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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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XXVI DOMENICA T.O.

“In ogni attimo di vita decidiamo l’eternità”


 

 

       Nella società attuale, soprattutto nell’occidente, la vita ha valore in funzione del fare e del potere; tutto è rivolto al tempo presente e la considerazione sul fine vita, sulla morte e sulla possibilità di vita oltre quella terrena si riduce a valutazioni soggettive.

       I miti e modelli di riferimento sono persone di successo e ricche. Il corpo nella sua efficienza e bellezza va curato e trattato per restare eternamente giovani.

       Spesso la dimensione spirituale è assente o vissuta come evasione dalla realtà. Inoltre sempre più frequentemente si mischia la fede cristiana con pratiche buddiste o tahoista. Senza piena coscienza viviamo un sincretismo religioso dilagante.

       La Parola di questa domenica ci presenta la riflessione sulla vita terrena in prospettiva di quella eterna e del corretto uso dei beni e della responsabilità nei confronti della vita nostra e degli altri.

       La parabola del Vangelo di Luca del ricco epulone, presentata dopo quella sull’amministratore disonesto della scorsa domenica, non va letta come una condanna delle ricchezze, ma come insegnamento sulla vita e le scelte che facciamo.

       La parabola mette in stretta relazione la dimensione materiale e spirituale dell’esistenza. Per essere persone che vivono in pienezza il presente occorre tener presente che siamo esseri finiti e mortali.

       La fede ci apre alla dimensione spirituale e alla realtà eterna in Dio alla quale siamo destinati, ma ciò che saremo e vivremo lo determiniamo nelle scelte di ogni giorno.

       La vita oltre la morte la costruiamo in questa vita, con il comportamento e le decisioni assunte; vivendo le relazioni interpersonali nella logica dell’agape.

       Per vivere in pienezza l’esistenza occorre, pertanto, tenere l’equilibrio tra la dimensione materiale e spirituale. Dare enfasi all’una o all’altra produce squilibrio e frustrazione, alienazione religiosa o materialistica.

       Alcuni dettagli della parabola possono aiutarci a vivere il corretto rapporto tra la vita materiale e spirituale, tra la realtà terrena e quella di fede.

       Innanzitutto Gesù non dice il nome del “ricco epulone”, mentre dà il nome al povero, questo per dire che Dio conosce gli umili ed ignora i superbi. La ricchezza come idolatria conduce alla superbia, alla durezza di cuore e ad escludere Dio dalla propria esistenza. Di conseguenza Dio, non facendo violenza a nessuno, lascia nella condizione di escluso chi lo rifiuta scegliendo mammona come suo idolo.

       Questa considerazione ci fa comprendere che la condanna del ricco non dipende dal suo possedere, ma da come lo ha amministrato, o meglio dal valore e potere che ha dato ai suoi beni.

       Il brano del profeta Amos presenta la medesima realtà contrapponendo la “spensieratezza” al “preoccuparsi per la rovina di Giuseppe”. La durezza del cuore, la superbia e l’indifferenza verso chi ci è prossimo preclude ogni possibilità di conoscere e incontrare Dio e riconoscerlo come Signore della propria vita.

       Da questo si comprende perché la conclusione della parabola sembra non lasciare speranza: “non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (Lc 16, 31). Di fatto se il cuore è chiuso agli altri, non può conoscere la proposta di amore di Dio!

       La Parola di Dio non ha alcun valore per chi è ricurvo su sé stesso e ripone speranza solo sui beni materiali.

       Per ascoltare “Mosè e i Profeti” occorre avere un cuore capace di amare e di porre attenzione a chi è vicino, in quanto la Legge di Dio non è altro che una via per amare Dio, il prossimo e noi stessi, ed il peccato è un tradimento dell’amore.

       Il ricco epulone, che pensava di amare sé stesso, trova la condanna proprio per non essersi accorto di altro oltre sé: chiuso in sé, coperto di abiti pregiati e dedito a gozzovigliare.

       Se noi decidiamo di amministrare saggiamente il tempo terreno, condividendo la vita con gli altri, nella comune corresponsabilità di compiere il bene per sé e per gli altri, gusteremo ogni momento della nostra esistenza terrena e ci apriremo a ciò che è oltre il materiale e il sensibile, accogliendo Dio e la sua proposta di vita eterna, di vita in piena comunione con Lui.

       Per realizzarci in questa vita, protesi verso quella eterna in Dio, occorre, come dice San Paolo a Timoteo, tendere alla giustizia, alla vita religiosa, alla fede, all’agape, alla pazienza e alla mitezza:

       Alla “giustizia” – che ci apre alla ricerca del vero bene e alla sua attuazione;

       Alla “vita religiosa” (traduzione più corretta del “alla pietà”) – cioè ad assumere modalità comportamentali proprie della fede, in contrapposizione a chi vive la fede come una estraniazione, alienazione dalla realtà. L’apostolo Giacomo ci ricorda che la fede “se non è seguita dalle opere, in sé stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede»” (Gc 2, 17-18);

       Alla “fede, all’agape” – fede e carità sono le virtù che ci permettono di realizzare nella nostra vita la proposta di alleanza di Dio. Fede e carità si vivono in questa terra e si attuano nella virtù della speranza, che ci apre alla realtà in Dio che conquistiamo in questa vita terrena;

       Alla “pazienza”, più precisamente alla “costanza” – San Paolo non esorta alla sopportazione passiva. Non dobbiamo rassegnarci e attendere passivamente gli eventi che si compiono. La giustizia di Dio la rendiamo presente noi che crediamo. Il credente è chiamato a compiere il bene anche nelle avversità e quando tutto sembra essere contrario. La costanza, la perseveranza nel bene ci conquistano la comunione con Dio.

       Alla “mitezza” – quando tutto è ostile, non bisogna perdere la fede, ma perseverare nel bene con pacatezza di modi e calma nel cuore, perché nulla “potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 39). Solo noi possiamo decidere di allontanarci da Dio ed escluderlo dalla nostra vita.

       “Signore, tu che ci chiami all’amore,

       e ci doni il tempo della nostra esistenza terrena

       per viverlo nelle relazioni interpersonali,

       sostienici e guidaci con il tuo Spirito,

       perché sappiamo evitare il pericolo di attaccarci ai beni terreni

       e chiudere il cuore a Te ed ai fratelli.

      

       Donaci la tua Grazia perché sappiamo vivere da figli tuoi,

       avendo come regola di vita l’Amore,

       promuovendo il bene con responsabilità

      a favore nostro e degli altri,

      perché Tu sia tutto in tutti. Amen!”

XXV DOMENICA T.O.

“Condividere ed edificare”


 

 

       Quando iniziamo a sommare giorni di vita iniziamo anche a fare un minimo rendiconto di ciò che abbiamo vissuto ed è allora che ci rendiamo conto che tra le cose fatte, beni accumulati, posizioni sociale raggiunte, l’unica cosa veramente importante è la vita trascorsa e i momenti sereni e felici che abbiamo cercato di vivere.

       Abbiamo un dono prezioso, che non sempre sappiamo far fruttificare al meglio: la vita!

       La Parola di questa domenica ci indica come vivere appieno la nostra esistenza.

       Innanzitutto è necessario “passare dalla logica del possedere a quella del condividere”. La vita non l’abbiamo determinata noi, ma siamo nati perché altri lo hanno scelto e voluto, dunque, in sé esprime la caratteristica del dono. Per qualificare al massimo il nostro esistere occorre partire da questa caratteristica: ciò che è dono cresce nella misura in cui è vissuto come tale e perciò va rispettato e condiviso nella sua realtà. Occorre essere capaci di donare noi stessi agli altri nella dimensione della condivisione e attenzione alla realtà dell’altro. Solo chi vive nella logica della condivisione percorre la via della “Imitazione di Cristo”.

       L’attenzione ai poveri secondo la Bibbia ha sia un significato materiale che spirituale. Il povero è colui che si trova nella condizione del bisogno e di profonda umiliazione. La logica della condivisione ci rende prossimi sia nelle necessità materiali che spirituali. Oggi la “povertà” ha diverse caratteristiche e il cristiano deve essere attento a capirle e a servirle.

       La logica della condivisione è possibile solo se “sappiamo riconoscere che il valore non è nei beni che abbiamo, ma nella identità di ciò che siamo”. La parabola evangelica di questa domenica (Lc 16, 1-13) riporta per sette volte il termine “amministratore”, per indicare appunto che noi non dobbiamo identificarci con ciò che abbiamo, perché alla fine renderemo conto di come siamo stati in grado di usare i beni ricevuti. Non si tratta di non avere beni in questa vita, perché sarebbe fuori della realtà, ma possiamo vivere il rapporto con i beni e la società con la logica del dono. Usare i beni per qualificare noi non come possessori di potere, ma come elargitori di carità. I beni devono essere al nostro servizio e degli altri, altrimenti diventiamo schiavi delle cose.

       Il cristiano, nella sua identità di figlio di Dio, sceglie di “appartenere a Dio”. La fede è appunto un “appartenere per amore”. Si è fedeli a Dio nella logica e dinamica dell’amore! L’amore crea legami di appartenenza.

       L’espressione evangelica a conclusione della pericope contrappone Dio e mammona: “Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza” (Lc 16, 13). Dio e la ricchezza creano legami di dipendenza, ma l’uno per la libertà dell’amore, l’altra per la schiavitù dell’avidità. Decidere di avere il possesso, la ricchezza come fine della propria vita, rende l’uomo schiavo perché lo rinchiude nella strettoia dell’avidità esautorandolo della sua dignità. La scelta di servire Dio nella fedeltà al suo amore ci rende liberi, perché è una “schiavitù” che apre alla relazione.

       Cristo si è fatto “servo” degli uomini amandoli fino alla morte, alla donazione totale di sé per farli partecipi della vita in Dio. La scelta di fede ci conduce alla piena scoperta della nostra identità di uomini “destinati alla gloria” (Rm 8). L’essere umano è oltre ciò che possiede e il credente deve distinguersi nella società come portatore di “sapienza”, capace di saper discernere sempre il bene e il meglio per l’edificazione della società.

       Il cristiano ha una grande responsabilità nel mondo: quella di essere portatore di speranza, nella relazione di amore, fondato nella fede.

       Il cristiano deve acquisire la mentalità di Dio e vivere nella sua volontà, che San Paolo, nella prima lettera a Timoteo, ci ricorda essere: “… che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1Tm 2, 4).

       Il cristiano deve distinguersi nella società per mentalità e azione. La sua logica, i suoi ragionamenti devono essere illuminati dalla sapienza di Dio, che si conosce attraverso la Parola ascoltata, meditata e pregata, nella comunione con la comunità ecclesiale e con il magistero. Il suo agire deve essere espressione della sua appartenenza a Dio, quindi libero da tutto quello che non è secondo Dio.

       I fedeli cristiani sono nella società soggetti attivi, che cercano il bene comune e operano nell’interesse della collettività e del creato.

      Per questo i fedeli devono essere liberi nel cuore e nella mente da tutto quello che contrasta la volontà di Dio. La vita di fede, la preghiera e ogni momento della giornata del credente è occasione per lodare Dio e servirlo nei fratelli.

      Tutto ciò è possibile solo avendo, come dice san Paolo, “mani pure, senza collera e senza contese” (1Tm 2, 8), che significa essere trasparenti (“il vostro parlare sia sì, sì; no, no” Mt 5, 21-37); liberi da risentimento e da ogni condizionamento ed interesse contrari a Dio; avere una coscienza retta, in grado di discernere il bene e giudicare secondo verità.

 

Signore, tu che ci hai indicato la via dell’amore e del servizio,

rendici liberi nel cuore:

per saper vivere con sapienza, avendo uno sguardo attento agli altri e facendoci “prossimi” ad ogni povertà;

per amare e accogliere, imparando a non giudicare secondo le apparenze o interessi umani, ma cercando sempre il bene che edifica;

per costruire relazioni che rispettano la dignità di ciascuno ed essere “operatori di misericordia” nella nostra realtà di vita”.

XXIV DOMENICA T.O.

“Dalla propria giustizia … alla misericordia di Dio”


 

 

       Nelle religioni antiche il culto delle divinità era vissuto per aggraziarsi favori ed essere protetti da ogni pericolo.

      Dio, nella sua onnipotenza, è considerato il più delle volte ostile all’umanità, la quale, facendo i conti con la propria caducità e mortalità, attribuisce a Dio la responsabilità delle disgrazie e calamità che la possono colpire.

       Anche nella fede cristiana questa modalità di relazione con Dio è presente, pur essendo del tutto contraria alla rivelazione.

      La rivelazione di Dio, conclusa con Gesù Cristo, presenta sicuramente un Dio “geloso”, che esige la fedeltà da coloro che lo accolgono, ma anche “misericordioso”, pronto a riammettere nel patto di alleanza il popolo che si è allontanato.

     Dio rivelandosi a noi prende per primo l’iniziativa di amare l’umanità. In ogni pagina della Bibbia troviamo chiaramente espresso questo concetto, anche in quelle pagine in cui, a prima vista, Dio si presenta irascibile e pronto al castigo ed il brano di Esodo 32, di questa domenica, ne è un esempio.

      Dio non gode della fragilità dell’umanità, del suo peccato, del suo errore. Non attende l’errore e la mancanza di fedeltà a Lui per esprimere la sua potenza con il castigo, infliggendo sofferenza e prove. Dio, invece, ama l’umanità ed offre ad essa la possibilità di esprimere il meglio di sé osservando la sua proposta di vita, indicata nella sua Parola, nei suoi comandamenti, che sono vie per amare e vivere nell’amore.

      In Gesù Cristo tutto questo si è completato, offrendo sé stesso per amore sulla croce.

      Il brano di Luca (15, 1-32) ci presenta Dio come Padre ricco di tenerezza e di misericordia, che trasalisce di gioia nel vedere il figlio tornare a casa. L’evangelista ci ricorda che la Chiesa non è un assise di giusti, ma una comunità di peccatori, che fanno esperienza della misericordia di Dio in ogni istante della propria giornata.

      Il cristiano non è, dunque, perfetto e giusto, ma peccatore che si impegna a vivere nella fedeltà a Colui che lo ama e lo rende “santo” con la sua misericordia.

      Solo chi ha ben presente la propria fragilità, il proprio limite e peccato, vive nella corretta relazione con Dio, perché non monta in superbia, ma conserva sé stesso nell’umiltà e sa riconoscere i doni incommensurabili della grazia di Dio.

     Il credente è il “giusto”, reso tale dall’amore misericordioso di Dio, che attua nel proprio atteggiamento di vita la misericordia verso i nemici, verso i peccatori, verso ogni persona.

    Non si tratta di buonismo di basso livello, di tolleranza e giustificazione del male, ma di riconoscere che ogni persona può, se vuole, esprimere il meglio di sé e, quindi, gli offre la possibilità di farlo accogliendolo.

     Dio non condanna mai la persona, ma il peccato! Chi è escluso dalla misericordia di Dio? Nessuno, ma ognuno si auto esclude quando, nella sua scelta di libertà, si allontana da Dio, non accoglie la sua proposta di vita.

     Il figlio più giovane, nella sua libertà sceglie di andare via di casa. Il padre lo lascia libero di scegliere e di ritornare, così come lascia libero il fratello maggiore. Questi, pur restando nella casa del padre, non vive riconoscendo il bene e facendolo fruttificare nel suo cuore, tanto che “si indignò” per la festa al rientro del fratello (Lc 15, 28). Il figlio più giovane segue il suo “desiderio di libertà e di piacere”, il figlio maggiore resta prigioniero del “senso del dovere” perché tutti e due vedono il padre come un padrone! Entrambi non riescono a sperimentare la gioia dell’amore del Padre perché non lo conoscono!

     Non è sufficiente professarsi cristiani, andare a messa, recitare le preghiere, fare gesti di carità, osservare i comandamenti, per vivere nella misericordia di Dio ed essere “resi giusti”, “santi” da Dio. Occorre rinnovarsi nel cuore e nella mente, essere vigili, attenti e prudenti, consapevoli che è facile errare, per vivere da persone misericordiose, consapevoli di essere fragili e peccatori.

    Essere cristiani significa passare dalla presunzione di giustizia alla gioia di essere figli del Padre misericordioso. Come San Paolo, dobbiamo passare dalla irreprensibile osservanza della Legge, alla “sublimità della conoscenza di Gesù Cristo” (Fil 3, 6.8). Il cristiano è un convertito dalla propria giustizia alla misericordia di Dio, per essere testimoni autentici dell’amore di Dio (vedi 1Tm 1,12-17).

     “Vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte (Lc 15, 10). Di' loro: Com'è vero che io vivo - oracolo del Signore Dio -, io non godo della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua malvagità e viva (Ez 33, 11).

    La fede cristiana è vivere nell’amore ricevuto e donato. Avendo fatto esperienza della misericordia di Dio viviamo in questo amore accogliendo e perdonando.

      La vita cristiana non è rispetto di regole, ma consapevolezza di essere figli amati e di questo amore contagiare il prossimo.

     “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui. In questo abbiamo conosciuto l'amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1Gv 3, 14-16).

     Viviamo nell’Amore di Dio e contagiamo il mondo con il suo Amore compiendo opere di misericordia!

XXIII DOMENICA T.O.

“Un amore grande”


 

 

       “Amore”, una parola che evoca in noi sentimenti, ricordi, emozioni. Abbiamo bisogno di essere amati e di amare per sentirci felici, vivi. Senza amore non c’è vita!

       Al termine “amore” annettiamo accezioni diverse: amor di patria, amore genitoriale, amore di figli, amore fraterno, amore di amicizia, amore del prossimo, ecc. Certamente l’amore è il motore e la ragione di vita che ci permette di affrontare sfide e ostacoli con coraggio e temerarietà.

       Gli antichi greci avevano tre termini per definire l’amore: eros, philia, agape. All’amore umano hanno dato il nome di “eros”. Esso è un amore possessivo, passionale. Fin da piccoli impariamo a definire il possesso: è mio!

       Spesso quest’amore possessivo arriva a degenerare, non solo nelle forme diverse di gelosia, ma facendoci assistere a efferati omicidi passionali, a femminicidi, uxoricidi, all’uccisione di genitori e di figli. Dietro a questi drammi troviamo relazioni amorose fallite, tralignate sotto tante pressioni e condizionamenti.

Spesso la ragione addotta, soprattutto in caso di femminicidi ed uxoricidi, è il non riuscire ad accettare di perdere l’amore.

       Nella nostra società la parola amore viene usata per indicare l’esercizio della sessualità; spesso usata addirittura per giustificare la pornografia e la prostituzione.

          Nonostante le devianze che il genere umano riesce a dare, la parola “amore” resta carica di tanta positività.

       Come riuscire a vivere in pienezza l’amore? Possiamo affermare che esiste un amore duraturo ed eterno, soprattutto oggi, in questa società dell’incertezza, così relativista?

       Credo che la risposta la troviamo nel brano evangelico di questa domenica (Lc 14, 25-33). Gesù ci indica la modalità per vivere in pienezza l’amore: amare tutto attraverso Lui!

         Gesù non chiede di rinunciare a qualcosa per divenire suo discepolo, ma a saper vivere tutto in funzione sua, cioè “per Cristo, con Cristo, in Cristo”. Egli è la porta attraverso cui passare; è il Maestro che ci indica la via, con cui essere in comunione di intenti e volere; è il Signore fonte e modello di amore per amare a nostra volta come lui.

       Amare in Cristo significa vivere in povertà, obbedienza e castità. Questa modalità è di ogni discepolo, non solo di coloro che scelgono una via di speciale consacrazione. È la modalità evangelica, tanto che sono chiamati “consigli evangelici”.

       Ogni cristiano che decide la sequela del Cristo non può vivere in modo diverso, perché Cristo ha vissuto così. Proviamo dunque a declinare questi consigli per la vita quotidiana di ciascuno.

       “Povertà”: è povero non tanto chi non possiede, ma colui che non attacca il cuore alle cose, non fa dipendere la propria vita dalle cose che ha o che desidera. Oggi è una virtù da recuperare, a cui educare i ragazzi, che invece sono stimolati a pensare che valgono se hanno (vestire in un certo modo, avere un determinato tipo di cellulare, diventare famosi e ricchi). La famiglia cristiana è chiamata a vivere la povertà nel senso che deve porre la sua forza nelle relazioni e non sulla posizione sociale: “chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti” (Mc 10, 43-44). Oggi la ricerca del successo, la bramosia del potere logora ogni relazione ed istituzione!

       “Obbedienza”: è un termine che subito solletica e fa irrigidire, soprattutto oggi in cui si vive il culto della libertà. Obbedire sembra significhi rinunciare a sé stessi, a scegliere e decidere per sé. Non è così! Obbedire etimologicamente significa prestare ascolto, tendere l’attenzione verso ciò che è autorevole, che ha un valore grande. Obbedire a Dio significa, dunque, accogliere la sua proposta di amore e attuarla ascoltando i suoi insegnamenti, che ci rendono liberi perché ci fanno vivere la verità del nostro essere: persone, figli suoi, creati a sua immagine e somiglianza. Vivere la libertà vuol dire realizzare sé stessi; non tanto fare ciò che si vuole, quanto fare ciò che edifica noi e gli altri come persone. Cristo ci insegna a vivere l’obbedienza avendola vissuta “fino alla morte di croce”. Cristo ha obbedito alla volontà del Padre per amore nostro. Obbedire dunque non riduce la persona in schiavitù, ma rende liberi perché è una risposta di amore: si obbedisce ai genitori per amore; si vivono le regole per amore; si rispettano le leggi per amore; si rispetta il prossimo per amore. L’espressione “prendere la propria croce” significa obbedire, cioè realizzare il progetto di amore, che Dio ha per noi come figli suoi, nella quotidianità. La croce quotidiana è l’impegno per la vita, è l’operare per edificare e tessere relazioni in cui noi e gli altri siamo rispettati come persone.

       “Castità”: sembra abbiamo perduto il senso del pudore, dunque parlare di castità può apparire quasi impossibile! Eppure la castità non è sinonimo di astensione, ma significa vivere in purezza. Etimologicamente essere casti significa non essere incestuosi, cioè vivere la relazione rispettando l’alterità, la reciprocità. Castità non è una virtù negativa, come spesso viene vista, ma eccelsamente positiva. Apre alla relazione nel rispetto dell’altro; alla reciprocità come valore e attenzione. La castità eleva le relazioni umane al pieno rispetto della persona e si basa sulla vera reciprocità, non solo di intenti e di istinti, ma di accoglienza e rispetto della realtà dell’altro. La castità è un “modus vivendi”, non astinenza dall’esercizio della propria sessualità. Essere casti significa avere uno sguardo puro e rispettoso, che sa apprezzare e valorizzare il bello in ogni cosa. Essere casti significa non usare ed abusare dell’altro, non solo nell’intimità, ma in ogni momento relazionale. Casto è colui che ama e rispetta! Un matrimonio sarà autenticamente sacramento cristiano se è vissuto in modo casto, cioè dove il partner è l’alterità che completa e che si accoglie nel rispetto della sua identità, personalità e modalità di essere.

       “Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni” (Salmo 89). Gesù Cristo ci ha indicato la via per vivere pienamente l’amore, la modalità per vivere “un amore grande”, a noi non resta che accogliere la sua proposta e attuarla nella nostra vita.


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