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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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Solennità di Tutti i Santi - 2020

“Santi nella originalità del proprio essere”


 

 

(Ap 7,2-4.9-14 - Sal 23 - 1Gv 3,1-3 - Mt 5,1-12a)

 

       Santità, un termine che non appartiene quasi più al lessico comune di questa società. Si può parlare di eroi, di idoli, di influencer, di VIP, ma i Santi non sono un riferimento per la vita quotidiana, anche perché nell’immaginario comune il Santo è colui/colei che fa sacrifici, rinunce, dedicandosi ad una vita di preghiere e culto a Dio.

       Di fatto il Santo vive controcorrente, scegliendo di non conformarsi al sentire comune ma di restare “originale”. A questo proposito ben descrive la santità e la vita cristiana la frase del giovane Beato Carlo Acutis: “Tutti nascono come degli originali, ma molti muoiono come fotocopie”. Oggi molti rinunciano ad essere sé stessi per imitare o conformarsi alla massa, avendo ideali e modelli di vita legati alla materialità e che spesso finiscono per perdere la speranza.

       La santità è una scelta alta di vita che trova senso “solo ed esclusivamente” nella relazione d’amore con Dio. Eppure, alla santità non si arriva per merito, per opere compiute, ma per l’azione della Grazia di Dio. Non è la persona che per le sue forze e il suo impegno raggiunge la vetta della santità, ma è Dio che con il suo amore opera e permette che la creatura imperfetta si accosti e si conformi a Lui che è perfetto.

       Il perfettibile, l’essere umano, è attratto da Colui che è perfetto in una relazione di amore, di ascolto e di risposta.

      Non è, pertanto, una imitazione, una influenza a livello di gesti, abiti, e modi di vivere, come accade nel caso di Influencer, VIP, modelli dello spettacolo, della moda o di qualsiasi altra realtà.

      La santità è invece risposta personale ed unica alla proposta di vita, di amore, di grazia da parte di Dio, che comporta non l’annullamento di sé, bensì l’attenzione e l’impegno nell’operare, pensare, desiderare, volere affinché la risposta all’amore di Dio sia vera, completa e coerente.

      Il Santo è colui che vive la sua quotidianità, il suo tempo concreto, scandito nelle varie tappe, con il costante orientamento a ciò che è risposta a Dio, nella piena conformità alla sua Parola.

      La santità segue regole di vita che non possono essere quelle del mondo perché non sono rivolte a soddisfare l’egoismo personale e la ricerca di affermazione di sé, ma a vivere proiettati verso l’altro nella ricerca di quello che realizza sé stessi e gli altri.

       È la logica delle Beatitudini del Vangelo, che non estraniano dalla responsabilità in questa vita, per essere immersi nella prospettiva della vita in Dio, bensì invitano a vivere pienamente la vita terrena con le sue fatiche e contraddizioni, limiti e soprusi, guerre e carestie, senza rinunciare a ciò che edifica e apre all’amore.

        La santità si raggiunge con gli altri e a favore degli altri: con gli altri perché l’amore di Dio incontrato e scelto impegna nel vivere e costruire relazioni fraterne con il prossimo; a favore degli altri perché l’amore di Dio scardina le logiche dell’amore umano, egoistico e possessivo, ed apre alla comunione e donazione, all’agape, amore di donazione e di gratuità.

       San Giovanni, nella sua prima lettera, afferma: «[…] vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui» (1Gv 3,1).

       Il mondo non può riconoscere ed accettare la santità perché è incapace di conoscere e accogliere l’amore di Dio. Allo stesso tempo non può conoscere Dio se non ci sono persone che vivono e amano come Dio afferma.

        I battezzati, nella loro personale e specifica realtà di vita, sono chiamati a vivere l’amore verso Dio e i fratelli nella logica delle Beatitudini, scegliendo sempre ciò che è bene secondo Dio, anche quando questo comporta essere “controcorrente”, senza mai rinunciare alla “unicità” ed “originalità” del proprio essere.

        In questa prospettiva la vita quotidiana non è mai noia, uniformità, annullamento, perdita, ma nonostante le fatiche, i limiti, le prove e la caducità del tempo resta sempre “dono” unico e originale da vivere in pienezza, senza perdere la speranza, con la mente, il cuore e la volontà orientati al bene in Cristo!

        Buona festa di Tutti i Santi! Buon cammino di santità, nella quotidianità e particolarità della vita di ciascuno.

      

XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“Essere nella Chiesa e nel mondo l’Amore di Dio”


 

(Es 22,20-26; Sal 17; 1Ts 1,5-10; Mt 22,34-40)

 

       Leggi, precetti e comandamenti oggi sono generalmente considerati come limitazione della libertà e, se accettati, comunque vengono sottoposti alla interpretazione personale e relativizzati a seconda del sentire e agire della società.

       Altrettanto l’ “amore” è un termine che subisce riduzioni e comprensioni a partire dal soggetto, assoggettato al bisogno, interesse e piacere della persona.

        Anche la categoria di “prossimo” è compresa a partire dal soggetto e dal suo tornaconto, per cui l’amore per il prossimo è vissuto sempre se è utile e accettabile per la persona.

       In questo contesto culturale la risposta di Gesù al dottore della legge risulta difficile da vivere correttamente e pienamente, sempre accolta e valutata a partire dalla modalità che ciascuno ritiene di potere e volere vivere.

      «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”.» (Mt 22, 39-40).

     Amare Dio e il prossimo come Gesù ha indicato richiede innanzitutto vincere il proprio egocentrismo ed egoismo per dare spazio alla relazione con Dio e il prossimo a partire dal bene ed interesse dell’altro.

     Amare Dio con tutto il proprio cuore, con tutta la propria anima e con tutta la mente, significa decentrarsi da sé per centrarsi in Dio; significa considerare ogni cosa in funzione di Dio e del bene da Lui indicato e a Lui donato.

     Amare Dio in questa totalità ed esclusività non comporta annientamento e annichilimento della propria identità e personalità. Dio vuole essere amato da noi per quello che siamo, dunque, ricevere attenzioni e affetto da noi in base alla nostra personalità e capacità, ma in modo esclusivo e totale perché Egli possa essere la fonte del nostro dono di amore.

     L’amore per Dio con tutto noi stessi significa amarlo in modo esclusivo: amarlo con tutta la mente significa che Egli diventa la fonte e il criterio del nostro pensare; amarlo con tutta l’anima significa che ogni valutazione, ogni sentimento trovano senso e pienezza nel suo amore; amare Dio con il cuore significa che Egli è fonte, sorgente e fine di ogni espressione dell’amore umano.

      Amare Dio in questo modo non può che portare ad amare ogni persona come prossimo, vicino e completezza del nostro essere. Il prossimo diventa presenza di Dio e mezzo per rendere l’amore verso Dio concreto e credibile.

      Amare Dio e non amare il prossimo sarebbe controsenso. Amare Dio e in nome suo il prossimo vuol dire costruire relazioni vere e radicate nella carità, in cui ogni persona diventa occasione e possibilità per amare e crescere nell’amore per Dio.

     Non si può, di conseguenza amare Dio, servirlo, adorarlo e pregarlo, non amando, accogliendo e servendo il prossimo. Non si può amare Dio e scegliere quale sia il mio prossimo che potrei amare e vorrei amare. Il prossimo non si sceglie; il prossimo è la persona vicina, sia se ci fa del bene, sia se ci fa del male. Il prossimo non si sceglie, perché ogni persona è presenza di Dio nella mia vita, sia se condivide la mia fede, sia se la avversa o professa un credo diverso.

     Amare secondo l’insegnamento di Cristo, non è condizionato o assecondato da interessi personali: è amore pronto a donarsi anche quando è rifiutato e osteggiato; è amore capace di superare ogni opposizione e controversia; è amore che sa accogliere e operare perfino contro il proprio interesse.

    Questo Amore è fonte di ogni giustizia e supera ogni egoistico interesse. È verità contro ogni personale valutazione rendendo futile e superfluo ogni soggettiva considerazione della realtà.

    Questo Amore, che è compimento della Legge e dei profeti, è Dio stesso, come dice l’apostolo Giovanni (1Gv 4, 1-21). Dio è amore e in Cristo ci ha donato tutto sé stesso perché anche noi imparassimo ad amare come Lui.

    Nel Sacramento della Eucaristia troviamo questo amore che si dona e ci rende a nostra volta dono per gli altri, per cui non possiamo accostarci degnamente al Corpo e Sangue di Cristo nell’Eucaristia se non siamo disposti ad amare con la sua misura, contro ogni interesse soggettivo.

    L’Eucaristia, fonte dell’amore per Dio e i fratelli, è anche il tribunale del nostro modo di amare. Accostarci e ricevere l’Eucaristia deve condurci a crescere e perfezionare nell’amore capace di vincere ogni egoismo, risentimento, rancore, giudizio, chiusura e rottura di rapporto.

     Essere cristiani significa essere rigenerati dall’amore di Dio, capaci di amare con la misura di Dio, accogliendo e servendo il prossimo perché sia degno, vero e pieno il nostro amore per Dio.

    L’amore per Dio e l’amore per il prossimo sono inscindibili: «Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede.  Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello.» (1 Gv 4, 20-21).

    La preghiera, il culto, la vita sacramentale se non conducono all’amore per il prossimo secondo il cuore di Dio non sono veri e divengono motivo di condanna davanti a Dio, che ci riconoscerà solo per l’amore che abbiamo saputo vivere verso il prossimo, presenza sua accanto a noi.

     Saremo giudicati sull’amore!

XXIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“Autentici figli di Dio, autentici abitanti del mondo”


 

(Is 45,1.4-6; Sal 95; 1Ts 1,1-5b; Mt 22,15-21)

 

       «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22, 21).

       Il rapporto tra Stato e Chiesa è da sempre oggetto di diatribe accese. Oggi si rivendica la laicità dello Stato fino al concetto più estremo di “laicità” volendo a tutti i costi relegare la fede a questione strettamente personale, per cui negare ai cittadini di leggere le questioni della vita con le categorie della fede.

       Sicuramente la risposta di Gesù a chi cerca di tirarlo in fallo sulla questione delicata tra Roma e gli ebrei, è attuale ancora oggi.

       La corretta lettura del rapporto tra il potere di Dio e quello umano, dello Stato o di qualsiasi potere politico, è fondamentale per riuscire a capire il senso della risposta di Gesù, il quale non ha eluso la domanda dando una risposta scontata.

       Gesù evidenzia con la sua risposta che il potere di Dio non è in opposizione a quello dello Stato, e nella fattispecie a quello di Cesare. Dio non delegittima il potere umano né esautora l’uomo dalle sue responsabilità, ma ne è l’origine in quanto servizio, amore, compassione, dono. È il potere dell’uomo a contrapporsi a quello divino perché degenera da servizio a dominio, da amore a violenza.

       Solo imparando a dare a Dio quello che è di Dio si arriverà a dare a Cesare ciò che è dovuto. Cosa è di Dio? Cosa dare a Dio per poter dare a Cesare ciò che spetta?

       Dio vuole dall’umanità che viva nella “libertà dei figli” e nella “vera fraternità”: questi sono i fondamenti della società umana in cui la dignità di ogni persona è rispettata; la libertà personale coopera con la libertà altrui perché tutti siano liberi; a ciascuno è garantita la possibilità di vivere con dignità e rispetto.

       Il potere di Dio non si oppone a quello umano, sia del singolo che della società, neanche quando il potere umano pretende di essere separato e antitetico a quello divino, perché Dio non si impone sull’umanità, ma continua ad amarla continuando a indicare e proporre la sua via di amore, giustizia, verità e libertà.

       Più l’uomo si richiude nell’egoismo, nell’egocentrismo, più legge l’esistenza in modo soggettivo, e meno riuscirà a realizzare sé stesso in una reciprocità costruttiva con il suo simile.

       Più l’uomo cresce nell’individualismo e sempre meno darà sia a Cesare che a Dio ciò che spetta.

       Di fatto per dare a Cesare ciò che è spetta dobbiamo imparare a dare a Dio quello che è suo, cioè vivendo la vita come dono, imparando a rispettarla come valore assoluto e cooperando perché ogni uomo abbia la possibilità di vivere la vita in pienezza.

       Per essere autentici cittadini del mondo, della nostra società, occorre riconoscere che “tutto è grazia”, che ogni cosa è di fatto un dono, lottando contro la logica umana del “tutto è dovuto”, “del preteso”, “del possesso”.

       Questi giorni segnati dalla pandemia, dovrebbero essere una occasione favorevole per riconsiderare la vita come dono da difendere, tutelare, proteggere. Abbiamo la possibilità di rimettere ordine alle vere priorità e necessità, imparando a distinguere e scegliere ciò che edifica e pone nella autentica libertà, da ciò che è espressione di egoismo.

       In questo tempo tutta l’umanità ha l’occasione di rimettere ordine ai valori e contribuire alla crescita e formazione delle giovani generazioni insegnando lor a capire che la vita va rispettata, valorizzata, qualificata attraverso scelte che favoriscano il bene di tutti, in una logica di rispetto, di condivisione e cooperazione.

       I credenti hanno ancor più responsabilità nel costruire una società in cui la vita sia un valore da rispettare e le scelte comune devono essere a favore e nel rispetto della dignità di ogni persona.

        I battezzati, ognuno nella proprio ruolo e ministero, sono chiamati a seguire l’insegnamento di Cristo, nel dare a Dio ciò che è di Dio, non solo nel culto personale e comunitario, ma nelle scelte quotidiane in cui vivere da veri figli e fratelli in Cristo; nel dare a Cesare quello che è di Cesare, vivendo da cittadini in onestà, impegno e dedizione e lottando con coerenza e fermezza contro ogni abuso e sopruso verso la vita in ogni suo momento e condizione, cooperando per la costruzione di una società a misura di ogni persona in cui possa realizzarsi secondo le sue capacità e possibilità.

      Dare a Dio impegna ogni battezzato nel suo essere figlio di Dio e nel suo cooperare da fratello con il prossimo con una attenzione particolare verso i piccoli e i deboli, educando le giovani generazioni a conoscere e ricercare il vero bene.

       Chiediamo al Signore, con le parole di San Paolo, che per ogni battezzato sia visibile: «l’operosità della fede, la fatica della carità e la fermezza della speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro» (cfr 1Ts 1, 5).

      

      

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“Rivestiti dell’amore di Cristo”


 

(Is 25,6-10a; Sal 22; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14)

 

       Nella tradizione culturale, sebbene non più cristiana nell’essenza, la domenica è il giorno in cui indossare abiti diversi da quelli dei giorni feriali. Il cambio d’abito, nella tradizione culturale cristiana, indica la gioia della festa e il cambiamento interiore necessario per andare all’incontro con il Signore nella Santa Messa.

       L’abito, diverso da quello indossato nei giorni feriali, indica che essere cristiani significa spogliarsi del mondo per rivestirsi di Cristo.

       La novità di vita del cristianesimo è radicale e non può essere legata al solo giorno festivo.

      Andare a Messa la domenica e fare le preghiere ogni giorno è sufficiente per essere dei buoni cristiani? Basta accostarsi ai sacramenti per ottenere la vita eterna? È sufficiente professare e praticare la fede cristiana per entrare nel Regno di Dio?

       La parabola di Mt 22, 1-14 lo esclude in modo categorico, infatti, la domanda «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?» rivolta all’invitato senza abito nuziale (v. 12), fa comprendere che non basta essere invitati, chiamati, occorre cambiare vita. L’abito nuziale è metafora dell’amore con il quale Dio ci ama; è l’abito battesimale purificato con il sacrificio di Cristo; è la veste candida lavata con il sangue dell’Agnello di Apocalisse 7, 13-14.

       Aver ricevuto il Battesimo è solo l’inizio; è l’invito ricevuto a partecipare alla gloria di Cristo nella sua morte e risurrezione. Aver ricevuto i Sacramenti dell’Iniziazione cristiana (battesimo, cresima e comunione) non rende immediatamente partecipi al banchetto nuziale, occorre che il dono ricevuto si realizzi con i fatti e in verità.

       Essere invitati non rende degni di partecipare alle nozze, ma è solo il preludio, lo sprono affinché questo si compia con la conversione totale e matura della vita.

       Essere chiamati e aver risposto non comporta automaticamente essere salvati, richiede l’impegno, costante e coerente, di rispondere alla chiamata con la vita. Non basta dire “Signore, Signore” (cfr Mt 7, 21), ma è necessario vivere da figli, “radicati e fondati nella carità” (Ef 3, 17).

       Partecipare alle nozze dello sposo, il Cristo, il Figlio amato del Padre, comporta riconoscere che non si è migliori di quelli che lo rifiutano, perché in ognuno cresce sia il grano buono che la zizzania, è presente sia il bene che il male. Questo ce lo ricorda San Paolo quando afferma: «Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me» (Rm 7, 21).

       La consapevolezza di poter appartenere agli invitati che rifiutano l’invito o che non indossano l’abito nuziale, permette di tenere desta la propria coscienza perché il discernimento sia corretto e approfondito, non dimenticando mai che è facile errare e scegliere ciò che non è gradito allo Sposo.

       In questo impegno di conservarsi sempre degni di partecipare al banchetto dello Sposo, non bisogna dimenticare che Dio dà il sostegno della sua Grazia, proprio per essere e conservarsi degni del suo amore.

       Dio ha donato all’umanità la sua presenza nel banchetto eucaristico. È realmente presente nell’Eucaristia ed essa è “viatico” e “fonte di ogni bene” per i suoi figli.

       Accostarsi all’Eucaristia, partecipare alla Messa, memoriale dell’ultima cena, significa lottare con sé stessi, con il proprio limite e fragilità e impegnarsi quotidianamente a vivere nella verità e nella carità.

       Dio ci ha costituito suo popolo, sua eredità, comunità di fedeli e fratelli in Cristo e vuole essere il “pastore buono” che conduce con amore le nostre anime verso pascoli fertili, indicandoci il cammino verso la autentica realizzazione di noi stessi.

       Accogliere l’invito alle nozze, partecipare al banchetto nuziale dello sposo, richiede anche una vita di comunione con il prossimo, senza esclusioni e divisioni; senza preferenze o discriminazioni, ma riconoscendosi figli suoi e fratelli con il prossimo.

      Se cuore, mente e volontà sono rivolti a Cristo, se la propria coscienza vive il corretto discernimento, valutando sempre ogni cosa e ritendo ciò che è buono (cf 1Ts 5, 21), allora vivremo in pienezza la fede, dando coerente testimonianza senza giudizio, particolarità o preferenza, senza escludere nessuno dalla propria esistenza, restando vicino a chi con fatica cerca di conservarsi nella fedeltà al Signore.

      

«[…] molti sono chiamati, ma pochi eletti» (Mt 22, 14).

 

“Signore nostro Dio,

che ci hai donato il tuo Figlio,

e ci chiami a partecipare al banchetto delle sue nozze,

rendici degni del tuo invito.

 

Sostienici e illuminaci

con la grazia del tuo Spirito,

perché vinciamo il nostro egoismo,

il nostro peccato,

imparando a scegliere ciò che bene,

secondo la tua volontà.

 

Fa che l’amore con il quale ci ami,

sia la regola della nostra vita,

perché non escludiamo mai

nessuno dalla nostra vita;

non ricerchiamo mai il nostro interesse,

affannandoci nelle cose di questo mondo;

ma impariamo a dare il giusto valore

ad ogni cosa senza mai nulla

anteporre a Te,

nostro Dio e Signore,

lasciandoci condurre da Te,

Pastore buono e bello delle nostre anime.

Amen!”

XXVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

“Amati dal Padre, viviamo da figli e fratelli”


 

(Is 5,1-7; Sal 79; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43)

 

       Chi mai, di fronte ad atti di violenza, guerre, soprusi e ingiustizie varie, non ha almeno esclamato “Perché Signore?” oppure si è chiesto “come può Dio restare indifferente a tanto male?”. Domande lecite ed umane che esprimono la fragilità dell’uomo e nello stesso tempo la pretesa che Dio debba intervenire o per lo meno porre rimedio.

       Il brano di Isaia, “il canto per la vigna”, risponde agli interrogativi che spesso ci poniamo e afferma con chiarezza che Dio ha dato piena libertà e responsabilità ogni persona di custodire e costruire una società in cui regni amore, rispetto e pace.

       «Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi» (Is 5, 6-7). Dio ha dato all’essere umano intelligenza, capacità di scelta, volontà di operare, discernimento per comprendere e valutare cosa è utile, buono e giusto ed evitare ciò che nuoce.

       Se il male esiste come realtà, la scelta di aderire, compierlo e favorirlo è della persona e non di Dio! Se costatiamo ingiustizia, spargimento di sangue, soprusi e abusi, la responsabilità non è di Dio, ma di chi compie tali azioni ed anche di chi resta inerme di fronte alle ingiustizie.

       La parabola evangelica (Mt 21, 33-43) presenta la visione di Dio della realtà degli uomini: all’origine del mondo c’è l’amore del Padre verso l’umanità, creata a immagine del Figlio amato (cfr Col 1, 16ss), ma gli uomini, chiusi nel loro egoismo, strutturano e riducono tutto ad esso ottenendo per sé stessi la morte come figli e come fratelli.

       L’umanità vive l’infedeltà all’amore di Dio e in risposta trova la costante fedeltà di Dio, il suo venire incontro, il suo abbassamento, il suo donarsi per amore “fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2, 8).

       Dio, nel suo amore infinito e libero, affida il mondo, la vita agli uomini, donando ad essi la libertà d’azione e di scelta: «[…] c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano» (Mt 21, 33). L’affermazione “se ne andò lontano” indica proprio che Dio ha lasciato la responsabilità della gestione della storia agli uomini, scegliendo di farsi “estraneo”, “emigrato”, non perché vuole abbandonare per poi giudicare e condannare, ma perché Lui ama e si fida, perché ripone fiducia nell’umanità.

       A questa fiducia, però, gli uomini rispondono con egoismo e cattiveria, presunzione e abuso, infatti quando Dio chiede conto dei frutti della vigna, cioè dell’amore con il quale vivere ogni relazione in quanto tutti fratelli amati dal Padre, rispondono bastonando, picchiando, uccidendo prima i servi inviati e poi il Figlio (Mt 21, 35-39).

       La risposta di Dio resta sempre di amore, perché non ripaga con la stessa moneta, facendo agli uomini ciò che loro fanno, ma donando sé stesso, per amore, e offrendo ancora la possibilità agli uomini di vivere nel suo amore: «La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi» (Mt 21, 42).

       Il Figlio è stato costituito dal Padre la nuova ed eterna possibilità per l’umanità di riconoscersi amati da Dio e costituiti capaci di amare e vivere relazioni di amore.

       Dio risponde alla cattiveria ed egoismo dell’umanità con la donazione e la misericordia, con amore e accoglienza.

       Il Figlio, pietra d’angolo e sasso di inciampo, è il riferimento per l’umanità, per cui se lo accoglie edifica e realizza sé stessa nell’amore e nella pace, se lo rifiuta si rovina chiudendosi nel proprio orgoglio producendo rivalità, odio, gelosia, rivalità, contese continue.

       La via della felicità, la realizzazione nell’amore è Cristo, sul quale appoggiare noi stessi per edificarci nel bene. San Paolo indica la modalità di operazione quando dice: «In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4, 8).

       La risposta al male, la via per la piena e completa realizzazione di sé stessi è e resterà sempre la via dell’amore, preferire, sceglie e attuare ciò che è “virtù e merita lode”, ciò che edifica e accoglie, ciò che è vero e giusto.

       Solo se l’umanità si apre alla vita, valutando ogni cosa come occasione di bene, lottando contro l’egoismo naturale e costitutivo dell’essere umano, potrà vivere al meglio e in pienezza la vita, apprezzandola come dono e custodendola fino alla fine, allontanando così ogni abuso, sopruso, violenza e opera di male.

       I cristiani hanno la responsabilità di annunciare questa verità vivendo il proprio impegno nel tessere relazioni autentiche di amore e di pace, di rispetto e di fraternità.

       Edificati sul Cristo, pietra angolare, i cristiani devono vivere la responsabilità di educare e formare, e di cooperare con tutte le persone nel costruire un mondo in cui esista la giustizia e la verità.

      

“O Padre,

che ami e vuoi sempre il bene per gli uomini,

illumina le nostri menti,

infiamma di nostri cuori,

corrobora le nostre coscienze,

perché sappiamo essere e vivere

da veri figli tuoi,

custodi della tua vigna,

della vita e del creato,

portando frutti di amore e di pace.

 

Sostieni la tua Chiesa,

ogni singolo battezzato,

nella diversità di ministeri e carismi,

con la grazia del tuo Spirito,

perché testimoni il tuo amore,

annunci la tua Parola,

ti renda presente nella storia dell’umanità,

impegnandosi nell’operare il bene,

nella giustizia e verità,

senza paura e senza remore,

affinché la dignità di ogni persona

sia rispettata e tutelata sempre.

 

Il tuo Spirito,

di sapienza e di intelligenza,

di conforto e di pace,

illumini, corregga e sostenga

ogni credente,

perché in ogni necessità,

difficoltà e circostanza,

sappia confidare in Te

ed affidarsi alla tua volontà.

Amen!”

       


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