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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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Prima Domenica di Avvento – Anno B - 2020

“Vigilare per conservarsi nell’Amore”


 

 

(Is 63,16-17.19; 64,2-7; Sal 79; 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37)

 

       Iniziamo un nuovo anno liturgico all’insegna della speranza o della routine? Iniziamo il tempo della preparazione alla Solennità del Natale per abitudine o con rinnovato e approfondito spirito di “vigilanza”?

       Credo siano domande che ognuno deve porsi per non svuotare di senso e valore il cammino di fede e le festività a cui ci si prepara con l’Avvento.

       Se ci guardiamo attorno non possiamo che constatare come il Natale è stato trasformato in una “atmosfera magica”, in un “tempo in cui sentirsi buoni”, in “occasione per ricordarsi dei familiari con i regali”. Tutto ormai del Natale è carico di “buonismo” e di “consumismo”.

       Il Natale, ormai, è tutto tranne il memoriale dell’Incarnazione!

       L’Avvento, di conseguenza, è un tempo di preparazione alla festa del perbenismo e del consumo, ma non un tempo di riflessione per ridare spazio al Signore e dargli il primato nella nostra esistenza.

       La parola chiave di questa prima domenica, “Vegliate”, è quanto mai urgente e necessaria.

       La “vigilanza” è la condizione del credente che vive l’oggi in continua tensione verso l’eterno.

       Nel contesto del tempo presente, la “vigilanza” deve essere recuperata nel suo significato teologico e morale.

       Il credente vive l’attesa dell’incontro con il Cristo in un atteggiamento di vigilanza, cioè pronto, desto, attento, prudente, sveglio spiritualmente.

       La vigilanza è propria di colui che “attende” il ritorno glorioso del Cristo per essere partecipe della Salvezza. Nello stesso tempo la vigilanza è attenzione a vivere e attuare il bene, per essere degni dell’incontro con il Cristo.

       Il brano evangelico sottolinea un particolare, a mio avviso, importante: «[…] dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito […]» (Mc 13, 34). Il Signore ci ha posti nella condizione di pieno potere, ognuno con il proprio compito. Siamo chiamati alla piena responsabilità per fare della vita una continua occasione di costruzione del Regno di Dio: questa è l’essenza del cammino di fede!

       Il tempo presente è la continua opportunità per vivere da figli di Dio e per costruire il suo Regno. Alla fine della nostra esistenza, nel momento dell’incontro con il Signore, ci verrà chiesto come abbiamo impiegato il tempo e la responsabilità affidata.

       La vigilanza, a cui il Signore ci invita, è il costante discernimento nel non perdere le occasioni e le opportunità per fare il bene e per collaborare con gli altri a realizzarlo.

       L’invito che riceviamo continuamente dal Signore, ribadito nel brano evangelico, è quello di “restare svegli”: «[…] fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati» (Mt 13, 36).

       Stare svegli! Quanto bisogno abbiamo oggi di “restare svegli”, di non “fare addormentare” la nostra coscienza, di “vigilare” per non assecondare il male, le errate valutazioni delle cose e delle circostanze, per non ritrovarsi con un “coscienza” addormentata, incapace di conoscere e valutare, di ricercare e aderire al bene.

       Oggi assistiamo ad un appiattimento e annichilimento delle coscienze, causato dal costante propinare bisogni e attese effimeri, materiali, passeggeri.

       Sempre più presi dalla difesa della propria libertà e scelta di valutazione, si perdono i valori oggettivi e universali per riportare tutto alla sfera individuale e necessità personali.

       Occorre lottare per non perdere la propria libertà, assoggettandola al potere dell’effimero e del materialismo, conservandola scevra da ogni riduzione, riconoscendo il proprio valore non per ciò che si possiede, bensì per ciò che si è!

       Vigilare significa, dunque, non cadere nella schiavitù dei bisogni materiali e nell’egoismo esasperato.

       Vigilare è impegno a conservarsi nella vera libertà dei figli di Dio, riconoscendo ciò si è perché amati e chiamati a operare affinché nessuno perda la propria dignità di figli, di creature capaci di fare il bene.

       L’Avvento è il tempo liturgico di preparazione al Natale, ma di fatto è l’atteggiamento costitutivo del credente, sempre teso verso il Signore, pronto a dare ragione della speranza che è in sé e che guida ogni decisione e gesto.

        L’Avvento e la vigilanza sono il segno dell’appartenenza a Cristo, che permettono di ricevere e vivere nella sua Grazia.

        Viviamo con rinnovato spirito di vigilanza questo tempo di grazia per mettere ordine ai valori su cui costruiamo la nostra vita.

        Chiediamo con fede i doni della Grazia, perché possiamo crescere nel dono “della parola” e “della conoscenza” (cfr. 1Cor 1, 5), per essere veri testimoni del Cristo, incarnato, morto e risorto per amore dell’umanità.

 

“Signore Gesù,

iniziamo un nuovo anno liturgico,

con il tempo dell’Avvento.

 

Fa’ che sia un tempo di grazia,

un rinnovato impegno a cercare Te,

ad incontrarti nella tua Parola,

a conoscere e attuare la Volontà del Padre,

seguendo Te, nella via della spogliazione,

dell’abbassamento.

 

Donaci il tuo Spirito,

che ci insegni a ricercare solo ciò che edifica,

a non chiuderci nell’egoismo,

a vivere nella vera libertà,

non del fare ma dell’essere.

 

Rendici testimoni gioiosi e veri del tuo Amore,

capaci di anteporre Te a tutto;

di impegnarci a fare della nostra vita un dono

per gli altri, una ricerca costante di quello che edifica,

senza mai montare in superbia,

ma conservandoci nella umiltà del cuore,

riconoscendo che tutto è dono Tuo

e tutto a Te deve tornare.

Amen!”

 

XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo

“Protagonisti della vita nell’amore di Dio”


 

 

(Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46)

 

       “Protagonisti del proprio futuro!” “Costruttori della propria vita!” Non sono slogan pubblicitari né tantomeno desideri a cui tendere, ma la realtà della vita e della esperienza di fede.

       Ognuno ha nelle proprie mani la propria vita e la costruisce con ciò che opera, decide, realizza. Il “destino” è determinato da ciascuno in base a quello che sceglie anche se condizionato, influenzato o coinvolto da quello del prossimo.

       Siamo, dunque, protagonisti della nostra vita, ma nello stesso tempo siamo in relazione con il prossimo a diversi livelli di coinvolgimento, pertanto dobbiamo sentire la responsabilità della influenza e partecipazione alla vita del nostro prossimo.

       Nella prospettiva di fede questa corresponsabilità è talmente fondamentale che diventa il metro di giudizio da parte di Dio sulla nostra vita.

       Il brano evangelico, di Mt 25,31-46, ribadisce questo concetto e lega la nostra adesione di fede alla vita di carità e di compartecipazione con il prossimo.

       Il giudizio di Dio alla fine della nostra vita non sarà altro che una costatazione e ratifica di quello che abbiamo deciso, vissuto, determinato nella nostra esistenza.

       La caratteristica particolare che distingue il cristiano dal non credente è e resta l’amore agapico con il quale vivere, che supera ogni cosa, perdona ogni cosa, è a fondamento di ogni pensiero, desiderio, volontà e momento della vita.

       Il modello di questo amore è Dio, che nel Cristo si è definitivamente rivelato come amore misericordioso e fedele, e chiama “amici” tutti coloro che decidono di seguirlo e mettere in pratica la sua Parola.

       La solennità di Gesù Cristo Re e Signore dell’Universo trova significato in questa prospettiva di amore. Dio non è un tiranno, non è un monarca, un re che ha sudditi ai suoi piedi, ma è un Padre, il “pastore bello e buono” che ha cura delle sue pecore e le guida ai pascoli abbondanti, le dirige con giustizia perché tutte riconosce come figli amati.

       Seguire e proclamare il Cristo Signore e Re dell’Universo significa impegnarsi affinché il mondo conosca, creda, sperimenti e viva il suo amore: questa è la responsabilità del credente, del battezzato e in questo consiste la fede.

       La fede, infatti, è luce che deve illuminare le scelte, a compiere il corretto discernimento, deve orientare e dirigere la volontà a compiere il bene.

       La fede non è emozione, sentimento, questione intima, ma è fondamento e costitutivo del vivere. Non è devozione, rito, culto vissuti slegati dalla quotidianità, ma si corrobora e cresce con la preghiera, il culto, l’ascolto della Parola per vivere in pienezza e responsabilità la quotidianità carica dell’amore di Dio.

       Gesù lo ribadisce chiaramente nel brano evangelico: se vogliamo amarlo e servirlo lo dobbiamo fare nei fratelli! L’evangelista elenca alcune categorie: affamati, assetati, nudi, stranieri, malati, carcerati. Essi rappresentano le povertà, le emarginazioni di sempre, ma sappiamo che non dobbiamo limitarci a considerare solo queste categorie perché il servizio di carità è alla persona in ogni condizione e possibilità. Oggi più che mai parlare di povertà, di stranieri, di malati e carcerati è all’ordine del giorno e oggetto, a volte di speculazione ideologica, ma il cristiano è e deve sempre essere scevro da ogni condizionamento e riduzione ideologica altrimenti non è più un servizio di “agape”.

       Inoltre, nella nostra società assistiamo a tante altre forme di povertà spirituale, morale, valoriale che come credenti siamo chiamati a servire con altrettanto impegno e passione.

       Oggi, nonostante il benessere, lo sviluppo tecnologico, economico, scientifico, la società è sempre più vuota di valori, di sentimenti; ha bisogno di padri/madri, maestri, testimoni che si sanno porre accanto con discrezione, dolcezza, gratuità, determinazione, pazienza e fermezza.

       L’impegno di fede oggi è ancor più impegnativo perché i primi a dover essere rieducati e formati alla fede sono i battezzati, coloro che appartengono alla fede cristiana per tradizione.

       Le comunità parrocchiali, i gruppi di laicato, le associazioni di volontariato di ispirazione cristiana hanno bisogno di riscoprire la novità del Vangelo per un servizio di amore sempre più libero e fedele a Cristo Signore e Re, pastore bello e buono delle nostre anime.

       Il mondo ha bisogno di cristiani che si riconoscano per come amano e servono, che è diverso dal modo di amare e servire secondo la logica umana e del mondo, perché è guidato dallo Spirito Santo.

       I cristiani, imparando dal Cristo, vivono il loro rapporto con il prossimo da fratelli, senza divisione, discriminazione e giudizio. Per vivere questo è necessario vivere un rapporto con Dio vero e profondo attraverso l’ascolto della Parola, la vita sacramentale, la preghiera personale e comunitaria.

       Per amare come Dio, per servire i fratelli con l’amore di Dio, per essere seguaci e amici di Dio occorre lasciarsi rinnovare da Lui, mettersi alla sua scuola, rinnegare il nostro egoismo, il modo di amare possessivo e utilitaristico che è proprio della condizione umana.

      

“Signore Gesù,

Re e Signore,

pastore bello e buono delle nostre anime,

mi affido a Te.

 

Tu mi hai insegnato ad amare il prossimo

e riconoscerlo come tuo e mio fratello,

insegnami a vincere ogni egoismo,

a liberarmi da ogni logica di profitto e di potere,

per amare e servire.

 

Aiutami a fare di ogni mio gesto, pensiero, parola,

una espressione del mio appartenere a Te,

per essere riconosciuto alla fine della mia vita

come tuo fratello, servo della verità,

costruttore del tuo Regno di amore,

e partecipare così alla tua gloria

nel tuo Regno.

Amen!”

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“Cristiano diventa ciò che sei”


 

 

(Pr 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30)

 

 

      Se Diogene vivesse oggi, andrebbe sicuramente ancora in giro con la sua lanterna in cerca dell’uomo, ma ancor più del cristiano vero, autentico, maturo.

       Mons. Mariano Magrassi, abate di Noci e, poi, arcivescovo di Bari, soleva ripetere: “Cristiano diventa quello che sei”, indicando con questa espressione ciò che di fatto è la vita cristiana: un cammino di crescita continua fino alla maturità di fede ed una vita coerente con il credo professato[1].

       La nostra società, la Chiesa odierna ha bisogno di cristiani maturi nella fede e coerenti, testimoni saldi e autentici, credenti umili e coraggiosi.

       San Paolo richiama i cristiani alla loro identità: «[…] non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre» (1Ts 5, 5-6), ed ancora «Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio» (Col 3,1).

        San Paolo richiama all’identità della fede come costitutivo di vita nuova per ogni battezzato. La fede non è questione di culto, di preghiere, di pratiche e di precetti, ma, prima di questo e a fondamento di tutto ciò, avere fede significa rinnovare la propria mente, il proprio cuore per l’incontro con Dio amore e orientare tutto sé stessi a Lui, in modo che ogni cosa di sé esprima l’appartenenza a Dio. La fede è un cammino continuo di rinnovamento interiore, è «rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità» (Ef 4, 24).

        La parabola evangelica dei talenti (Mt 25, 14-30) è un invito a far fruttificare il dono ricevuto del Battesimo, della fede. Non è l’elogio della meritocrazia o della capacità di saper investire e far fruttificare il denaro. Non è un insegnamento di economia o di finanza, bensì un richiamo alla comunità di fede e al singolo credente a non vanificare il dono ricevuto, ma a saperlo rendere presente e a farlo fruttificare in opere di carità, di testimonianza, di amore per il prossimo in nome della Verità incontrata, Cristo Signore.

        La parabola esorta le comunità di fede a bandire l’attivismo pastorale fino a sé stesso e a impegnarsi in una vera evangelizzazione che faccia prendere coscienza ai battezzati che credere significa impegnarsi a vivere in pienezza l’insegnamento di Cristo; a servire il prossimo in verità e carità; ad evangelizzare con la parola e l’esempio la porzione di mondo in cui vivono.

        La parabola richiama anche al vero volto di Dio, che è sì severo, esigente, capace di mietere dove non ha seminato, raccogliere dove non ha sparso, ma perché prima ama e si dona e di conseguenza chiede di amare e donarsi sul suo esempio e in questo consiste la sua esigenza, severità e il suo giudizio.

        Dio non è, dunque, un giudice spietato, un tiranno severo o un esattore esigente, ma è Amore che si dona e una volta conosciuto e accolto esige che si ami e ci si doni come Lui al prossimo.

         I talenti, gli interessi, e le modalità usate per far crescere ciò che si è ricevuto, sebbene siano termini che richiamano ad un discorso di economia, di finanza, di fatto rappresentano ciò che è il cammino di fede. I talenti rappresentano il dono della Parola, dei Sacramenti, della Grazia, che ognuno riceve per il rapporto con Dio. I banchieri o le modalità di impiego dei talenti rappresentano le tante vie di carità vissute, le persone servite, sostenute, accudite, istruite, guidate, corrette, che di fatto permettono alla fede di crescere e di proliferare come dono dato a chi abbiamo servito ed amato.

         La paura e il nascondimento del talento simboleggia il comportamento di chi vive la propria fede limitandosi alla pratica religiosa, alla devozione, ad una fede intimistica e personale, impaurita e condizionata dal giudizio del prossimo, tenuta in disparte per non essere esclusi dal mondo.

         Inoltre, la parabola ci ricorda che siamo noi protagonisti e costruttori della nostra vita e prepariamo il giudizio finale di Dio con i nostri gesti, decisioni e giudizi.

         «Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha» (Mt 25, 30). Suona come una ingiustizia ad una lettura superficiale, ma il giudizio di Dio è un ratificare ciò che di fatto noi scegliamo istante per istante nella nostra vita. La santità è proprio questo: vivere nell’amore di Dio, agire con l’amore di Dio, giudicare con il giudizio di Dio. La santità è l’abbondanza di amore che Dio riversa nel cuore di chi ama con la sua misura: «Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6, 38).

          Gesù ci esorta a tenere desta la nostra fede, a vigilare in modo attivo, impegnandoci a operare nel suo amore e nella verità della sua Parola.

          Il mondo ha bisogno che i cristiani riprendano in mano la propria vita di fede e si impegnino nella società, testimoniando con fermezza e coraggio il Vangelo.

         Le comunità parrocchiali, e la Chiesa universale tutta, ha bisogno di fedeli impegnati e formati per portare nelle varie situazioni della società i valori evangelici, perché l’umanità non perda la sua dignità e si liberi dalla schiavitù dell’effimero e dell’apparenza a cui la cultura moderna l’ha assoggettata.

         La società odierna ha bisogno di credenti capaci di essere liberi da compromessi con le ideologie politiche; di promotori della crescita integrale dell’umanità attraverso il servizio di formazione delle coscienze ai valori e alla capacità di discernimento di ciò che è bene.

         Oggi e sempre i cristiani devono essere «[…] irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita» (Fil 2, 15-16).

         Facciamo fruttificare i talenti, cioè la fede, attraverso l’ascolto e la meditazione della Parola, la pratica dei Sacramenti e l’impegno di carità verso ogni persona, per “diventare quello che siamo”: figli amati, che amano e servono il prossimo con la misura di Dio!

 

[1] M. Magrassi, Diventa quello che sei. Dal Battesimo ad una maturità di fede e coerenza di vita, Elledici, Leumann (To) 1983.

XXXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“Sapienti operatori di carità in verità”


 

(Sap 6,12-16; Sal 62; 1Ts 4,13-18; Mt 25,1-13)

 

       Dare senso all’esistere è sicuramente l’obiettivo comune di tutti per raggiungere la serenità e realizzazione di sé.

       Il senso e il fine della vita non sono sempre riconosciuti in Dio e, soprattutto nella cultura occidentale odierna, il senso e il fine coincidono con il benessere e l’efficienza fisica.

       La parabola evangelica di Mt 25, 1-13, presenta la realtà della vita come una vigilanza, un’attesa dello Sposo, il Signore Gesù, da parte dell’umanità rappresentata dalla dieci vergini. La vigilanza è vissuta con “saggezza” o con “stoltezza”, in base alle opere compiute e al fondamento su cui si costruisce la propria esistenza.

       Stoltezza (μωρα, fatuae) o prudenza/saggezza (φρόνησις, prudentes): in cosa consiste la differenza? Nel prepararsi o meno all’incontro con il Signore, prendendo con sé l’olio, come indica l’evangelista. In Mt 7,24-27 troviamo espressa la contrapposizione tra saggezza e stoltezza, a conclusione del “discorso della montagna”: «Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio (phrónimos, prudens), che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto (morós, stultus), che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande».

       Il saggio è chi ascolta la Parola e la mette in pratica; lo stolto è chi ascolta e non fa. L’ascolto è comune allo stolto e al saggio: ciò che li differenzia è la pratica. Saggio è colui che è prudente, che sa provvedersi, prepararsi, equipaggiarsi. Lo stolto è colui che è grossolano, vuoto, fatuo, disattento, che parla, parla, e poco conclude, perché incapace di fare unità tra le parole e le azioni.

       Lo stolto si accontenta dell’effimero, del passeggero e del presente, incapace di programmare e prevedere il proprio futuro: vive alla giornata, sempre attento a ciò che il presente offre esautorando tutte le energie senza pensare al domani.

       Il saggio vive il presente sempre in tensione verso il futuro, che lo realizza giorno per giorno, in un costante impegno di attenzione, valutazione e discernimento.

       Nella ricerca di senso del proprio esistere, le possibili modalità di ricerca sono dunque la stoltezza e la prudenza/saggezza. Entrambe non sono esenti da cadute, rallentamenti, fatiche, stanchezza, ma la differenza sta nel saper affrontare queste situazioni e riprendere il cammino di vigilanza ed attesa. L’evangelista esprime questo con la sottolineatura: «[…] si assopirono tutte e si addormentarono» (Mt 25, 5).

       La lampada è il simbolo della vita e della fede e l’olio rappresenta le opere giuste che si compiono nel cammino della vita, che nel contesto della parabola sono simbolo di perseveranza fino all’arrivo dello Sposo. Le vergini attendono lo Sposo con il proprio bagaglio di vita, con il fardello delle opere giuste compiute. La differenza si evidenzia al risveglio dopo l’annuncio dell’arrivo dello Sposo: le cinque stolte non hanno con sé l’olio, dunque sono costrette a chiederne un po’ alle altre cinque. Si sentono però rispondere: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto a comprarvene”.

       È una risposta egoistica? Hanno mancato di carità? No, di certo! Indica solo che alla fine della vita nessuno può operare per l’altro, nessuno è in grado di fare qualcosa per l’altro, ognuno dovrà rispondere per sé.

       L’indicazione delle vergini sagge: «[…] andate piuttosto dai venditori e compratevene» (v. 9) è per i vivi, per il presente. I venditori sono il prossimo da amare e servire nella “carità” e “verità”, sono i poveri, i deboli, gli afflitti, i perseguitati, i malati, i carcerati, gli affamati e assetati, i dubbiosi e i peccatori. Amare e servire il prossimo con carità e verità permette di acquistare l’olio per alimentare la lampada della vita.

       Le opere di misericordia, corporali e spirituali, sono i gesti di amore che presenteremo al Signore quando busserà alla porta della nostra vita e ci inviterà al banchetto di nozze.

       Decidere una vita basata sull’amore o sull’effimero ci pone nella condizione di saggezza o di stoltezza.

Ricercare la Sapienza, operare con giustizia e onestà, amare e perdonare, rende la nostra vita piena di senso e di valore, permettendo di trovare la forza di rialzarsi di fronte alle difficoltà, cadute, prove e sofferenze.

Scegliere, ricercare e vivere in funzione di ciò che è effimero, passeggero, materiale e contingente rende la vita priva di fondamenti, stolta, incapace di superare difficoltà e prove, di fare i conti con il tempo e la perdita della prestanza fisica, della forza e della capacità di fare. Una vita spesa nel cogliere l’occasione quando si presenta, nell’apparire piuttosto che nell’essere, puntando tutto sulla bellezza esteriore o sul successo, conduce alla perdita di senso e di valore.

        «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (v. 13).

       L’invito è a vivere la vita nella continua vigilanza, non tanto per attendere la morte, quanto piuttosto nel vivere la vita in pienezza ed acquistare l’olio che ci renderà possibile la vita eterna con Dio. L’invito alla vigilanza è l’invito alla sapienza, alla ricerca di ciò che è duraturo e autentico, di ciò che dà valore e consistenza alla vita. L’invito è a vivere ogni giorno con la consapevolezza che possa essere l’ultimo, ma anche con la determinazione a renderlo carico di amore e verità, vivendo relazioni il più possibile tesi al bene e all’edificazione vicendevole.

        Inoltre, l’invito alla vigilanza e a vivere la ricerca della saggezza diventa l’impegno per ogni battezzato di riportare nella nostra vita, nelle nostre relazioni, nelle nostre scelte Dio, perché le giovani generazioni abbiano modelli autentici da seguire, ideali veri da raggiungere.

        Impegniamoci a rendere la nostra vita di battezzati una officina di opere giuste, caritatevoli e guidate dalla ricerca della verità e del bene. Sentiamoci chiamati ad essere “testimoni” di sapienza vivendo la fede e la carità in speranza.


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