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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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III Domenica di Pasqua – Anno A - 2020

“Nel timore di Dio, testimoni del suo Amore”


 

(At 2,14.22-33; Sal 15; 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35)

 

       «due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto» (Lc 24, 13).

       Quante volte ci siamo fermati a discutere su Dio, sulla sua esistenza, sul suo modo di essere presente nel mondo. Tra dubbi e certezze cerchiamo di andare avanti nel cammino di fede, spesso senza risposte che soddisfano la nostra curiosità, altre volte non ricevendo quello che avremmo desiderato.

       Quante volte abbiamo dovuto rispondere a chi derideva la nostra fede, offeso il nostro Dio, contestato la Chiesa. Tante volte dopo aver risposto abbiamo constatato in noi che condividiamo la critica mossa contro la fede e la Chiesa.

       Nulla di più normale e di più comune! Senza il dubbio non ci può essere fede! Senza la domanda di senso non si può riconoscere Dio come Padre.

       Chi non ha dubbi e ritiene di avere una fede incrollabile di fatto si può dire che ha aderito ad una religione, che sia cristiana, islamica o qualunque altra non farebbe differenza.

       Avere fede significa camminare in una continua ricerca della volontà di Dio, che non è facile da capire e attuare, perché richiede annullamento dei propri schemi e certezze. Chi invece afferma di non avere dubbi e di avere una fede incrollabile non vive la ricerca e non ha bisogno di verificare la sua condotta, proprio perché ritiene di essere nel giusto per la fede che professa.

       Anche i farisei erano sicuri della loro fede, di conoscere e praticare la Legge di Dio, eppure Gesù li definisce ipocriti, sepolcri imbiancati, guide cieche (Mt 23,13-35). San Paolo mette in guardia i fedeli di Corinto, e tutti noi, a non cadere nell’idolatria pur convinti di seguire Gesù Cristo e afferma: «chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. […] Perciò, o miei cari, fuggite l'idolatria» (1Cor 10, 12.14).

       Nel documento della Cei, “Il Rinnovamento della Catechesi”, i vescovi affermano che la vera mentalità di fede si ha «quando c’è capacità di comprendere e interpretare tutte le cose secondo la pienezza del pensiero di Cristo» (RdC 39).

       I discepoli di Emmaus arrivano ad una vera mentalità di fede quando riconoscono Gesù come Signore e Dio e rileggono l’esperienza fatta di cammino con Lui, nell’ascolto della sua Parola e nello spezzare il pane.

       La fede è esperienza e accoglienza di un TU, è credere a Dio, a Cristo e vivere in Lui e per Lui. La fede si identifica in due aspetti principali di fiducia e di conoscenza. «Priva di contenuti, la fede si svuota e perde la sua identità. Priva di configurazione personale, diventa un sapere senza vita, una pura ortodossia formale»[1].

       Per crescere nella vera fede occorre disposizione di cuore e di mente per accogliere Dio, comprendere la sua Parola e conformare la propria vita sul suo insegnamento.

       La fede instaura con Dio un rapporto riverenziale, filiale e di abbandono al suo amore. Questo rapporto, seppure da Padre a figlio, deve essere vissuto sempre con la consapevolezza della grandezza di Dio, quindi, nella riverenza e nel timore, come ci dice San Pietro: «se chiamate Padre colui che, senza fare preferenze, giudica ciascuno secondo le proprie opere, comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri» (1Pt 1, 17).

       Il timore di Dio non è da intenderlo come paura. Esso è un atteggiamento interiore riverenziale e filiale che ci fa aver paura di ogni offesa a Dio, di ogni tradimento verso il suo amore. La volontà riceve dal timore una scossa nel suo slancio vitale verso il bene.

       Il timore è virtù e dono dello Spirito Santo, principio della sapienza, porta a perfezione le virtù della speranza e della temperanza: la speranza, generando in noi la paura di offendere Dio e di essere separati da Lui; la temperanza, procurando in noi il distacco dai nostri piaceri egoistici che ci distraggono dal vero bene e ci separano dalla volontà di Dio.

       Il timore è la virtù che ci fa allontanare dal peccato e ci guida alla disposizione interiore a lavorare su noi stessi per conformare mente, volontà e cuore a Dio, a Cristo Gesù.

       Tutto questo si ottiene mediante l’ascolto meditativo della Parola e l’adorazione della sua presenza nell’Eucaristia, corroborati dalla sua grazia sacramentale.

       Il brano dei discepoli di Emmaus ci richiama ad alimentarci quotidianamente a queste due fonti di grazia: Parola ed Eucaristia.

       «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?»

       La Parola di Dio va ascoltata e meditata per renderla presente nella nostra esistenza: come via per orientare le nostre scelte; come verità a cui uniformare i nostri atti; come vita a cui ispirare i nostri sentimenti.

       «Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane»

       L’Eucaristia va celebrata, ricevuta, adorata per fare di noi offerta a Dio e ai fratelli in uno stile di vita tutto fondato nella carità. L’Eucaristia è la fonte dell’amore a cui ristorarci e da cui ripartire per edificare il mondo con l’amore di Dio. L’Eucaristia è presenza viva di Dio, di Cristo. Accostarci all’Eucaristia, cibarsi di Cristo ci inserisce nella vita in Dio, non per atto magico, ma per adesione della nostra volontà e nella piena personale responsabilità. Richiede da noi uno stile di vita conforme a Dio, in osservanza della sua Parola, tutta orientata al bene, all’amore di Dio incontrato e ricevuto.

       Come i discepoli di Emmaus, senza indugio, percorriamo il cammino della nostra vita verso la Gerusalemme celeste, impegnandoci a testimoniare con la vita l’incontro con Cristo, la fede in Lui, nella gioia e nel timore di Dio.

 

“Signore Gesù,

nella piccolezza della nostra fede,

ci rivolgiamo a Te:

illumina la nostra mente per comprendere la Tua Parola;

corrobora il nostro cuore per ardere del tuo amore;

rafforza la nostra volontà per aderire alla tua proposta di vita.

 

Donaci il timore di Te,

non per il terrore di Te,

ma per avere paura di perderti,

impegnandoci sempre nel bene

ed essere tuoi testimoni nel mondo.

 

Sostieni con il tuo Spirito

la tua Chiesa, perché ogni battezzato,

guidato dalla Parola e corroborato dall’Eucaristia,

sia pietra viva della tua Chiesa,

membro vivo del tuo Corpo.

 

Impegnati a costruire il tuo Regno,

nella Verità e Carità,

sostieni tutti i battezzati con la tua Grazia,

perché vivano la gioia di essere cristiani,

e la sconvolgente bellezza di appartenere a Te,

Signore e Maestro, Via, Verità e Vita.

Amen!”

 

 

[1] F. Ardusso, Fede, in J. Gevaert (a cura di), Dizionario di Catechetica, Elledici, Leumann (TO) 1987, 277.

II Domenica di Pasqua – Anno A - 2020

“Missionari della misericordia ricevuta”


 

(At 2,42-47; Sal 117; 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31)

 

       «siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco –, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà» (1Pt 1, 6-7).

       Siamo nella ottava di Pasqua ed ancora una volta la Parola di Dio, viva ed attuale, illumina e dona speranza.

       L’apostolo Pietro ci esorta ad essere ricolmi di gioia nonostante le prove. Come può essere possibile gioire quando siamo provati; quando le situazioni della vita sono difficili e tutto sembra preludere alla fine, senza alcuna speranza?

       La gioia del cristiano nasce dalla certezza di ciò che l’attende: la vita eterna! Non si tratta di una emozione, di uno stato d’animo, ma di una condizione di vita. Il cristiano è nella gioia perché conosce la meta della sua esistenza e vive il presente nella continua tensione verso il futuro eterno in Dio.

       La gioia è un modo di vivere, dove le prove, il dolore, la malattia, la morte non sono vissute inconsciamente o non interessano il cristiano, ma in pienezza senza perdere la speranza.

       Il dolore e il pianto, la malattia e la morte sono realtà che toccano nell’intimo ogni persona, cristiani compresi. Sono prove che non devono e non possono essere eluse, e per chi vive la fede vera, non producono sconfitta, ma diventano occasione per crescere nell’abbandono a Dio, confidando in Lui e trovando senso nella sua Parola.

       La fede viene provata e raffinata dalle prove della vita; trova forza e guida nella meditazione della Parola, nell’Eucaristia, nella preghiera e nella vita comunitaria.

       «[Quelli che erano stati battezzati] erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (At 2, 42).

       La fede va vissuta nella comunità ecclesiale e non può mai essere una questione intimistica e privata: non sarebbe fede, ma religiosità!

       Nella vita comunitaria si comprende il senso profondo della Parola e si realizza la vera comunione con Dio: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35).

       Eppure non sempre le comunità ecclesiali, le parrocchie sono luoghi favorevoli per la crescita della vera fede. In esse si fanno i conti con tutte le fragilità umane e le dinamiche che si riscontrano in ogni ambito della nostra vita.

       Divisioni, fazioni, gelosie, invidie, cattiverie e, purtroppo, anche molto peggio, si riscontrano nelle relazioni tra credenti che frequentano le parrocchie. Quante persone sono state scandalizzate, quanti altre hanno abbandonato la frequenza ai sacramenti per aver fatto esperienze negative nelle parrocchie.

       Eppure, nonostante tutte queste negatività, che appartengono alla nostra umanità, il luogo per incontrare Dio e vivere la piena comunione con Lui è la Comunità di fede, la Chiesa!

       Come fare delle nostre comunità luoghi in cui vivere la vera comunione tra noi? Come superare tutte le negatività che spesso riscontriamo?

       La via è quella indicata dal brano di Atti 2, 42-47: preghiera, condivisione, umiltà di cuore e tanta misericordia. San Paolo aggiunge: «amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12, 10).

       Amare e stimare: è possibile vivere questo? Significa che tutto ciò che l’altro fa va giustificato? Che tutto va accettato? Certo che no! Stimare non significa giustificare, ma riconoscere che l’altro ha valore in quanto persona; in quanto figlio di Dio. Non stimo gli atti, ma l’essere, la persona, pertanto quando sbaglia la riprendo con carità, la perdono, la riaccolgo!

       Questo è ciò che Dio fa con noi; questa è l’essenza della misericordia di Dio. Non ci ama per quello che compiamo, ma per quello che siamo. Quando abbiamo commesso peccato e ricorriamo alla sua misericordia, Lui continua a vederci come figli, ad amarci e ci ridona tutta la sua fiducia.

       Credere e vivere nella misericordia di Dio, non significa semplicemente confidare nel suo perdono, ma impegnarsi a conservare sé stessi nel suo amore ed evitare di ricadere nella colpa, nell’errore.

       Il cristiano non è perfetto, ma vive accogliendo la perfezione di Dio in sé, conservando il dono della misericordia ricevuta ed attuando così la misura alta della fede: la santità!

       Questa è l’esperienza di Pietro, che pur amando il Signore, lo ha tradito e sperimentata la sua misericordia ha cercato di conservare in sé questo dono facendolo fruttificare nella condivisione della fede con i fratelli.

       Questa è l’esperienza di Paolo, persecutore e uccisore di cristiani, che ha fatto dell’amore rigenerante e misericordioso di Dio la sua forza ed è divenuto annunciatore indomito della fede, della Parola di Dio a tutte le genti.

       Questa è l’esperienza di Tommaso, incredulo e scettico di fronte la testimonianza dei fratelli di fede, ma rigenerato dalla misericordiosa accoglienza di Gesù, che gli va incontro nella sua incredulità e debolezza per costituirlo testimone di fede forte e determinato.

       Questa è l’esperienza di ciascuno di noi quando, dopo aver toccato il fondo della propria miseria, ci siamo sentiti amati e perdonati da Dio, toccati dalla sua misericordia per il sacramento della riconciliazione o per una parola di speranza che ci ha raggiunto quando meno ce lo aspettavamo o da qualcuno che mai avremo pensato potesse interessarsi a noi.

       Noi siamo coloro che Gesù chiama “beati” perché crediamo senza averlo visto e toccato nella sua fisicità corporale, ma di fatto se abbiamo fede in Lui è sicuramente perché abbiamo sperimentato il suo amore, abbiamo toccato il suo amore che ha pervaso il nostro essere rialzandolo dalla sua miseria.

       Questa è la domenica “in albis”, la domenica della “Divina Misericordia”: ringraziamo il nostro Dio per questo immenso dono, condividiamolo con tutti coloro che incontriamo nel cammino della vita e impegniamoci a vivere nella misericordia “amando e gareggiando nello stimarci a vicenda”.

 

“Signore Gesù,

l’Apostolo Tommaso, dopo averti visto,

così esclama: «Mio Signore e mio Dio!».

Oggi anche noi vogliamo proclamare la nostra fede

dicendo: Mio Signore e mio Dio!

 

Lo facciamo con la consapevolezza della nostra miseria,

coscienti che piccola e debole è la nostra fede,

ma certi che Tu ci ami e ci perdoni

nella tua infinita misericordia.

 

Rendici misericordiosi,

come Tu sei misericordioso,

capaci di amare oltre ogni misura,

perdonando chi ci fa soffrire,

impegnandoci nello stimarci a vicenda,

tutto perché ti abbiamo incontrato

e abbiamo sperimentato per noi il tuo amore misericordioso.

 

Rendi la tua Chiesa,

ed ogni comunità di fede,

luoghi in cui ognuno si sente accolto ed amato,

stimato e non giudicato,

sostenuto e non accusato,

accolto e non scacciato,

perdonato e non indicato.

 

Fa che, nutriti della tua Eucaristia,

corroborati dalla grazia del Sacramento della Riconciliazione,

siamo testimoni del tuo amore

con il nostro stile di vita,

i nostri atteggiamenti e parole,

che edificano e mai condannano,

denunciano il male ma mai uccidono l’altro nella sua intimità.

 

Fa di noi apostoli di carità,

missionari di misericordia,

costruttori della tua Pace.

Amen!”

 

 

Domenica di Pasqua – Anno A - 2020

“Vivere nel mondo da risorti con Cristo”


 

(At 10,34a.37-43; Sal 117; Col 3,1-4; Gv 20,1-9)

 

       «[…] non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20, 9).

       Anche quest’anno ci ritroviamo a celebrare la Pasqua, anche se in modo diverso. Forse per sentirla abbiamo preparato i piatti della tradizione, comprato uova e colombe, nonostante le restrizioni imposte ad uscire di casa.

       Ancora una volta è Pasqua, ma abbiamo compreso cosa significa? I discepoli non avevano ancora compreso la Scrittura, dice l’evangelista Giovanni, nonostante siano stati con Gesù, ascoltato le sue parole e assistito ai suoi miracoli.

       Noi abbiamo compreso cosa significa Pasqua per noi? Cosa vuol dire celebrarla, ma ancor di più vivere la Pasqua, vivere da risorti?

       Ai più devoti e frequentatori delle celebrazioni sicuramente saranno mancati i riti del triduo pasquale: la lavanda dei piedi, gli altari della reposizione, erroneamente chiamati “sepolcri”, la funzione dell’adorazione della croce e la processione con le effigi di Cristo morto e dell’Addolorata.

       Forse anche la Solenne veglia di Pasqua, culmine e centro della fede, è mancata ai più. Eppure Cristo è risorto! Si è veramente risorto! Nonostante non abbiamo partecipato ai riti, almeno di persona; nonostante questa Pasqua è segnata in modo significativo dalla pandemia, che ha addirittura fatto chiudere il Santo Sepolcro a Gerusalemme e gli altri luoghi della fede cristiana.

       Si, Cristo è risorto! Oggi noi dobbiamo annunciarlo con consapevolezza e forza ancor più di quanto fatto fino ad ora.

       Cristo è risorto, perché questa è la nostra certezza, la nostra speranza in cui vivere la fede qui ed ora.

       Noi crediamo in Cristo morto e risorto per noi, per renderci partecipi della Gloria di Dio. Questa fede comporta “vivere nel mondo da risorti con Cristo”.

       Cosa significa? Come si fa a vivere la vita terrena da risorti?

       San Paolo così esprime il concetto ai Colossesi: «se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2).

       Ad una prima lettura sembra che Paolo ci inviti a vivere in modo disincarnato, a non considerare le cose della terra, ma non è questa la corretta lettura.

       Il discorso di San Paolo parte dalla condizione del credente di essere morto e risorto con Cristo per il “battesimo”. Per questa identità il credente non è fuori dal mondo, ma portatore nel mondo della grazia di Dio. Il “cercare le cose di lassù” significa che il credente affronta la vita con la speranza nella quale vive. Ogni cosa di questo mondo, ogni momento della vita per il cristiano è compreso e vissuto nella logica di Dio. San Paolo nel presentare la contrapposizione tra le “cose di lassù” con quelle “della terra” vuole indicare la tensione tra il bene e il male, tra la grazia e il peccato.

       Vivere la Pasqua, essere risorti con Cristo, significa vivere con responsabilità il quotidiano in un continuo discernimento per comprendere ciò che è buono ed evitare ciò che è male.

       Il cristiano battezzato, risorto con Cristo, vive con impegno il tempo della vita terrena, da protagonista, per dare il meglio di sé, nella piena comunione con Dio e con i fratelli.

       Fare Pasqua, vivere da risorti, dunque, significa un profondo cambiamento di mentalità e di condotta, perché quello che appartiene alla “terra”, potere, denaro, cattiveria, egoismo ed ogni sorta di azione che genera male, non appartenga più alla sua vita.

       Fare Pasqua significa vivere il presente, nella specificità del nostro essere, con la continua “tensione” verso Dio, cioè facendo quello che dobbiamo fare con responsabilità, ma per la gloria di Dio, per il bene di tutti, nella continua ricerca della verità nella carità.

       Tutto deve concorrere al bene (cfr Rm 8, 28-30); tutto deve generare vita; tutto nella carità.

       Il saluto di Pasqua, “Cristo è risorto, è veramente risorto!”, non è una formula rituale, ma una verità di fede che ci interpella perché come credenti, noi dobbiamo spendere nel mondo come astri, come “persone nuove”, “illuminati dalla Grazia”.

       Per il battezzato dire: Cristo è risorto, vuol dire affermare la sua novità di vita; vuol dire vivere da risorto inserito nell’amore di Dio; vuol dire che la vita ha valore e senso in Dio.

       Vivere da risorti significa avere Cristo come legge nuova da seguire, per cui tutto ha valore se unisce a Cristo e tutto assume una valenza nuova perché compresa e vissuta nella fede in Cristo:

       «quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede» (Fil 3, 7-9).

       In questa Pasqua il nostro dire “Cristo è risorto” sia proclamato nella consapevolezza sempre più forte e nella volontà rinnovata di vivere la fede, impegnandoci ogni giorno ad essere persone nuove, rinnovate dalla grazia di Dio, impegnate nel cercare e compiere il bene!

 

“Signore Gesù,

ancora una volta

eccoci a cantare l’Alleluja,

a gioire e gridare:

«Cristo è risorto; Si, è veramente risorto!»

 

In questa Pasqua

la nostra gioia è offuscata

dalla paura per l’epidemia che affligge il mondo,

per le tante morti di questi mesi.

 

Noi, però, siamo certi del tuo amore,

crediamo in Te e viviamo nella speranza,

consapevoli che Tu non ci abbandoni mai,

neanche in questo momento di prova.

 

Nella fede in Te,

in questa Pasqua ti chiediamo

di accrescere la nostra fede,

di rinnovare il nostro cuore

e di rafforzare la nostra volontà.

 

Sostienici con il tuo Spirito,

perché mettiamo a frutto il dono del battesimo,

operando nella tua verità e carità,

attraverso il continuo discernimento

per compiere sempre il bene,

evitando il male.

 

Nella tua infinita misericordia,

perdonaci e rialzaci dalla nostra

debolezza spirituale.

 

Fa di noi testimoni gioiosi

della tua resurrezione,

operatori di pace,

seminatori del tuo amore,

annunciatori credibili della tua Parola.

Amen!”

      

      Pietro e Giovanni corrono al sepolcro

Eugène Burnand - I discepoli Pietro e Giovanni corrono al sepolcro la mattina della Resurrezione

 

 

Sabato Santo – Anno A

"Il silenzio in attesa della vittoria della vita"


 

 

       «Venuta la sera giunse un uomo ricco di Arimatèa, chiamato Giuseppe, il quale era diventato anche lui discepolo di Gesù. Egli andò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Allora Pilato ordinò che gli fosse consegnato. Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia; rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro, se ne andò. Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Màgdala e l'altra Maria» (Mt 27, 57-61 // Mc 15, 42-47; Lc 23, 50-56; Gv 19, 38-42).

      

       Il Sabato Santo è il giorno del silenzio perché Cristo è morto e deposto nel sepolcro. È il giorno dell’assenza, del vuoto: il Maestro, il Messia, colui che ha insegnato, guarito, risuscitato i morti è chiuso in un sepolcro. I discepoli, che fino ad ora avevano percorso con Lui le vie della Galilea e assistito alla sua missione, sono chiusi nel dolore e provano la sconfitta, l’assenza di Colui in cui avevano sperato.

       È di fatto il sentimento che abbiamo anche noi, soprattutto oggi: ci sentiamo soli, avvolti nel grande silenzio e nel profondo senso di assenza di Dio. Impotenti di fronte a quello che viviamo, sentiamo il grido silenzioso della morte!

       Di fronte alla morte ci sentiamo sempre impotenti e la paura prende il sopravvento sulla ragione e sulla speranza. La sofferenza riusciamo a sopportarla e sappiamo anche reagire, ma la morte ci disarma, mette a nudo la nostra impotenza.

       La Chiesa nel giorno del Sabato Santo non celebra l’Eucaristia, ma vive l’attesa della risurrezione, facendo del silenzio il tempo favorevole per crescere nella fede e nell’abbandono a Dio.

       Il silenzio del Sabato Santo è, infatti, l’occasione in cui far tacere tutto quello che distrae dall’ascolto di Dio e dalla obbedienza a Lui. Il Sabato Santo è il giorno in cui comprendere il dono di Dio e il bisogno che abbiamo di Lui, del suo amore per noi, della sua misericordia.

       Per gustare la Pasqua, per partecipare alla sua resurrezione, abbiamo bisogno di fare silenzio, di comprendere il dono che Lui ci ha fatto e quanto sia importante per la nostra vita. Questo è possibile meditando sulla sua “assenza” nella nostra vita.

       Meditare sulle tante volte in cui non gli abbiamo permesso di essere con noi, nelle nostre scelte, a guida delle nostre decisioni, a fondamento dei nostri ragionamenti.

       Per essere partecipi della sua risurrezione, per vivere da risorti e redenti, dobbiamo comprendere cosa vuol dire vivere senza Dio; meditare sulla sua “assenza” nella quotidianità del nostro esistere.

       Mai come in questi giorni, abbiamo la possibilità di riflettere su Dio e sulla sua assenza dalle nostre società, dalle logiche umane sempre più fondate sull’economia, sul denaro. Oggi, in questa pandemia, che ci ha riportato alla verità del nostro essere impotenti, abbiamo l’opportunità di riflettere su come viviamo, su cosa abbiamo fondato la nostra vita.

       Oggi siamo obbligati a stare fermi, a non poter vivere la routine delle nostre giornate, sempre più frenetiche. Soffriamo questo stare chiusi in casa, fermi e obbligati a rinunciare alle tante cose che siamo abituati a fare, ma se facciamo silenzio e meditiamo sulle cose che ci mancano, forse riusciamo a comprendere cosa è essenziale veramente, recupereremo la presenza di Dio nelle nostre giornate, metteremo ordine nella nostra vita dando priorità a ciò che edifica e ci rende veramente “umani”.

       Dio ci sta offrendo una grande opportunità: ci sta facendo riappropriare in modo corretto della nostra “libertà”, non vivendola più come “idolo”, ma come “l’essenziale” della nostra “identità di figli di Dio”; da vivere non più “egoisticamente”, in una frenetica e ansiosa ricerca di autoaffermazione, ma in una “cooperazione di libertà”, affinché tutti gli esseri umani possano vivere liberi.

       Il vero male che affligge l’umanità non è il Covid-19, ma l’egoismo e la ricerca della propria affermazione. Questa pandemia è permessa da Dio, non per un castigo, ma per farci riappropriare della nostra “libertà” per il bene di tutti.

       Preghiamo perché la Pasqua che stiamo per celebrare quest’anno sia una vera occasione di resurrezione per il mondo intero, affinché si recuperi il valore della persona al di sopra di ogni logica economica e di potere.

       Preghiamo perché questa Pasqua ci aiuti a sconfiggere la morte a cui abbiamo relegato le nostre coscienze per risorgere alla vera libertà di figli di Dio nella continua ricerca della verità che edifica.

 

“Signore Gesù,

sei morto e deposto nel sepolcro.

Un grande silenzio caratterizza questo giorno santo,

in attesa della tua resurrezione.

 

Il silenzio ci fa paura,

abituati al continuo rumore delle nostre giornate.

In questi giorni abbiamo tanto tempo per riflettere,

per fare silenzio e recuperare la bellezza dell’ascolto.

 

Aiutaci ad ascoltare Te,

che parli nell’intimo di noi stessi,

nelle nostre coscienze,

che abbiamo fatto tacere,

ponendo la libertà come “idolo” della nostra vita.

 

Rendici veramente liberi,

imparando a ricercare ciò che ci edifica come persone,

come figli tuoi e fratelli di tutta l’umanità.

 

Rendici partecipi della tua resurrezione,

imparando a fare silenzio dentro di noi,

per ascoltare ciò che è essenziale e vero;

ciò che produce bene e non male;

ciò che unisce e non divide;

ciò che costruisce e non distrugge;

ciò che genera vita e non morte.

 

Rendici persone “risorte”,

liberati dalle logiche egoistiche;

liberati dagli interessi economici;

liberati dalle insidiose maglie del male;

costruttori di umanità;

promotori di libertà;

operatori di pace e di carità.

Amen”

 

Venerdì Santo “Passio Domini” – Anno A

“Obbediente fino alla morte, per indicarci la via della vita”


 

(Is 52,13- 53,12; Sal 30; Eb 4,14-16; 5,7-9; Gv 18,1- 19,42)

 

       In questo tempo l’umanità sta sperimentando la sua impotenza, anche se ha raggiunto conoscenze scientifiche tali da manipolare il genoma umano; se è riuscita a scrutare l’universo e scoprire altri pianeti, ma alla fine è costretta a fare i conti con la propria caducità, finitudine. Stiamo combattendo con un nemico invisibile, che ci ha costretto a cambiare le nostre abitudini, le nostre regole e i nostri bisogni. Per vincere questo nemico invisibile abbiamo anche riscoperto di aver bisogno del Dio invisibile!

       Abbiamo chiesto, implorato Dio di liberarci da questa calamità, da questa pandemia, da questo nemico! Si è ricorso ad ogni intercessione possibile, ma forse le domande che dobbiamo fare a noi stessi sono: “Perché Signore, tutto questo?”; “Cosa ci chiedi?” “Come rialzarci da questa dura prova?”.

       Leggiamo la nostra attuale situazione alla luce del Venerdì Santo e lasciamo che il Signore parli alla nostra coscienza, che ci indichi la via da percorrere, il cambiamento da attuare e le priorità da avere nella nostra vita.

       Il brano del profeta Isaia ci presenta il Messia come colui che conosce il patire: «[…] uomo dei dolori che ben conosce il patire […] Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; […] Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti».

       Dio avrebbe potuto manifestare la sua gloria e salvare l’umanità in tanti modi, anche i più eclatanti, facendo atterrire tutti, invece sceglie la via della “umiltà”, della “spogliazione” e facendosi in tutto simile agli uomini, eccetto il peccato (cfr Eb 4, 14-16), subendo ogni prova e soffrendo nel suo corpo. Tutto per indicare a noi che non siamo soli in questa nostra condizione fragile, destinata alla sofferenza e alla morte, ma siamo amati e destinati alla vita in Dio.

       Il Signore Gesù ha sempre detto che non saranno risparmiate calamità, pestilenze, terremoti, guerre, persecuzioni (Cfr Lc 21; Mt 26), ma queste non indicano la fine del mondo, né la punizione di Dio. Ci ricordano che siamo di passaggio in questa terra, custodi di questo mondo e, soprattutto, spesso siamo causa del nostro male.

       La passione di Cristo ci deve richiamare alla fiducia in Dio, nel suo amore e stimolare ad operare nel bene e non solo evitare il male.

       Meditare oggi sulla passione di Cristo, sulle sue sofferenze, ci deve ricordare che, essendo uomini, siamo deboli, ma in quanto resi “figli di Dio” per il sacrificio del Figlio, siamo destinati alla gloria di Dio e concorrere per il bene di tutti (cfr Rm 8, 18-30).

       La nostra partecipazione alla passione di Cristo, oggi, è di fatto vivere la quarantena come atto di carità verso il prossimo, come dono di amore per cooperare al bene di tutti.

       La nostra via crucis, le tradizioni tanto sentite del Venerdì Santo, che muovono tanti a partecipare, che commuovono i più, oggi sono “il restare a casa” per il bene di tutti: questa è la nostra partecipazione alla croce di Cristo!

       Dio oggi, a mio avviso, ci sta offrendo una grande occasione di conversione interiore, una possibilità di crescere nella fede, perché ci chiede di vivere con responsabilità, con speranza e recuperare l’essenziale mettendo ordine alle priorità della vita.

       Non dobbiamo chiedere al Signore di debellare questa pandemia, ma di convertire il cuore e la mente di tutta l’umanità, perché impari a non abusare e distruggere la vita, ma a conservarla e custodirla in ogni sua forma per il bene di tutti.

       Dobbiamo chiedere che la logica del mondo non sia l’economia, ma il benessere dell’umanità e del creato.

       Il nostro Venerdì Santo sia una meditazione della passione del Cristo e del dono di sé per l’umanità ed una presa di coscienza che come persone, e maggiormente come credenti in Cristo, abbiamo la responsabilità di cooperare per il bene.

       In questo venerdì Santo, il mondo intero è unito nel grande silenzio delle strade e nel pianto per le migliaia di vittime di questo coronavirus. La paura, l’angoscia, la solitudine e la morte hanno unito tutti gli esseri umani, senza distinzioni di nazionalità, cultura, religione, stato sociale, economico o di potere. Siamo uniti nella fragilità della nostra condizione umana, ma ancora separati da mentalità economiche e politiche.

       In questo Venerdì Santo chiediamo al Signore che tutte le persone del mondo, rese uguali dalla pandemia, si riconoscano uguali per l’umanità, ponendo fine ad ogni forma di divisione, ad ogni guerra, ad ogni interesse economico e impariamo a costruire una società in cui ogni individuo si scopra fratello del suo simile, uguali per la natura umana e non diversi per nazionalità o altro aspetto accessorio.

       Cristo ci apra mente e cuore! Uniti nella sua sofferenza, facciamo di questo momento di “nostro venerdì santo” per questa pandemia, una offerta di amore per l’umanità intera chiedendo con fede al Signore di convertire il cuore e la mente di tutti gli uomini.

       Ognuno, unito al Cristo sofferente, prenda l’impegno di cambiare per il bene proprio e del prossimo, riordinando la propria vita a partire dall’essenziale: la vita come dono!

       La lettera agli Ebrei ci ricorda quale strada dobbiamo percorrere per vivere da veri cristiani e far fruttificare la vita che abbiamo ricevuto in dono: quella della obbedienza!

       «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5, 8-9). Obbedire a Cristo significa seguirlo nella via dell’offerta di sé, cioè nella via dell’amore, della carità. Essere obbedienti al Cristo e partecipare alla sua passione, unirci alla sua passione, come dice San Paolo (Col 1, 24), significa vivere nella carità, vivere “pro”, cioè a favore del prossimo.

“Signore Gesù,

uomo dei dolori che ben conosci il patire,

guarda alla umanità intera,

colpita da questa nuova pandemia.

 

Guardala con misericordia,

come hai già fatto dalla tua croce,

e donaci la conversione del cuore e della mente,

perché questa prova

sia l’occasione per sentirci tutti fratelli.

 

Guarda alla tua Chiesa,

in ogni suo membro,

perché segua la via dell’obbedienza a te,

in uno stile di vera carità.

 

Fa che come cristiani,

ci impegniamo in questo mondo

ad essere segno del tuo amore misericordioso e fedele;

operatori di carità “senza ma e senza se”,

pronti a rendere ragione della speranza che è noi

senza paura del giudizio e della persecuzione.

 

Guardando alla tua croce,

fa che impariamo a prendere la nostra croce,

quella della “obbedienza al tuo amore”,

e a seminare amore in ogni occasione,

in ogni contesto, in ogni cuore.

Amen!"

Giovedì Santo “Coena Domini” – Anno A

“Presenza d’amore da vivere”


 

(Es 12,1-8.11-14; Sal 115; 1Cor 11,23-26; Gv 13,1-15)

 

       «Che cosa renderò al Signore, per tutti i benefici che mi ha fatto? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore» (Sal 115)

       Queste parole del Salmo 115 ci introducono a vivere con maggiore consapevolezza il Giovedì Santo, giorno in cui contempliamo e ringraziamo il Signore per il grande dono della sua presenza nel Sacramento dell’Eucaristia.

       Oggi la Chiesa fa memoria dell’Istituzione dell’Eucaristia, del dono della presenza reale di Cristo in mezzo a noi. Un mistero grande, che solo nella fede può essere creduto ed accolto.

       Il Signore, però, non ci ha da fatto solo questo dono. Ogni giorno ci ricolma di benefici, ma non sempre ne siamo coscienti, perché diamo per scontato le cose che abbiamo; gli affetti di tutti i giorni; le amicizie e le persone di famiglia. Eppure, mai come in questo giovedì Santo ci rendiamo conto di quanto sono importanti e necessarie per la nostra vita le relazioni con il prossimo.

       Per chi frequenta regolarmente i sacramenti e l’Eucaristia, questo tempo di isolamento sociale ci permette di comprendere maggiormente quanto è necessario il sostegno sacramentale.

       Deve, perciò, salire con forza e consapevolezza rinnovata il nostro rendimento di grazie al Signore per i suoi benefici, per i suoi doni di grazia.

       Nel rendere grazie al Signore, soffermiamo la nostra attenzione contemplativa sul suo immenso amore: «Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13, 1).

       L’evangelista Giovanni sottolinea con enfasi la missione di Gesù, la sua vicenda umana, tutta orientata sull’amore. Un’esperienza di amore che arriva fino al dono totale di sé sulla croce per i suoi.

       «I suoi che erano nel mondo» indica sia i discepoli, i credenti di ogni tempo, sia i semplici uomini in ricerca di senso, di Dio, perché Egli crea uno spiraglio di desiderio di accoglienza e di luce in ogni cuore che si apre alla ricerca di verità.

       Tutti siamo inseriti nell’amore di Dio in Cristo Gesù. Nessuno è escluso, basta solo aprirsi, uscire dall’egocentrismo e cercare il senso dell’esistere oltre sé stessi.

       Chi ha fatto esperienza dell’amore di Dio sente anche la responsabilità di testimoniarlo, di viverlo.

       Gesù stesso, nell’atto supremo dell’amore per i suoi, indica quale sia la modalità per noi di vivere e testimoniare l’amore incontrato, ricevuto, che invade l’intimo e spinge a donarlo: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13, 14-15).

       Se vogliamo essere cristiani veri e maturi non abbiamo altra via se non quella di seguire l’esempio del Maestro e Signore. Siamo obbligati dall’amore incontrato ad agire verso i fratelli con uno stile di vita fatto di servizio ed amore umile e generoso.

       La lavanda dei piedi, possiamo dire essere la modalità di vivere il dono dell’eucaristia a cui ci accostiamo. Il sacramento che riceviamo, con tanta fede e devozione, deve essere attuato con uno stile di vita di “servizio amorevole ed umile”, altrimenti diventa motivo di condanna (cfr 1Cor 11, 17-34).

       «Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi». Gesù istituisce il servizio come legge fondamentale e norma di vita per ogni cristiano. La via della croce, della abnegazione, del rinnegamento di sé altro non è che liberarsi dall’egoismo e aprirsi al servizio di amore, umile e gratuito.

       La carità è una via da percorrere, come di insegna San Paolo (1Cor 13), e san Pietro ci esorta a vivere la carità fervente «perché la carità copre una moltitudine di peccati» (1Pt 4, 8).

       “Lavare i piedi” è un insegnamento e una “modalità etica” che abbraccia l’insieme della vita cristiana vissuta nell’amore. Sant’Agostino, vescovo di Ippona, così presenta il gesto del Signore della lavanda: «Egli ci lava i peccati intercedendo per noi quando preghiamo il Padre di rimettere i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Dobbiamo forse dire che il fratello potrà purificare il fratello dal contagio del peccato? Senza dubbio! Dobbiamo intendere che proprio questo ci viene insegnato dalla profondità del gesto del Signore. Perdonandoci a vicenda i nostri torti, pregando l'uno per l'altro, in certo modo a vicenda ci laveremo i nostri piedi. È nostro dovere adempiere questo ministero di carità e di umiltà. Al Signore è riservato esaudirei, purificandoci da ogni contagio di peccati, per Cristo e in Cristo! E di sciogliere in Cielo ciò che in terra sciogliamo: i debiti che noi avremo rimesso ai nostri debitori»[1].

 

“Signore Gesù,

tu che ci ami e ti sei donato a noi,

e ci inviti ad imitare il tuo amore

ponendoci al servizio gli uni degli altri,

accresci in noi la fede perché non sempre riusciamo a seguire la tua volontà.

 

Sostienici con la tua grazia:

quando lo sconforto ci assale,

quando le prove della vita ci chiudono agli altri,

quando i torti e le delusioni ci irrigidiscono.

 

Donaci il tuo amore,

il tuo Spirito paraclito,

Spirito di luce e di sapienza,

perché ci guidi e ci sostenga nel nostro cammino di fede.

 

Rendici capaci di servire il nostro prossimo,

di amarlo quando tutto grida il contrario,

di accoglierlo quando il nostro cuore si serra per non soffrire,

di servirlo quando ci sentiamo superiori e giusti.

 

Rendici Presenza tua, Eucaristia vivente nel mondo,

perché ognuno possa aprirsi al tuo amore,

sentendosi amati da Te,

anche attraverso il nostro umile gesto di attenzione.

 

Rendici adoratori di Te,

presente nell’Eucaristia;

rendici testimoni di Te,

in opere e parole,

che edifichino e accolgano tutti.

Amen!"   

 

[1] Agostino, In Johannem 58, 5: PL 35, 1795 citato da G. Zevini, Vangelo secondo Giovanni, vol II, p. 111-112

Il Triduo Pasquale

“I segni della Fede”

La Presenza che sostiene – l’Offerta che libera – il Silenzio che apre alla vita


 

       Ecco i giorni forti della nostra fede! Anche se non possiamo celebrarli in presenza, recandoci in chiesa, non possiamo lasciarli passare senza meditare sui misteri della nostra fede, sul dono di Grazia che Cristo ci ha conquistato con l’offerta della sua vita, nella obbedienza al Padre e nell’amore per misericordioso!

       Abbiamo bisogno di viverli in modo pieno e attento perché la nostra vita sia sempre carica di speranza, i nostri pensieri e gesti siano di carità e la nostra volontà sia sempre illuminata dalla fede.

       I giorni del Triduo Pasquale sono giorni ricchi di “segni della fede” che ci permettono di attuare ciò che S. Paolo dice ai Colossesi: «Come dunque avete accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate, radicati e costruiti su di lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, sovrabbondando nel rendimento di grazie. Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo» (Col 2, 6-8).

 

       Il Giovedì Santo è il giorno della “Presenza” che sostiene. Questa presenza richiede tre momenti:

       Fare memoria della istituzione della Eucaristia: significa orientare tutta la vita in funzione di questa Presenza.

       Riconoscere questa Presenza: vuol dire accogliere il dono ricevuto e renderlo visibile in noi; vuol dire rendere la nostra vita aperta nella donazione di sé, nell’accoglienza e nell’impegno di costruire relazioni autentiche fondate sul servizio di carità nella verità. Solo una costante relazione con questa Presenza, che sostiene, illumina, conforta e corrobora, conduce a riconoscere ogni momento della nostra esistenza come occasione per “fare la volontà del Padre”.

       Vivere alla Presenza: necessaria per cambiare mentalità; vivere della Presenza per edificare nella verità; vivere nella Presenza per educarci nella carità.

      

       Il Venerdì Santo è il giorno della “Offerta” che libera.

     L’Apostolo Pietro lo afferma chiaramente: «Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia» (1Pt 1,18-19).

       Quanto bisogno di libertà, quanta ricerca di riscatto dalla mediocrità della vita, quanto affanno per conquistare una posizione nuova nella vita.

       Cristo ci ha dato tutto questo offrendosi a noi e per noi sul trono della croce, per elevare la nostra condizione umana dalla schiavitù alla libertà. Questo è comprensibile ed accettabile solo se riusciamo a “guardare oltre”.

       Guardare oltre la logica del tutto e subito.

       Guardare oltre la regola del “carpe diem”.

       Guardare oltre le strettoie del nichilismo.

       La croce del Cristo è speranza e regola di vita; è “Offerta” che libera il cuore per amare senza misura.

      

       Il Sabato Santo è il giorno del “Silenzio” che apre alla vita.

      Non è il silenzio della morte, del vuoto esistenziale che fa precipitare nella disperazione, ma il “Silenzio dell’Amore” che aspetta di essere riconosciuto da noi e accolto, per allargare gli orizzonti e generare vita.

       È giorno del “Silenzio” eloquente dell’Amante verso l’amato da vivere nel far tacere tutto ciò che distoglie da questo dialogo di amore, perché sia un “silenzio” che allarga il nostro cuore e rigenera la nostra vita guarendo ogni ferita e dolore.

 

 

Domenica delle Palme – Anno A

“Essere umili per fare la volontà di Dio”


 

(Mt 21,1-11; Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mt 26,14- 27,66)

 

       «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26, 41).

       Pensando a ciò che stiamo vivendo e rivedendo nella mente le scene strazianti di questi giorni, questa frase di Gesù risuona con tanta forza dentro di me, declinandosi in tanti aspetti della vita.

       Il desiderio di amare Dio e di seguirlo, di comprendere e vivere la sua Parola ed agire sempre secondo la sua volontà fa spesso i conti con la mia umanità, i miei limiti e i miei difetti.

       Vorrei fare tanto, ma mi ritrovo sempre a scontrarmi con i miei errori. Mi sento impotente ed impaurito di fronte alla malattia, alla sofferenza, sia fisica che spirituale, ed alla morte. La debolezza della condizione umana mi richiama i miei errori e limiti, ma mi fa sentire anche amato da Dio. Se con il passare degli anni capisco quanto poco tempo abbiamo per vivere al meglio la vita, trovo anche maggiore stimolo a non perdere il tempo che ho a disposizione per amare e gustare la gioia degli incontri, dei momenti di scambio, delle condivisioni con le tante persone che ho la fortuna di incontrare.

       Purtroppo, i rapporti umani non vanno sempre come si vorrebbe e tante relazioni si interrompono, per ragioni futili, per interessi umani, che poco hanno a che fare con la “Verità”, con Dio, ma che spesso riusciamo anche a giustificarli davanti a Lui!

       In questi casi la frase di Gesù assume un significato contrario a quello che ha: lo spirito, la coscienza, la volontà di vivere secondo Dio diventa succube delle logiche umane che hanno l’ardire di giustizia divina, di correttezza morale.

       San Paolo esprime bene il conflitto interiore che vive tra la legge di Dio e quella della carne, un confitto che è di ogni vero credente: «Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra» (Rm 7, 22-23)

       Comprendere il corretto rapporto “spirito-carne” permette di vivere l’equilibrio nella vita e stimola a cercare sempre più ciò che permette di apprezzarla per quella che è: un meraviglioso dono da far crescere e condividere. Permette di cercare la “Verità” e di compierla; di fare propria la preghiera di Gesù al Padre nell’orto del Getsemani: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26, 39).

       Comprendere il rapporto “spirito-carne” ci fa crescere nell’umiltà, cambiare mentalità ed assumere la logica di Dio. Ci rende più “umani”, perché ci fa vivere da “figli di Dio”, destinati alla “gloria di Dio”.

       Tutto questo richiede la disposizione all’umiltà del cuore! Gesù è il modello di uomo da seguire. San Paolo lo dice nella pericope di Filippesi: «Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 6-8). La “kénosi” di Cristo, il suo umiliarsi fino alla morte di croce, è la via da imitare per compiere anche noi la volontà di Dio Padre.

       In cosa consiste per noi? Certamente lavorare sul nostro orgoglio personale, sul bisogno di affermazione, sull’egoismo ed egocentrismo che è connaturale con il nostro essere a diversi livelli.

       Ognuno ha il suo cammino da compiere. Ognuno, nell’intimo della propria coscienza, sa in cosa consiste per sé il lavoro di umiltà, di svuotamento del proprio orgoglio, da dover compiere.

       Per questo è importante, come invita Gesù, pregare: «Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26, 41). Vigilare su sé stessi, sul proprio pensiero, sui propri sentimenti, sugli atteggiamenti e gesti. Pregare per comprendere e compiere ogni cosa nella volontà di Dio, che consiste non in cose straordinarie ed eroiche, ma nel quotidiano compiuto con amore e verità.

       In questi giorni, angosciati per la pandemia e provati dalle tante vittime, non è facile dire con Cristo: “non si compia la mia, ma la tua volontà”. Qual è la volontà di Dio? Cosa ci chiede il Signore? Vuole la nostra sconfitta? Vuole la morte di migliaia di persone?

       Certamente non è questa la sua volontà. Eppure tutto è da lui voluto, permesso! Di conseguenza, oggi fare la volontà di Dio è riconoscere innanzitutto che siamo destinati alla morte e siamo fragili, impotenti e limitati.

       Fare la volontà di Dio, in questa situazione, significa sicuramente impegnarsi a salvaguardare la propria ed altrui salute. Significa riconoscere, ancora una volta, che nulla siamo e possiamo, ma tutto è un dono ricevuto.

       Significa recuperare ciò che abbiamo perduto, presi dalla frenesia della nostra società. Significa guardare a questo momento come ad una occasione di bene da compiere, di amore da recuperare, di perdono da chiedere al prossimo che abbiamo ferito.

       Significa affidarsi ed abbandonarsi nelle mani del Padre misericordioso, certi del suo amore e del suo perdono. Significa non cadere nella disperazione ed angoscia, ma saper dire a Dio il nostro “Amen”, “così sia”.

       La figura di Pietro, nell’orto del Getsemani, provato dal sonno, e nel cortile, impaurito e incapace di professare la sua fede, mi sembra, rappresenti la condizione di ciascuno di noi di fronte alla sfida di questi giorni. Siamo provati dalla malattia, dalla veloce diffusione; impauriti dal contagio e dalle severe conseguenze; impotenti e incoscienti nello stesso tempo.

       Se da una parte ci aggrappiamo alla fede, dall’altra non vogliamo riconoscere la nostra debolezza e caducità. Riscopriamo la possibilità di credere, ma cerchiamo un Dio che sia la soluzione al problema e poi ci lasci in pace nel riprendere a vivere senza di Lui.

       Se ci soffermiamo sulla figura di Pietro riusciamo a ritrovare il giusto modo di rapportarci a Dio e a disporre il cuore a fare la sua volontà. Pietro era certo di aver capito e conosciuto chi era Gesù, ma di fatto aveva una conoscenza non completa e in parte erronea. Pensava al Messia, ma non poteva accettare la sua morte. Era pronto ad accettare un Messia forte, liberatore, ma non capiva ancora in che modo la forza e la liberazione si sarebbe manifestata in Gesù Cristo.

       Solo quando ha toccato con mano la sua fragilità e ha ricordato le parole di Gesù, parole non di accusa, ma di amorevolezza e verità, è stato in grado di amarlo fino in fondo, umiliandosi nel pianto (“pianse amaramente”), aprendosi al suo perdono rigeneratore.

       Se non siamo disposti a liberarci dalla nostra arroganza di gestire e controllare la nostra vita, potendo accettare così solo un Dio che sia a totale nostra disposizione, anziché aprirci all’esperienza rigenerante e consolante dell’amore misericordioso del Padre, non potremo fare altro che chiuderci totalmente a Dio ed accusarlo di essere un tiranno fino negare la sua esistenza, oppure cadere nella disperazione come Giuda Iscariota e decretare la morte della nostra coscienza morale, assoggettandola a valori individualistici o di opportunità.

       «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26, 41).

 

“Signore Gesù,

contemplando la tua Passione,

ti chiedo di accrescere la mia fede.

 

Riconosco che vorrei amarti e seguirti,

ma spesso mi ritrovo a cercare e fare

quello che voglio io e non la tua volontà.

       

Aiutami a capire,

in ogni momento della mia vita,

cosa è giusto davanti a Te,

quale sia la volontà del Padre.

 

Con Pietro, sopraffatto dalla debolezza umana

e impaurito di fronte alla prova,

ti chiedo perdono per la mia incredulità,

per il mio peccato, per il mio orgoglio.

 

Concedimi la tua Grazia,

perché faccia della mia vita una lode a Te,

delle relazioni con il prossimo un servizio di carità,

dei vari momenti della giornata una opportunità

per edificare e mai distruggere,

per seminare speranza e mai disperazione.

Amen!”


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