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Solennità di Pentecoste – Anno A - 2020

“Vivere sotto la guida dello Spirito”


 

(At 2,1-11; Sal 103; 1Cor 12,3b-7.12-13; Gv 20,19-23)

 

       «Ricevete lo Spirito Santo.» (Gv 20, 22).

       Dio è con noi sempre! Gesù è l’Emmanuele, il Dio con noi! Dopo il suo sacrificio d’amore, ci ha donato il suo Spirito: lo Spirito Paraclito!

       «παρκλητος» in greco, «paraclitus» in latino, significa “chiamato presso”, qualcuno come assistente, avvocato.

       Dio è con noi e ci assiste, ci sostiene, ci guida, ci consiglia, ci protegge, ci consola, ci cura, ci ama!

       Gesù ci ha donato lo Spirito proprio perché conosce il cuore dell’umanità, debole e incostante, per cui ci ha donato la sua assistenza per vivere in fedeltà e costanza la nostra adesione alla sua volontà. È nella grazia dello Spirito Santo che noi possiamo pregare, operare, annunciare. È nell’assistenza dello Spirito che possiamo compiere il corretto discernimento e conservarci nella fedeltà al Padre.

       Nell’assistenza e nella grazia dello Spirito possiamo compiere quello che non è facile per la logica umana: perdonare, nella vera misericordia, che significa ridare a chi ci ha offeso la dignità perduta e il posto nel nostro cuore!

       Il cristiano che vuole vivere a pieno la propria fede deve essere consapevole che le sue opere devono essere compiute in comunione con Dio, nell’assistenza e guida dello Spirito Santo. Per vivere questo la preghiera è necessaria, perché essa ci pone nella piena disponibilità all’azione dello Spirito. Ovviamente occorre pregare bene, non semplicemente recitando formule, dicendo parole, ma disponendosi nell’umiltà a comprendere e attuare la volontà di Dio.

       Come posso sapere se la preghiera che vivo è autentica e offerta nella comunione con Dio?

       Dai frutti che essa produce in me e attorno a me!

       Innanzitutto la preghiera deve produrre “pace” e “comunione”: questi frutti non devono essere confusi con un sentimentalismo interiore in cui posso cadere convincendomi di vivere in pace e in comunione con Dio e con gli altri, ma sono veri atteggiamenti interiori che si traducono in gesti, parole, decisioni, prese di posizioni, in altre parole in un vita tutta orientata al bene comune.

       La preghiera autentica, sotto la guida dello Spirito, genera vita, cioè rende creature nuove perché produce un profondo cambiamento di mentalità, per cui l’essenziale della vita non è più legato alle cose del mondo, secondo la visione umana e materiale, ma a ciò che è gradito a Dio. Tutto di questa realtà terrena diventa relativo a Dio e valido per quanto utile a operare nella sua volontà a vantaggio di tutti. Tutte le cose del mondo sono utili, ma nulla di esse è indispensabile se non per operare nell’amore!

       La preghiera secondo lo Spirito edifica e non distrugge; corregge e non condanna; porta al servizio e non al comando; dispone al dialogo e non alla chiusura; perdona e non odia.

       «Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1Cor 12, 3b-7).

       Ogni battezzato ha un compito nel mondo e nella Chiesa. A ciascuno Dio ha affidato la missione di partecipare alla costruzione del suo Regno. Tutti i battezzati sono corresponsabili in questa comune chiamata alla santità, alla edificazione del Regno di Dio.

       Nella comune e personale responsabilità, i battezzati sono impegnati a operare per il “bene comune”: un valore quanto mai attuale ed importante per la nostra società che educa e incentiva l’interesse personale, puntando tutto sulla attuazione e realizzazione della libertà individuale.

       Parlare di “bene comune” è fondamentale, ma è comprensibile ed attuabile appieno nella dimensione della “carità”, perché essa dispone il cuore della persona a realizzare il proprio bene senza mai dimenticare il bene dell’altro, fino a saper rinunciare al proprio bene a vantaggio del bene altrui.

       Il “bene comune”, secondo San Paolo, nulla a che vedere con correnti politiche che si ispirano a questo valore, perché il “bene” per San Paolo, e quindi per ogni battezzato, è Dio, pertanto parlare di “bene comune” significa appunto permettere a tutti di vivere nel “bene”, cioè secondo Dio! Non è il bene a favore della persona, ma è il bene della persana, cioè il bene che permette alla persona di essere sé stessa e raggiungere la piena maturità e realizzazione interiore di sé.

       Operare per il “bene comune” per il cristiano significa realizzare sé stesso e operare perché ciascuno realizzi sé stesso attraverso azioni dirette o indirette, quindi favorendo e mai ostacolando l’altrui realizzazione.

       Lo Spirito Santo Paràclito ci aiuta proprio in questa opera di edificazione del “bene comune”, perché ci aiuta a discernere il vero bene qui ed ora; perché ci guida a valutare ogni cosa affinché tutto concorra al bene a vantaggio di tutti.

       Pentecoste è l’opposto della babele. Nell’azione dello Spirito non può esserci divisione e confusione. La Chiesa è unita per il dono dello Spirito; se esistono divisioni e litigi, separazioni e inimicizie, non stiamo vivendo nello Spirito!

       Riconoscendo che “il cammino di comunione e di pace”, secondo l’azione dello Spirito Santo in noi, è ancora lungo e faticoso, non scoraggiamoci! Pieghiamo le ginocchia, sia fisiche che quelle del nostro orgoglio, e disponiamoci ad accogliere il dono dello Spirito.

       Chiediamo il dono della “pace” e della “comunione”; di convertire la nostra mente ed il nostro cuore, perché in ogni momento della nostra giornata sappiamo scegliere sempre ciò edifica e ciò che è a vantaggio del “bene comune”.

 

Duccio Buoninsegna Coronamento della maesta La Pentecoste

Duccio di Buoninsegna, “La Pentecoste” (1308-1311), Coronamento della Maestà, Museo dell’Opera del Duomo di Siena

 

 

Solennità dell’Ascensione del Signore – Anno A - 2020

“Vivere il Battesimo per attrarre a Dio”


 

(At 1,1-11; Sal 46; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20)

 

       «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1, 11)

       Da sempre il termine “cielo”, al singolare o al plurale, è considerato il luogo dove dimora la divinità, per i pagani, Dio, per noi cristiani. Gesù stesso ci insegnato a pregare dicendo: “Padre nostro, che sei nei cieli …”, indicando appunto il luogo in cui l’uomo considera presente Dio.

       In questa solennità dell’Ascensione al cielo di Cristo in anima e corpo, siamo portati a contemplare questo evento della nostra Salvezza facendo come gli apostoli: rivolgendo lo sguardo al cielo come gesto di preghiera, invocazione, adorazione.

       Guardare al cielo per chiedere a Dio la grazia di cui abbiamo bisogno. Guardare al cielo per alimentare la nostra speranza, la méta della nostra vita: l’eternità! Guardare al cielo per sollevare lo sguardo sempre ricurvo sulle fatiche e ansie quotidiane per offrirle a Dio e trovare ristoro per le nostre anime.

       Il guardare al cielo, dunque, è un gesto carico di fede, speranza e carità, perché è fatto nella consapevolezza dell’amore del Cristo, ma è possibile proprio perché Cristo ci ha aperto definitivamente le porte del Regno di Dio con il suo sacrificio di amore.

       Noi possiamo rivolgere il nostro sguardo al cielo ed essere certi che Dio ci accoglie perché Cristo ha portato la nostra umanità redenta al cospetto del Padre: ecco il senso profondo della Solennità odierna.

       Tutto è stato ricapitolato in Cristo e tutto è compiuto e noi possiamo partecipare alla sua gloria: «Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose» (Ef 1, 23).

       La nostra preghiera, il nostro sacrificio di lode, le nostre opere di carità, sono accette e gradite da Dio perché noi siamo uniti a Cristo per il suo sacrificio di amore a cui obbediamo vivendo nella sua volontà, secondo la sua Parola.

       Noi siamo uniti a Cristo e partecipi della Gloria di Dio già ora e in pienezza alla fine della vita. Tutto questo per il dono del Battesimo ricevuto, che dobbiamo saper far fruttificare in noi.

       Con il Battesimo siamo stati costituiti figli di Dio nel Figlio Unigenito, Gesù Cristo.

       Il comando del Cristo ai suoi discepoli è chiaro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 18-20).

       La missione della Chiesa è quella di accogliere nella comunione di Dio, fare suoi discepoli, mediante il dono del Battesimo e insegnando a vivere nella volontà di Dio.

       Nella Chiesa nessuno è più grande ed importante di ogni altro cristiano, perché tutti siamo battezzati e per questo possiamo rivolgerci a Dio e chiamarlo Padre.

       Tutte le altre funzioni nella Chiesa sono di servizio e non di prestigio. Agli apostoli Gesù lo dice chiaramente: «[…] chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 10, 43-45).

       L’impegno di ogni credente, allora, deve essere orientato tutto a conoscere e attuare i comandi del Signore, a vivere secondo la sua Parola, nella giustizia, nella verità e nella carità.

       Se tutti ci preoccupassimo costantemente di fare questo, non ci sarebbero più divisioni, fazioni, malumori, maldicenze ed ogni altra cosa che non è amore. Le nostre comunità cristiane, parrocchie, gruppi ecclesiali ed ogni altra realtà della Chiesa, sarebbero luoghi di vera comunione se ponessimo più attenzione a comprendere che tutti siamo figli per il Battesimo, senza fare di tutto per primeggiare o, peggio, per comandare. Se tutto lo vivessimo nella logica del servizio, non ci sarebbero situazioni di conflittualità.

       Occorre, dunque, ripartire dal Battesimo, comprendere questo grande dono e la responsabilità che ne deriva, ed impegnarci a vivere nel mondo con questa identità forte e capace di attrarre, perché radicata nell’amore di Dio.

       Come battezzati abbiamo la forza per convertire il mondo a Dio, se solo vivessimo a pieno il dono di Grazia ricevuto. Il Battesimo ci inserisce nella Santità di Dio, per cui essere battezzati significa rendere visibile la Santità di Dio nelle nostre opere, nei gesti e nelle parole. La forza attrattiva dell’amore di Dio si manifesta appunto nelle nostre esistenze di battezzati.

       Ecco il grande dono che Cristo ci ha fatto! Ecco la nostra comune vocazione alla Santità!

       Alziamo lo sguardo al cielo, per contemplare Dio e per rinnovare la consapevolezza che siamo destinati a partecipare alla Sua Gloria.

       Ringraziamo Dio per questo dono di Grazia e rinnoviamo il dono del Battesimo ricevuto, rialzandoci dalla nostra miseria umana certi che Dio ci ha chiamato alla Santità, che non è utopia, ma realtà per coloro che gli obbediscono.

       «Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore» (Ef 1, 17-19)

VI Domenica di Pasqua – Anno A - 2020

“La testimonianza della fede, con dolcezza, rispetto e retta coscienza”


 

(At 8,5-8.14-17; Sal 65; 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21)

 

       Tante volte mi chiedo: “hai fede?” “cosa significa avere fede?”. A queste domande rispondo, con sempre maggiore consapevolezza, che per me credere significa avere fatto esperienza dell’Amore liberante di Dio. Ogni volta che rifletto sulla mia fede, quando è iniziato questo cammino e le tappe che ho vissuto finora, mi soffermo a considerare l’esperienza che ho fatto e continuo a fare della misericordia di Dio, che mi ridà speranza e forza per rialzarmi e riprendere il cammino ogni volta che faccio i conti con la mia pochezza e fragilità.

       È importante porsi queste domande, perché non bisogna dare per scontato la fede che pensiamo di professare. Non basta “praticare”, nel senso di partecipare ai momenti di culto, pregare e frequentare la comunità parrocchiale per poter dire di avere fede, perché la fede è “sequela”, è “imitazione di Cristo”, “conformazione a Lui”, come insegna San Paolo.

       La fede è “prima di”, fondamento e di più di ogni pratica religiosa, perché essa dà senso a tutto ciò e orienta la vita perché le opere che si compiono, sia quelle di culto che quelle che riguardano la quotidianità, siano espressione della “sequela” di Dio.

       La fede si manifesta e si rende concreta nella modalità del vivere: pensieri, parole ed opere. Tutto deve essere espressione della fede.

       San Pietro lo esprime in modo chiaro e perentorio: «Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo» (1Pt 3, 15-16).

       Ci esorta ad adorare il Signore nei nostri cuori, che significa appunto “conformarsi” a Lui. Adorare Cristo, qui non significa semplicemente un momento di preghiera, ma impegnarsi affinché tutto di noi esprima la nostra appartenenza a Cristo. Il cuore è sinonimo di coscienza, quindi San Pietro ci vuole dire che la nostra coscienza deve aderire a Cristo, imitare la sua obbedienza al Padre mediante un discernimento di ciò che è bene, mediante le opere che esprimano la decisione per il bene assunta.

       Per questo la testimonianza della fede, “il rendere ragione della speranza che è in noi”, sarà vera ed efficace se fatta con un “coscienza retta”, cioè che trova la sua giustizia e la sua decisione in Dio, per cui non segue il personale giudizio etico, “il secondo me”, ma valuta secondo ciò che è giusto e buono “secondo Dio”.

       Una tale coscienza diventa testimonianza autentica di fede ed esprime la verità della nostra condotta. Non credenti per “devozione”, ma per adesione alla “Verità”, che è Cristo!

       Tutto questo, dice San Pietro, va fatto con “dolcezza e rispetto”, perché la fede non si impone, ma si propone.

       La forza della fede si manifesta nella carità dell’agire ed entrambe esprimono la speranza verso cui l’uomo tende: Dio!

       Credo ed amo perché ho incontrato Dio ed a Lui tendo il mio esistere, perché si compia in me la promessa della vita in Lui per l’eternità, a cui mi ha chiamato donando sé stesso per amore.

       La fede è sequela di Cristo, che si compie nell’accogliere e seguire i comandamenti, come Lui stesso ci ha detto: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti […] Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama» (Gv 14, 15.21).

       I comandamenti non sono obblighi, ma vie; non sono imposizioni e restrizioni, ma opportunità e liberazione. I comandamenti sono guida per attuare l’amore, per esprimere la nostra adesione ed appartenenza a Dio.

       Sono espressione dell’amore per Dio, per agli altri e per sé stessi, perché donati a noi da Dio che è amore e ci ama. L’osservanza dei comandamenti ci innesta e radica nell’amore di Dio e riceviamo da Dio la linfa vitale del suo amore: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità […] Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14, 16-17.21).

       La fede in Cristo non può, di conseguenza, essere qualcosa di “privato” ed “intimistico”, perché essa ci responsabilizza ad un impegno nel quotidiano. La fede è nella sua essenza generativa di comunità, perché si esprime nella carità, in opere di edificazione nell’amore. La fede, pertanto, non si riduce a pratica religiosa, ma l’adorazione di Dio trova il suo compimento nelle opere di carità.

       San Giacomo lo dice chiaramente nella sua lettera: «Insensato, vuoi capire che la fede senza le opere non ha valore? […] come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta» (vedi Gc 2, 14-26). L’adorazione, la preghiera, la vita sacramentale sono la sorgente a cui attingere perché l’agire sia espressione dell’amore incontrato e nel quale si vive.

       Amiamo Dio nel nostro cuore e condividiamo questo amore nel nostro agire, perché la nostra vita sia un costante “rendere ragione della speranza che è in noi”.

 

“Signore Gesù,

tu ci ami e ti sei donato per amore a tutti noi.

Donaci il tuo Spirito Paraclito,

Spirito di Verità e di Carità,

perché la nostra fede si esprima in opere di amore.

 

Illuminaci con il tuo Spirito di Sapienza,

perché comprendiamo e attuiamo il bene.

Guidaci con il tuo Spirito di fortezza,

perché operiamo sempre a vantaggio del bene e degli altri,

sapendo anteporre il bene ad ogni egoistico interesse.

 

Corrobora il nostro cuore

con il tuo Spirito di pace,

perché non perdiamo mai la speranza

di fronte alle avversità della vita;

perché sappiamo rispondere

al male con il bene,

all’ingiuria con la benedizione,

alla falsità con la verità,

all’egoismo con la carità.

 

Accresci la nostra fede,

perché adorando Te nei nostri cuori,

viviamo da veri cristiani

operando nella carità

per rendere ragione della speranza che è in noi.

Amen!”

V Domenica di Pasqua – Anno A - 2020

“Pietre vive dell'edificio spirituale”


 

(At 6,1-7; Sal 32; 1Pt 2,4-9; Gv 14,1-12)

 

       «Carissimi, avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo» (1Pt 2, 4-5)

       In questi mesi abbiamo visto gli edifici di culto, le nostre parrocchie, vuote. Abbiamo sentito sicuramente la mancanza della celebrazione Eucaristica. Ci siamo accontentati di partecipare alla Messa per televisione o tramite Facebook.

       Eppure in questa “assenza” dalle celebrazioni, non è venuta meno la nostra identità di Chiesa, almeno nella sua essenza.

       Noi, per il Battesimo ricevuto, siamo inseriti come membra viva del Corpo di Cristo, la sua Chiesa; costituiti edificio spirituale, pietre vive del tempio di Dio. Noi siamo il tempio che Dio abita con la sua Grazia. Non è la frequenza al Tempio che ci costituisce credenti, ma l’essere Tempio dello Spirito per il Battesimo.

       Siamo, come ci dice San Pietro, “edifico spirituale” per offrire il sacrificio della nostra obbedienza in Cristo, rendere il culto gradito al Padre nella comunione in Cristo e con tutti gli uomini.

       Abbiamo vissuto un lungo periodo di digiuno eucaristico! Speriamo ci abbia aiutato a comprendere maggiormente il valore dell’Eucaristia e del dono di grazia che il Signore ci fa ogni volta che ci accostiamo al Sacramento.

       Speriamo, anche, che non abbiamo sentito la mancanza della ritualità della Messa, ma della comunione con i fratelli; non delle “belle Messe”, ma dell’incontro con il Signore e con i fratelli nella fede.

       «Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2, 8-9).

       In questo tempo di digiuno eucaristico speriamo di essere cresciuti nella comprensione della vera preghiera, del culto spirituale da offrire a Dio.

       Questo tempo di distanza dagli altri e dalla condivisione della fede, speriamo ci abbia fatto crescere nell’impegno di comunione con gli altri e nella vera identità di essere comunità di fede.

       Speriamo che questo tempo di deserto sia stato utile per la crescita e la maturità nella fede e nell’impegno di testimonianza di fede autentica.

       L’essere Chiesa, comunità di fedeli, deve significare vivere rapporti di vera comunione e non di conoscenza o peggio ancora di gruppo autoreferenziale e chiuso.

       Essere “popolo di Dio” significa essere annunciatori con la vita del cambiamento interiore e della vita di comunione e preghiera che viviamo per aver incontrato Cristo e seguirlo nella quotidianità della vita.

       Essere “stirpe eletta” non significa essere superiori agli altri, come spesso invece si sentono e lo dimostrano i “cristiani praticanti”. Essere “stirpe eletta” ricorda che siamo stati costituiti tale dal sangue di Cristo, per cui nessun merito personale, ma dono di grazia che è per tutti e il nostro impegno di vita deve essere tutto proteso a permettere alle persone che incontriamo di partecipare al dono di grazia di Dio.

       Essere cristiani, pietre vive dell’edificio spirituale, comporta modellare continuamente sé stessi su Cristo, “pietra d’angolo”. Ognuno e tutti insieme come comunità, ogni giorno, siamo chiamati a questo impegno di “conformazione”, di “modellamento” attraverso l’ascolto della Parola di Dio e la preghiera vera, quella che si eleva a Dio con cuore puro, «alzando al cielo mani pure, senza collera e senza polemiche» (1Tm 2,8).

       San Paolo, nella lettera ai Romani, ci aiuta a comprendere cosa vuol dire modellare sé stessi su Cristo, pietra d’angolo: «Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto […] non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato […] detestate il male, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda […] Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile. Non stimatevi sapienti da voi stessi […] Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti» (Rm 12).

       Ecco le opere grandi che Cristo ha detto che compirà chi crede in Lui (vedi Gv 14, 12). Tutto questo è possibile per ognuno di noi per la fede che viviamo in Cristo, per la sequela di Lui, Via, Verità e Vita.

 

 

“Signore Gesù,

Tu sei Via, Verità e Vita,

donaci il tuo Spirito

perché, modellati su Te, pietra d’angolo,

portiamo frutti di amore

per costruire il Tuo Regno.

 

Aumenta la nostra fede in Te,

per essere tuo “popolo santo”,

per elevare la preghiera pura e libera da contese,

per offrire il culto gradito al Padre

della nostra vita in obbedienza alla tua Parola.

 

Ravviva in noi il dono del Battesimo,

che ci fa tuoi e fratelli tra noi;

che ci inserisce nella comunità di fede

dove crescere e fortificarci nell’amore

da donare ad ogni persona.

 

Sostieni e guida la tua Chiesa,

perché sia vera comunità di fede,

dove ogni persona si senta accolto nel tuo Amore;

compreso e non giudicato,

perdonato e non condannato,

accolto e non escluso,

educato e non istruito,

amato e sostenuto.

Amen!”

IV Domenica di Pasqua – Anno A - 2020

“In ascolto e in sequela del Pastore buono”


 

(At 2,14.36-41; Sal 22; 1Pt 2,20b-25; Gv 10,1-10)

 

       Pensando al rapporto con Dio e agli appellativi usati per descriverlo, ciò che emerge è quello che di fatto ogni coscienza vive. Solitamente usare semplicemente il nome “Dio”, senza alcun altro termine che identifichi la modalità del rapporto che si vive con Lui, esprime la distanza e la smisurata sproporzione tra Lui e la creatura umana. Una comprensione che favorisce, nella nostra cultura, a tenere distante Dio dalla vita personale.

       Quando si fa esperienza di Dio, lo si incontra e si impara a conoscerlo attraverso la sua Parola, la Rivelazione che ha fatto di sé, e le testimonianze di altri credenti sul rapporto che vivono con Lui. Nel vivere la relazione di fede, si arriva ad aggiungere al termine Dio una caratteristica che esprime, non tanto la qualità o la modalità in cui Egli si è presentato, quanto piuttosto il modo in cui la persona comprende e vive la relazione con Dio.

       Chiamarlo Padre, Signore, Amore, Onnipotente, Giudice, Misericordioso, Pastore, Medico delle anime, sono tutti termini che esprimono, si una caratteristica di Dio, ma molto di più descrivono l’esperienza personale del fedele.

       Il Salmo 22, come ogni altro Salmo, è una preghiera del fedele che si rivolge al Signore descrivendo l’esperienza che vive. Riconosce che il Signore è il pastore della sua anima, la guida per il retto cammino, che conduce alla vera gioia, al benessere integrale della persona.

       L’esperienza di fede si fa canto di lode e preghiera; sprono per chiunque legge; condivisione con chi vive la fede.

       La pericope della Prima Lettera di San Pietro, attraverso una serie di affermazioni, presenta la figura di Cristo, anche posta in rapporto diretto col servo di Jahvé del profeta Isaia, ma in ogni parola

possiamo rileggere la personale esperienza di Pietro, non semplicemente perché testimone diretto di quanto vissuto da Gesù, ma molto di più per quello che lui stesso ha ricevuto dal Cristo.

       Pietro ha fatto esperienza diretta del tradimento e del perdono; ha compreso la profezia di Isaia sulla sua pelle e ha vissuto l’incontro con l’amore rigenerante e misericordioso di Dio, attraverso lo sguardo d’amore del Cristo. Conosce bene cosa significa seguire l’esempio di Cristo, le sue orme, ed affidarsi all’Amore di Dio.

       «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime» (1Pt 2, 24-25).

       Pietro ha fatto esperienza e ci testimonia l’effetto dall’azione salvifica di Cristo: “non vivendo più per il peccato, vivessimo per la rettitudine morale”, letteralmente “giustizia”. Riconoscere Gesù come il Cristo, comporta seguirlo in una via di rettitudine morale, fatta di cambiamento di mentalità, di opere buone, di sentimenti di bontà, lealtà e misericordia.

       Avere Cristo come “pastore” significa riconoscere la sua cura amorosa, la sua custodia e la sua guida nella verità, contro ogni iniquità e meschinità.

       Il discorso di Gesù, di Gv 10, in cui presenta sé stesso come Pastore bello delle anime, esprime con precisione questo rapporto: “ascoltano la sua voce”; “chiama le sue pecore, ciascuna per nome”; “cammina davanti a esse”; “le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce” (Gv 10, 2-4).

       Il rapporto è intimo, amorevole, attento a ciascuno nella sua particolarità e unicità. Il Pastore cammina davanti, indicando la Via, dando l’esempio, conducendo verso la Verità e il Bene.

       La condizione per seguirlo e vivere nella sua cura è “l’ascolto della sua voce”, che richiede una relazione di intimità, di amicizia, di disponibilità, di accoglienza e di fiducia.

       “Ascolto” che comporta orientamento di tutto sé stessi verso il Cristo. Non si tratta quindi di una relazione superficiale, ma che coinvolge tutta la realtà personale: mente, cuore, volontà.

       Il dono di questo ascolto fedele e libero è il dono della vita: “io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10, 10); non intesa come vita fisica, ma come valore e senso da compiere “qui ed ora” nella esperienza terrena, nella consapevolezza della “vita eterna in Dio”, conquistata per il sacrificio d’amore di Cristo, a cui il credente è destinato.

       Consideriamo la nostra fede e verifichiamo l’esperienza che viviamo. Liberiamo il cuore, la mente da tutto quello che non è secondo la volontà di Dio, ma soprattutto impegniamoci a vivere la nostra fede nella sequela libera e fedele del Cristo, “pastore” delle nostre vite. Rinnoviamo davanti al Signore la nostra volontà a seguirlo ed amarlo, non vivendo una religione sterile, fatta di devozioni e ritualismi, ma in un ascolto attento e fruttuoso della sua Parola e in una condotta di vita nella “giustizia”, libera da ipocrisia, iniquità e meschinità.

 

“Signore Gesù, pastore bello delle nostre anime,

che ci conosci nell’intimo e ci guidi alla vera gioia;

che ci sostieni e ci ripari da ogni male;

che vai in cerca di chi si smarrisce;

donaci il tuo Spirito si sapienza e forza

per conservarci nella tua sequela, in amore e verità.

 

Tante volte, sopraffatti dalla stanchezza,

dalle innumerevoli prove della vita

e dalle delusioni di relazioni umane

sempre più basate su interessi e opportunismi,

viene meno la nostra rettitudine morale

e perdiamo il retto sentiero,

dietro a Te, Parola viva e Pastore bello delle nostre anime.

 

Allontana da noi la presunzione di essere sicuri

di vivere nella fedeltà a Te;

di essere e conservarci nel tuo recinto.

 

Illuminaci con il tuo Spirito,

perché ogni giorno liberiamo

il nostro cuore dai sentimenti negativi,

perché sia ricolmo del tuo Amore;

perché orientiamo la nostra volontà

a seguire ed uniformarsi alla Tua;

perché illumini la nostra mente a comprendere,

cercare e testimoniare quello che da Te

ascoltiamo e ci sforziamo di compiere.

 

A Te salga il nostro canto di lode;

A Te che sei il nostro Pastore,

che guidi e rinfranchi il nostro cammino,

ogni onore e gloria.

Amen”

 

 Il Buon Pastore Galla Placida Ravenna

 

Il Buon Pastore, Mausoleo di Galla Placidia, eretto nella prima metà del V secolo, Ravenna

 


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