare e operare il bene, anche se questo possa voler dire rinunciare a sé stessi. Ecco cosa significa “prendere la croce ogni giorno” e “perdere la vita per Cristo”: vuol dire anteporre al proprio interesse e tornaconto il bene comune, a volte il bene per gli altri a scapito di quello personale.

       Significa vivere “l’agape” rinunciando “all’eros”, cioè vivere l’amore di donazione rinunciando all’amore per sé stessi.

       In questa prospettiva diventa chiara l’espressione di Gesù: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me» (Mt 10, 37). Gesù non dice di non amare i propri genitori, figli, sposi, amici, ma di amarli in Lui. In questo modo le relazioni umane non saranno minate da interessi e tornaconti, ma guidate dalla verità, giustizia e carità secondo l’insegnamento evangelico.

       Ogni giorno rinnoviamo davanti a Dio, nella preghiera, la volontà di camminare nella verità e operare nella carità. Le promesse battesimali, di vivere da figli di Dio, vanno realizzate nelle relazioni quotidiane e nella operatività responsabile di ciascuno.

       Consapevoli di questa alta vocazione che ci appartiene per la fede che professiamo, impegniamoci a “prendere ogni giorno la nostra croce”, fatta di obbedienza all’amore e di opere di agape, dando senso ad ogni momento della vita, sia bello che brutto, gioioso o triste, vivendolo come “Si a Dio” uniti al “Si di Cristo”.

       In questa logica lo slogan «I can» assume la corretta espressione: «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4, 13).

      

 

       

XII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“Appartenere a Dio ed essere testimoni dell’Amore”


 

(Ger 20,10-13; Sal 68; Rm 5,12-15; Mt 10,26-33)

 

       Essere cristiani implica essere testimoni! Tutti siamo consapevoli di questa responsabilità e nello stesso tempo sappiamo quanto sia difficile viverla. Tante volte, chi vuole vivere in pienezza la fede si trova a fare i conti con un profondo senso di disorientamento e disagio, perché professarsi credenti sembra essere fuori dalla realtà.

       Parlare di fede, affermare che si è credenti praticanti, che si ha una morale ispirata ai valori evangelici, che si è contro l’aborto e l’eutanasia, che si crede nel matrimonio unico ed indissolubile e tanto altro, pone in una condizione di minoranza e di esclusione dal sentire comune.

       La fede non ha più nessuna rilevanza sulla vita della società e la Chiesa ha sempre meno peso sulla formazione delle coscienze. In questo contesto culturale, in cui i valori sono sempre più soggettivi e mutevoli in base alle situazioni contingenti, il pensiero forte della fede diventa troppo oneroso da accettare.

       Questa situazione non deve spaventare o demotivare i cristiani, perché è di fatto la condizione di ogni tempo: essere credenti e testimoniare la fede significa vivere ed essere controcorrente al mondo.

       È l’esperienza del profeta Geremia, che si sente osteggiato anche dagli amici: «Sentivo la calunnia di molti […] Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta» (Ger 20, 10).

       È la condizione del salmista, servo di Dio che soffre proprio per la causa di Dio: «Per te io sopporto l’insulto e la vergogna mi copre la faccia; sono diventato un estraneo ai miei fratelli, uno straniero per i figli di mia madre. Perché mi divora lo zelo per la tua casa, gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me» (Sal 68).

       Per ciascun credente, che vive in pienezza la fede, la sorte non sarà mai diversa. Gesù, nel vangelo di Giovanni (15, 18-21), lo dice con chiarezza: «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra» (v. 20).

       Per essere veri credenti e testimoni credibili non bisogna soffermarsi a considerare le difficoltà o le reazioni delle persone che incontriamo, bensì crescere nella relazione con Cristo e fondare su Lui la nostra vita. Questo è il senso della pericope evangelica di Matteo (10, 26-33).

       Gesù sprona i discepoli ad essere imperterriti nella proclamazione del Vangelo, sicuri di essere nelle mani del Padre celeste e che tutto quello che potrà accadere loro non avverrà senza il suo consenso.

       L’invito ripetuto più volte, “Non abbiate paura”, è il leitmotiv del brano evangelico. Connota la virtù della fede: una fiducia nell’amore di Dio e nella sua protezione, che dà coraggio e fa considerare tutto relativo a Lui, anche la persecuzione e la morte fisica.

       Gesù ci invita a porre nel giusto posto le cose e ad avere una scala di valori da seguire ove tutto è derivante da Dio, che è il primo e assoluto valore che dà senso e speranza all’esistere.

       Proviamo a soffermarci su cosa è importante per noi. Riflettiamo con attenzione su qual è il bene primario nella nostra vita a cui tutto deve riferirsi.

       Se leggiamo con attenzione la nostra cultura occidentale, credo converremo nel riconoscere che “apparire” e “potere” sono due cardini su cui tutto ruota. La ricerca spasmodica di un corpo perfetto, che non deve essere segnato dal tempo, ma che deve mantenersi sempre giovane e in forza è il frutto del cardine ”apparire” a cui la società consumistica ci sta educando. “I can” è diventato il motto che guida ogni cosa e che regola la nostra vita, al punto che la libertà è sempre più legata al “poter fare” e non al “dover essere”.

       Il cristiano ha altri metri di valutazione e di comportamento. La vita ha valore in sé e in ogni condizione e possibilità. Essa non dipende dalla potenzialità e capacità: caratteristiche necessarie, ma secondarie. Essa, avendo valore in sé a prescindere dalle condizioni e possibilità, va spesa come dono ricevuto facendola fruttificare in una reciprocità di relazioni ove ognuno è dono per l’altro.

       L’espressione: «Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!» (Mt 10, 31), evidenzia che la nostra vita, in rapporto al resto del creato, ha un valore maggiore perché per noi Dio si è donato fino alla morte di croce. Questa verità della fede ci deve spronare ad una esistenza che vada oltre il mondo, che sia fondata non sulle cose effimere e passeggere, ma sul dono di grazia ricevuto non per merito bensì per amore.

       Da qui comprendiamo l’esigenza che Gesù dimostra verso chi decide di seguirlo, regolata dalla una sorta di legge del Taglione: «Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10, 32-33).

       I verbi “riconoscere” e “rinnegare” esprimono la profondità e l’essenza della relazione con il Cristo. Non rivelano il giudizio di Dio, perché questo lo decidiamo noi stessi in questa vita, nella quotidianità delle azioni e nella particolarità delle situazioni, fino a quelle estreme della persecuzione.

       Riconoscere e rinnegare esprimono, dunque, la profondità della relazione di fede che viviamo. Non basta dire “credo” o “Gesù è il Signore” e neanche pregare, invocare il suo nome per poter dire di riconoscerlo e non rinnegarlo. Occorre che questa relazione fondi, orienti e determini ogni istante del mio esistere, dalla più semplice e insignificante azione alla decisione importante della vita.

       Si tratta di “appartenere” a Dio! Questa realtà profonda e costitutiva della fede è in netto contrasto con la mentalità di questo mondo, con la cultura in cui viviamo. Appartenere a Dio è un concetto che va contro l’individualismo su cui fa leva la nostra società.

       Appartenere a Dio, non è un perdere la volontà decisionale e la libertà, ma indica l’identità del credente: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 15); «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio» (Gal 4, 4-7).

       Non è una appartenenza da “schiavi”, ma da “liberi” in virtù dell’amore da parte di Dio; non è una appartenenza da sudditi, ma da figli, per il dono di amore del Figlio.

       Rinnegare Gesù non è solo non conoscerlo davanti agli uomini, ma quanto di più nella propria coscienza quando anteponiamo a Dio i nostri interessi, ragionamenti, condizioni, posizioni e giudizi. Possiamo essere rinnegatori di Cristo pur confessando apertamente davanti agli uomini che lo amiamo e crediamo in Lui, ma poi avere il cuore indurito dal rancore, dal risentimento, dal giudizio temerario e/o spietato verso il prossimo.

       Si tratta di un rinnegamento edulcorato da belle pratiche, ma reale e insidioso perché radicato nella nostra coscienza, anche se nascosto dietro a giustificazioni che a volte sembrano trovare forza addirittura nella Parola di Dio. Questa, purtroppo, è la vera tentazione e la radice del peccato, che ci addormenta la coscienza e ci fa apparire giusti e santi davanti a Dio e agli uomini, non riconoscendo in noi l’ipocrisia e la meschinità.

       Se analizzando in verità la nostra coscienza, ci dovessimo riconoscere di essere nella condizione di aver rinnegato il Cristo, come Pietro, possiamo sempre contare sulla sua fedeltà e misericordia e ritornare a Lui con cuore contrito e pronto a riprendere il cammino vero di sequela.

       Non perdiamo mai la speranza in noi e fortifichiamo la nostra fede con un continuo esame di coscienza, per essere autentici testimoni di Cristo, riconoscendolo prima nel nostro essere conformando mente, cuore e volontà in Lui, e poi riconoscendolo davanti agli uomini con parole e gesti espressi in verità e carità.

 

 

        “Signore, tu ci hai donato la tua grazia,

        ci hai amato e perdonato quando ancora eravamo nel peccato.

        Non per i nostri meriti ma per il tuo infinito amore,

        ci chiami ad una relazione di amicizia e di fraternità con Te.

 

        Tu non ci lasci soli nella prova,

        ma ci vieni in soccorso con il tuo Spirito.

        Sostieni e rafforza la nostra fede,

        perché sappiamo essere autentici e credibili testimoni

        del tuo amore e della tua volontà.

 

        Perdona la nostra incostanza

        e la nostra codardia di fronte alle prove della vita.

        Perdonaci se non siamo stati capaci

        di amare e se abbiamo dubitato del tuo amore.

 

        Oggi, spronati ancora una volta dalla tua Parola,

        ti chiediamo di accrescere la nostra fede e fortificarci nel tuo amore

        per saper essere testimoni e farci prossimi

        ad ogni persona che poni sul nostro cammino.

 

        Donaci il tuo Spirito per saper:

        consolare chi è nella disperazione,

        confortare chi è nel dolore,

        correggere chi è nell’errore,

        consigliare chi è nel dubbio.

 

        Concedici soprattutto di essere rinnovati

        nel cuore, nella mente e nella volontà

        perché in ogni momento della nostra vita

        sappiamo riconoscerti e manifestare

        la nostra appartenenza a Te,

        Signore e Maestro della nostra vita.

        Amen!”

       

Solennità del Corpus Domini – Anno A

“Essere in Lui e Lui in noi”


 

(Dt 8,2-3.14-16; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-58)

      

       «[…] l’uomo non vive soltanto di pane» (Dt 8, 3).

       Durante tutto il tempo di “lookdown”, del confinamento nelle proprie case, tanti hanno pensato che sarebbero cambiate le cose, che la pandemia aveva risvegliato le coscienze e aiutato a far considerare la scala dei valori e la nostra società sarebbe tornata a vivere i giusti valori.

       Ripensando ai primi giorni della riapertura, abbiamo visto che tutto è tornato come sempre, forse anche peggio in determinate situazioni. Quali sono i valori su cui si basa la nostra società? Certamente l’economia e la libertà sono stati i punti su cui tante parole si sono dette.

       In una situazione di criticità economica in cui ci troviamo, certamente l’affermazione di Deuteronomio può sembrare fuori luogo e irrispettosa verso le esigenze di tante famiglie in gravi necessità di sopravvivenza.

       Eppure, se riflettiamo bene, è una affermazione quanto mai necessaria per leggere proprio il nostro tempo e la nostra società. Ancor di più è una affermazione che aiuta a riflettere anche sulla fede e la sua pratica.

       La solennità del Corpus Domini, istituita l'11 Agosto 1264 da Papa Urbano IV con la Bolla "Transiturus", non è certamente da considerarsi un doppione del Giovedì Santo, memoria dell’Istituzione dell’Eucaristia. Nella solennità odierna si intende porre l’attenzione sul legame tra l’Eucaristia e la Chiesa, tra il Corpo del Signore e il suo Corpo Mistico. La processione e l’adorazione eucaristica continuata, che normalmente si svolgono in questa solennità e ne sono le note peculiari, pongono l’accento sulla fede del popolo cristiano nell’Eucaristia e l’importanza che riveste nella vita della comunità cristiana.

       Nel Sacramento dell’Eucaristia la Chiesa trova la sorgente del suo esistere e della sua comunione con Cristo, ed ogni singolo credente la forza per essere testimone di Cristo, “lievito”, “luce e sale” per il mondo.

       Dal rapporto con l’Eucaristia, il credente comprende il senso dell’espressione del Deuteronomio: l’uomo non vive soltanto di pane. L’Eucaristia, pane eucaristico, alimenta e dà vigore a tutto il resto della persona che non è legato alle esigenze materiali.

       Nell’incontro con il Cristo nel sacramento dell’Eucaristia, il credente non solo corrobora la sua fede, ma è continuamente stimolato a cercare, comprendere ed attuare il bene secondo Dio, che è il bene libero da ogni soggettivismo ed egoismo.

       Ovviamente il bene secondo Dio non è contro l’uomo, ma spesso viene inteso contro la libertà individuale. Questa comprensione e visione di Dio come un dittatore, o comunque un limitatore della libertà personale, non aiuta certo a incontrarlo nel dono dell’Eucaristia. Un Dio che si dona, che si fa presenza interpella costantemente la coscienza del credente a conformarsi a questa logica di amore e di donazione. Questo è il senso profondo di “Comunione”, termine con cui chiamiamo comunemente l’Eucaristia.

       “Fare Comunione” con Dio esige vivere ed operare in comunione con il prossimo. Questo è il senso della pericope di San Paolo ai Corinti, che si conclude: «Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10, 17).

       Gesù stesso, nel spiegare il senso del cibarsi di Lui, afferma: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Gv 6, 56). “Essere in Lui e Lui in noi” è il mistero della comunione con Dio, l’essenza della fede cristiana e l’identità della Chiesa, della comunità dei credenti.

       Il credente si identifica non per la devozione, ma per la vita di comunione, per lo stile di unità con il quale si impegna a vivere. Non è scontato e semplice vivere da cristiani. Gesù ha indicato più volte quale è l’identità del vero cristiano e nell’ultima cena ha detto chiaramente qual è la modalità di vita del discepolo: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35).

       Celebrare ed accostarsi all’Eucaristia per il battezzato è il momento fondamentale, centrale e costitutivo della fede. Senza l’Eucaristia non c’è Chiesa e non c’è credente. Senza l’Eucaristia non si può vivere la fede cristiana, perché essa è la sorgente a cui attingere identità, operatività, forza, coraggio, consolazione e pace.

       Basta accostarsi al Sacramento per vivere la comunione con Dio? Certamente no! Occorre impegno di vita e profonda disposizione alla continua conversione e conformità a Cristo. I benefici vanno ricevuti con dignità di coscienza.

       La sequenza di questa solennità esprime questo concetto con queste parole: «Vanno i buoni, vanno gli empi; ma diversa ne è la sorte: vita o morte provoca. Vita ai buoni, morte agli empi: nella stessa comunione ben diverso è l’esito!».

       Il medesimo Sacramento può essere fonte di Salvezza o motivo di condanna, tutto per la personale condizione di coscienza con la quale ci accostiamo ad esso.

       L’Eucaristia, fonte di amore e di salvezza, interpella e impegna la coscienza personale ad un cammino serio e a un discernimento attento. Ecco perché la Chiesa raccomanda che ci si accosti al Sacramento dell’Eucaristia con coscienza retta e dopo aver confessato i peccati gravi.

       La solennità del Corpus Domini, come già ho detto, pone in luce il profondo legame tra Eucaristia e Chiesa. La Chiesa, comunità di credenti è chiamata ad essere “Eucaristia vivente nel mondo”, cioè a generare “comunione” attraverso la vita di ciascun credente.

       Ovviamente il primo livello di comunione è da realizzare “ad intra”, nella comunità di appartenenza: dalla famiglia alla parrocchia, dalla parrocchia alla Diocesi, dalla Diocesi alla Chiesa Universale.

       Il secondo livello di comunione da realizzare, non perché successivo ma piuttosto conseguente, è “ad extra”, nelle relazioni quotidiane, nella società. Il discepolo di Cristo, alimentato dall’Eucaristia, è chiamato ad essere nella società, per il mondo, esempio della novità di vita propria della sequela cristiana, che è l’amore caritatevole.

       Il cristiano si deve distinguere nella società per la capacità di vivere la carità, per lo stile di comunione e condivisione, che non vuol dire accettare tutto e giustificare tutto, ma affrontare tutto con la logica dell’amore di Dio, che condanna sempre l’errore e salva la persona; che cerca ogni possibile via per realizzare il bene operando sempre nella verità e nella giustizia.

       Celebrare la solennità del Corpus Domini, dunque, significa volersi impegnare a vivere la “comunione” con i tutti, a cercare sempre ciò che unisce ponendo rimedio a ciò che divide. Significa vivere relazioni in verità e in giustizia nella vera carità, che non cerca mai il proprio interesse e prestigio, ma edifica nella condivisione e nella reciprocità (vedi 1 Cor 13).

       Adorare il Signore presente nel Sacramento dell’Eucaristia e vivere la processione eucaristica, sono momenti che esprimono non solo la nostra fede in Cristo, vivo e presente realmente nelle specie eucaristiche, ma anche il nostro essere Chiesa, comunità di fedeli, Corpo Mistico di Cristo.

       Sostando in adorazione davanti al Signore Gesù Eucaristia facciamo verità in noi, verificando se siamo in comunione con le persone che conosciamo, se operiamo con impegno per avere relazioni di condivisione e di unità.

       Chiediamo al Signore di aiutarci a superare ogni divisione e discordia per essere degni del Sacramento che celebriamo e riceviamo.

       In ogni cappella delle Congregazioni e Istituti della Famiglia Paolina (10 in totale) è presente questa frase vicina al Tabernacolo:

        Non temete Io sono con voi.

        Di qui voglio Illuminare.

        Abbiate il dolore dei peccati

       Credo che esprima bene il significato della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia e della comunione con Lui e tra noi.

       Vi propongo, per la preghiera personale davanti al Santissimo Sacramento, quella scritta dal Beato Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina.

        Credo mio Dio, di essere innanzi a Te

        che mi guardi ed ascolti le mie preghiere.

        Tu sei tanto grande e tanto Santo: io ti adoro.

        Tu mi hai dato tutto: io ti ringrazio.

        Tu sei stato tanto offeso da me: io ti chiedo perdono con tutto il cuore.

        Tu sei tanto misericordioso: io ti domando tutte le grazie che vedi utili per me. Amen”

 

 

Solennità della Santissima Trinità – Anno A

“Dio uno e trino, amore e pace”


 

(Es 34,4-6.8-9; Dn 3,52-56; 2Cor 13,11-13; Gv 3,16-18)

 

       La solennità della Santissima Trinità fu introdotta nella liturgia cattolica nel 1334 da papa Giovanni XXII. È una celebrazione che ci invita a riflettere sulla fede che professiamo ogni domenica, a lodare e ringraziare il Dio che si è rivelato.

       Noi crediamo nel Dio uno e trino: Padre, Figlio e Spirito Santo. Cosa significa questo per ciascuno di noi? Siamo stati battezzati “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, ma conosciamo questo Mistero della nostra fede?

       Certamente non possiamo fare qui una lezione di teologia trinitaria, ma la liturgia di questa domenica ci guida a contemplare Dio aiutandoci a meditare su alcune sue caratteristiche.

       San Paolo, nella pericope della Seconda Corinti, presenta Dio come “il Dio dell’amore e della pace”. Non è, quindi, un Dio che si prende gioco degli uomini, un giudice terribile ed irascibile. Il Dio cristiano ama e dona pace! Lui è amore, come lo presenta l’apostolo Giovanni nella sua prima Lettera (1 Gv 4, 7-16). Credere in Lui comporta vivere nel suo amore e operare nell’amore.

       Il Dio cristiano è il Dio della pace, perché chiunque vive nel suo amore trova pace e vive nella pace. Si tratta di una condizione che è costitutiva per il cristiano maturo nella fede. Chiunque crede in Dio vive, opera e tesse relazione di pace.

       San Paolo esorta i Corinti e noi ad avere uno stile di vita che deriva dalla fede e dall’essere in comunione con il Dio Uno e Trino: “siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace” (2Cor 13, 11).

       “Essere gioiosi” è una condizione propria del cristiano perché la sua gioia deriva dal sapersi amato, perdonato e destinato alla Vita eterna con Dio.

       “Tendere alla perfezione” non è da intendersi immuni da sbagli e quindi superiori a tutto e tutti, ma vuol dire impegnarsi con responsabilità a vivere ed agire nella piena comunione con Dio. Come esseri umani non potremo mai essere perfetti, se non altro per il fatto che il nostro corpo è destinato alla morte, ma tendere alla perfezione significa lasciarsi abitare da Dio; seguire i suoi insegnamenti; agire nell’amore misericordioso di Dio. Di fatto è Lui che ci rende perfetti, ma non senza di noi e con noi. Non si sostituisce a noi e vuole che ci impegniamo ad operare con responsabilità e nella consapevolezza di essere suoi figli.

       “Fatevi coraggio a vicenda e abbiate gli stessi sentimenti”, questa è un’altra importante caratteristica dell’essere cristiani. Vivere in comunione, spronandoci reciprocamente nel bene. Avere gli stessi sentimenti gli uni gli altri non è impossibile, ma neanche naturale ed umano. Siamo piuttosto portati a giudicarci e condannarci, ma difficilmente riusciamo a vivere in piena e vera comunione di sentimenti, edificandoci reciprocamente.

       Essere cristiani, professare la fede nel Dio Uno e Trino, non è semplice, perché occorre impegno di responsabilità e continuo discernimento per conservarci nell’amore di Dio e nella sua pace.

       Non è una professione delle labbra, ma della vita, che si traduce nell’essere “radicati e fondati nell’amore” (Ef 3, 14-21).

       Nella pericope evangelica Gesù aiuta Nicodemo a comprendere cosa vuol dire credere in Dio e lo fa conducendolo a contemplare il suo vero volto, l’amore: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito […] non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.

      Credere significa aver riconosciuto e fatto esperienza della salvezza mediante il Cristo; significa averlo incontrato, come Nicodemo, nella notte buia ed essere rinati dall’alto, nel suo amore, dallo Spirito. Credere per il cristiano è vivere una relazione profonda con Dio; ascoltarlo e lasciarsi guidare dal suo Spirito; essere rinnovati interiormente, nella mente e nel cuore, per vivere con piena responsabilità ed impegno la quotidianità.

     “Vivete in pace” è ciò che più connota il credente nel Dio Uno e Trino, perché ha sperimentato la misericordia di Dio su di sé, ha fatto esperienza della Salvezza operata dal Padre attraverso il sacrificio del Figlio e vive rinnovato e guidato dall’azione dello Spirito. Il “perdono” cristiano è frutto della salvezza incontrata e il credente non può non viverlo se vuole conservarsi nella comunione con Dio e nella sua pace.

      Nessuna condanna per chi crede, ma salvezza e perdono (Gv 3, 18), ma questo comporta donare amore e perdono per conservarsi nell’amore di Dio.

     Professare la fede cristiana è impegnativo, perché Dio non ci vuole schiavi obbedienti e sottomessi, ma ci ha chiamati ad una relazione di amicizia e di responsabilità.

       Siamo chiamati alla comunione con Dio, costituiti figli nel Figlio, e ad impegnarci nella vita di tutti i giorni a rendere visibile la nostra adesione a Lui con opere di carità e di pace.

 

Sii benedetto Signore nostro Dio,

perché ci doni il tuo amore.

Sii benedetto Signore nostro Dio,

perché ti servi di noi

per rivelarti a chi ancora non ti conosce.

 

Sii benedetto Signore nostro Dio,

perché ci chiami a cooperare con te

nella quotidianità del nostro vivere.

 

Assistici con il tuo Spirito,

perché operiamo nella tua volontà,

con responsabilità e impegno,

sempre attenti a ciò che è bene

e porta pace.

 

Santificaci nel tuo amore,

e conservaci nella tua pace.

Amen!”


Passa alla modalità desktopPassa alla modalità mobile