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La Luce Negli Occhi

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Solennità di “Maria Madre di Dio” – Anno A

“Maria, madre di Dio: umile e alta più che creatura”


 

(Nm 6, 22-27; Sal 66; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21)

      

        In questi giorni spero che abbiamo avuto un po’ di tempo per soffermarci a contemplare il mistero dell’Incarnazione e a ringraziare Dio per essersi fatto così prossimo a noi, per renderci partecipi della sua divinità.

       Certamente accanto alla celebrazione del grande mistero dell’Incarnazione ci sono stati tanti aspetti che non sempre hanno aiutato a vivere nella fede il Natale.

       Credo, anche, che non sia passata inosservata la sottolineatura particolarmente calcata, da parte di personaggi dello spettacolo e non, sulla umanità di Gesù.

        Così come credo sia stata vista l’immagine, che è stata pubblicata sul profilo Facebook di un personaggio famoso e fatta girare sui social, della Vergine Maria nell’atto di partorire tra dolore e sangue aiutata da Giuseppe.

      Se è vera e reale l’umanità di Gesù, altrettanto vera è la sua divinità. Soffermarsi a considerare l’umanità di Gesù, la sua storicità, la famiglia in cui ha vissuto, senza la sua divinità significa rendere vana la fede cristiana.

        La solennità di oggi ci aiuta a non perdere di vista questa verità di fede della duplice natura di Gesù Cristo: la natura umana e divina.

       Celebrare la Maternità di Maria come “madre di Dio” vuole essere appunto un riaffermare che il cristiano professa la sua fede in Dio, uno e trino e crede nella duplice natura umana e divina di Gesù Cristo.

       Oggi veneriamo Maria con il titolo di “Theotokos”, “Madre di Dio”, che non significa che Ella è Dio, ma che ha generato nella carne Dio.

       La veneriamo, nella sua Verginità feconda, come Colei cha ha dato al mondo l’autore della vita, Cristo Gesù (Preghiera di Colletta).

       Maria essendo Madre è Colei che per prima ha beneficiato della gloria di Dio: è la piena di Grazia; è stata preservata dal peccato originale; è stata Assunta in cielo in anima e corpo.

         Tutto questo perché? Per noi! Dio ha operato in Maria grandi cose per il bene di tutta l’umanità.

         Oggi noi la veneriamo Madre del Salvatore e Madre nostra, che intercede e ottiene da Dio, per noi, la sua Grazia.

         Maria essendo madre di Dio è anche correndentrice, cioè ci ottiene da Dio ogni benedizione.

       Pregare Maria, venerarla Madre di Dio, piena di Grazia, ci permette di vivere nella volontà di Dio, perché impariamo da Lei a obbedire a Dio e a fare quello che ci dice il suo Figlio (cfr. Gv 2,5).

       Maria, nella sua umiltà, ci insegna ad accogliere il dono di amore di Dio e a viverlo nella routine della nostra giornata comprendendo e compiendo il bene per noi e per gli altri.

       Maria ci insegna a vivere nell’umiltà del cuore. Lei, che ha accolto la volontà di Dio, il suo progetto di salvezza e ha detto il suo “si”, ha vissuto la sua vita nell’umiltà, meditando e conservando nel cuore il dono di Dio (cfr Lc 2, 19).

       Noi, tanto più, dobbiamo vivere in umiltà, ringraziare e glorificare Dio e imparare a compiere ogni cosa cercando ciò che edifica, aborrendo ciò che distrugge.

       Dobbiamo imparare a vivere nella benedizione di Dio, cioè lasciarci illuminare dalla sua grazia, dalla sua Parola, per fare il bene, per operare sempre per il bene comune, di tutti.

         Come dice il Libro del Siracide, ricevere la benedizione di Dio significa che Dio rivolge il suo sguardo su di noi e ci è propizio, cioè ci trovi accoglienti verso il dono di grazia per l’incarnazione di Cristo e impegnati a operare nella carità.

        Vivere nella benedizione di Dio significa vivere nel dono della pace, che non è assenza di dolore, di prove, di ostilità, ma certezza che nulla ci può separare dal suo amore.

         Maria ci ricorda questo, ci insegna a fare la volontà di Dio e a conservarci nel suo amore.

        A Maria, madre di Dio, affidiamo il nuovo anno perché impariamo da Lei a cercare ciò che edifica, rifiutando ciò che distrugge; a vivere nell’umiltà, per essere amati ed elevati da Dio e a partecipare della sua grazia; a crescere nella sapienza meditando sull’amore di Dio e operando nella carità.

      

            THEOTOKOS DI VLADIMIR

Theotokos di Vladimir

Domenica tra l’Ottava di Natale – Anno A

“Famiglia: prendersi cura dell’altro nell’accoglienza reciproca”


 

(Sir 3, 2-6. 12-14; Sal 127; Col 3, 12-21; Mt 2, 13-15.19-23)

 

       Il termine “famiglia” oggi ha assunto significati diversi. Si parla di coppie di fatto, unioni civili, unioni “etero ed omo”.

       Oggi le famiglie cosiddette “allargate” sono sempre più a causa di molteplici fattori tra cui quello culturale.

      Già da tempo sui documenti di identità e civili i termini “celibe” e “nubile” sono stati sostituiti da “libero” e “libera”. I termini “padre” e “madre” si vogliono sostituire con i generici “genitore 1” e “genitore 2”.

     In questo contesto culturale la festa della “Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe” rischia, inoltre, di essere strumentalizzata per giustificare posizioni ideologiche che poco hanno a che fare con la realtà evangelica.

      Di fatto mai come oggi è necessario celebrare in pienezza la Festa della “Santa Famiglia”, proprio per ribadire il valore della famiglia, il ruolo genitoriale, la sacramentalità dell’unione matrimoniale e il progetto di Dio per l’umanità.

       La famiglia di Nazareth non può essere presentata come un esempio da seguire “sic et simpliciter”, ma certamente sono modello di fedeltà e di accoglienza perché hanno imparato ogni giorno a comprendere e a compiere la volontà di Dio.

     Sebbene Maria e Giuseppe avevano una fede forte e salda e si sono visti scelti da Dio per un progetto di fatto a loro sconosciuto ed incomprensibile, sono un modello di accoglienza reciproca e di impegno a vivere nella carità e ad attuare i valori alti della giustizia e della fedeltà.

       Non gli vengono risparmiate fatiche, sofferenze, paure e dubbi, ma nella loro fede imparano ogni giorno a fidarsi di Dio e a vivere ogni cosa con il sostegno reciproco.

        Maria e Giuseppe ci insegnano a vivere la vita come un dono e fare di essa una fucina dei valori di umiltà, pazienza, accoglienza, perdono, fiducia, giustizia, attenzione agli altri e carità.

       San Paolo, nella pericope della Lettera ai Colossesi (3, 12-21), ci offre la carta magna della vita familiare. Sicuramente possiamo pensare che siano state le modalità di vita della Santa Famiglia, certo è che sono indicazioni per ogni famiglia che decide di vivere in pienezza il matrimonio come sacramento.

       Le indicazioni strettamente legati al rapporto coniugale e familiare meritano alcune precisazioni di carattere esegetico perché i termini usati stridono con la visione attuale. Certamente la società del tempo riteneva l’uomo in una condizione di superiorità e la donna non aveva alcuna possibilità di indipendenza sociale, ma in questo contesto culturale la fede cristiana non stravolge ma illumina ed offre la novità di relazione.

       San Paolo esorta la coppia a vivere il loro rapporto tenendo presente quello tra Cristo e la Chiesa. Questo paragone lo troviamo espresso anche in altre lettere (1Cor 14, 34; Ef 5, 22-24; Tt 2, 5).

       Il concetto di “sottomissione”, riferito alla moglie, è proprio della condizione della Chiesa verso il suo sposo, Cristo Gesù, la quale vive la sua relazione di amore come un dono ricevuto a cui risponde con la gratitudine e la fedeltà. La Chiesa che la donna, per l’amore del suo sposo, Cristo, è posta nella condizione di “eletta”, di “amate”, di “liberata”, così la sposa, amata dal marito nella stessa modalità del Cristo, è la prescelta, l’eletta, l’amata, la liberata.

       Pertanto il marito deve amare la moglie come Cristo ama la sua Chiesa, cioè donando totalmente sé stessa fino a morire per lei, vivendo un amore di “esclusività”. Il marito, a immagine del Cristo, è ammonito ad amare la moglie e a evitare le occasioni di “infedeltà”, soprattutto a non considerarle “schiave” trattandole con “durezza”, ma ad amarle con “dolcezza” e a “servirle” come Cristo fa con la Chiesa.

       San Paolo presenta anche la relazione genitori-figli. Se da un lato viene richiesta l’obbedienza, dall’altro è necessaria l’esortazione, la fiducia per stimolare la buona volontà e lo spirito di iniziativa, evitando atteggiamenti puntigliosi e vessatori che ingenerano sfiducia e apatia.

       Il brano tratto dal libro del Siracide presenta la relazione genitori-figli nella volontà di Dio. Questa relazione è il luogo dove concretizzare la fede. Vivere la relazione con Dio Padre significa onorare e vivere correttamente la relazione genitori-figli.

       A cosa vale vivere le pratiche della fede (preghiera, vita sacramentale) se poi non vivo la corretta relazione genitori-figli?

       Come posso vivere la mia relazione di figlio di Dio non amando e curando i genitori? Come posso compiere la volontà di Dio, costruire il suo regno, se non sono un genitore attento e premuroso verso i figli sostenendoli nella loro crescita, educandoli ai valori della fede, infondendo nei lori cuori fiducia e coraggio?

       A cosa vale la mia preghiera se poi non mi prendo cura dei miei genitori nella loro vecchiaia?

      La festa della Santa Famiglia di Nazareth ci esorta a recuperare il valore della vita familiare; a testimoniare nella nostra società la relazione coniugale basata sulla fedeltà e rispetto; a vivere le relazioni familiari basate sull’accoglienza, il perdono, la magnanimità, l’umiltà, la sopportazione, la carità.

      La festa della Famiglia di Nazareth è occasione per ridire alla nostra società, che centra tutto sull’individuo, che l’essere umano si realizza nella reciprocità e nell’accoglienza.

      La famiglia è la cellula vitale della società e la piccola Chiesa domestica. Se distruggiamo questa realtà distruggeremo l’umanità. Se come credenti non testimoniamo il valore della famiglia e non comprendiamo che essa è il luogo primario dove vivere la fede, non saremo “sale” e “luce” per l’umanità e vana sarebbe la nostra fede.

 

Fuga in Egitto di Giotto di Bondone

 

Fuga in Egitto di Giotto di Bondone

Natale del Signore – Anno A

“È apparsa la grazia di Dio”


 

 

          La festa del Natale è sicuramente una ricorrenza attesa e sentita. Tra luci, addobbi, regali, dolci tradizionali, prelibatezze culinarie tramandate da generazioni, tutti siamo presi da un clima coinvolgente e sentimentale.

       Ma tra tutto questo contorno che aiuta a festeggiare il Natale abbiamo ancora la consapevolezza dell’evento salvifico di cui facciamo memoria?

       Forse un piccolo presepe aiuta a soffermarsi sul significato del Natale, ma per celebrare in pienezza occorre sicuramente soffermarsi a contemplare il grande dono di amore di Dio che ha scelto di farsi uomo!

       Il mistero dell’Incarnazione rischiara le tenebre che spesso avvolgono la nostra vita, il nostro essere uomini fragili e facilmente dediti al male.

       San Paolo nella lettera a Tito afferma: “È apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l'empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” (Tt 2, 11-13).

       Il Natale è innanzitutto la contemplazione della manifestazione della grazia di Dio, che apre a tutta l’umanità la possibilità di vivere in pienezza questo dono gratuito.

       Contemplare l’incarnazione di Cristo, nella umiltà di un bimbo avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia, ci fa comprendere che ogni persona vale per ciò che è e non per ciò che possiede, o può fare. Ogni persona è unica e un dono da accogliere e rispettare in ogni condizione e possibilità.

       Dio nella sua onnipotenza ha scelto di manifestarsi nella condizione della fragilità umana per farci comprendere che solo in Dio tutto possiamo, come afferma San Paolo: “Tutto posso in Colui che mi dà forza” (Fil 4, 13).

       Contemplando Dio fatto carne impariamo a vivere in pienezza la nostra condizione umana imparando a compiere ciò che di fatto qualifica il nostro essere persone e cioè rinnegando l’empietà e vivendo con sobrietà, giustizia e pietà (cfr Tt 2, 12).

       Esattamente il contrario della logica di vita secondo il mondo, che insegna e incoraggia a vivere cercando il vanto nel lusso e nel consumismo; a riporre nel denaro ogni speranza anche a discapito della giustizia; a chiuderci in un egoismo ed egocentrismo mancando di pietà e carità verso il prossimo, considerato come ostacolo e non opportunità.

       Vivere il Natale non significa “essere più buoni” per l’atmosfera che si vive, o come dice un motivetto natalizio, “a Natale puoi fare quello che non puoi fare mai” perché è un giorno speciale.

       Vivere il Natale significa fare della nostra umanità presenza della divinità; presenza di Dio che si è incarnato ed ha elevato la condizione umana alla gloria di Dio, per il dono di sé nella sua morte e risurrezione.

       Vivere il Natale significa operare ogni giorno ed in ogni momento per il bene dell’umanità tutta, senza distinzione, senza condizione e senza eccezione.

       Vivere il Natale significa far fruttificare il dono della salvezza ricevuto, non per nostro merito, ma per la misericordia di Dio, impegnandoci a vivere nella verità e nella giustizia.

       Soffermandoci ancora una volta a meditare il dono della salvezza per l’incarnazione di Cristo e ringraziamo il nostro Dio per il suo amore e per la fiducia che ripone in ogni persona.

       Con Sant’Alfonso Maria de’ Liguori fermiamoci a cantare l’amore di Dio contemplandolo nella umiltà della sua incarnazione:

      

“Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo,

e vieni in una grotta al freddo e al gelo,

e vieni in una grotta al freddo e al gelo.

O Bambino mio divino,

io ti vedo qui tremar;

o Dio beato!

Ahi quanto ti costò l'avermi amato!

ahi quanto ti costò l'avermi amato!

Tu piangi per vederti da me ingrato

dopo sì grande amor, sì poco amato,

dopo sì grande amor, sì poco amato!

O diletto del mio petto,

se già un tempo fu così,

or te sol bramo:

caro non pianger più, ch'io t'amo e t'amo,

caro non pianger più, ch'io t'amo e t'amo.”

Quarta Domenica di Avvento – Anno A

“Il segno della Salvezza”


 

(Is 7, 10-14; Sal 23; Rm 1, 1-7; Mt 1, 18-24)

       Chi non cerca un miracolo, specialmente quando si vivono momenti di difficoltà, di malattia, di prove forti che destabilizzano la vita? Se pensiamo alla devozione verso tanti Santi taumaturgici o considerati “potenti” perché compiono miracoli, possiamo convenire che spesso la fede è vissuta non come un compiere la volontà di Dio, ma come una possibilità di ottenere ciò che a noi più fa comodo o ci piace.

       Dio è trattato come “il genio della lampada”, a cui rivolgerci per ottenere ciò di cui abbiamo bisogno, per cui non siamo noi a conformarci alla sua volontà, ma è Lui a dover esaudire i nostri desideri e rispondere ai nostri bisogni.

       Eppure abbiamo di fatto bisogno di segni per credere, per accettare l’esistenza di un Dio che non vediamo, per accogliere la sua presenza nella nostra vita perché siamo immersi nella contingenza della vita terrena. Immersi nella immanenza, assoggettati alla materialità è sempre più difficile per l’uomo moderno aprirsi alla trascendenza di Dio.

      Dio, ci viene incontro nella nostra incredulità e materialità, decidendo di darci un “segno” tangibile della sua presenza: Cristo Gesù!

       “Il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele” (Is 7, 14), “che significa “Dio con noi”” (Mt 1, 24).

       Questa presenza accanto a noi è vera e certa per il suo amore fedele e misericordioso, quindi non perché noi lo meritiamo per il nostro essere ed operare. È la risposta alla nostra presunzione ed arroganza, al nostro egoismo e cattiveria, alla nostra meschinità e ipocrisia.

         L’Emmanuele, il Dio con noi, attua la promessa di redenzione con il dono di sé, che si rinnova ogni volta nella celebrazione eucaristica per il dono dell’eucaristia.

       La sua presenza reale in mezzo agli uomini, così poco amata e adorata; così poco creduta e riconosciuta è il segno della redenzione che continua nel tempo e ci inserisce nella piena e duratura comunione con Dio.

      L’Emmanuele, il Dio con noi, che è presenza viva nel mistero eucaristico, è la fonte a cui accostarci per dissetare la nostra sete di amore, la verità a cui accedere per trovare senso al nostro esistere, la roccia su cui edificare la vita per resistere in ogni avversità e prova; la giustizia a cui riferirsi per comprendere come discernere; la pace a cui riferirsi per costruire legami e promuovere il rispetto di ogni persona.

        L’Emmanuele, però, richiede da noi una risposta di fede, cioè di fiducia e di abbandono alla sua volontà, come quella richiesta dal re Acaz e al popolo ebraico per bocca del profeta Isaia e da Giuseppe per l’annuncio dell’angelo in sogno.

       Siamo chiamati a rispondere al suo infinito amore con “l’obbedienza della fede” (Rm 1, 5), cioè con l’ascolto della sua Parola e l’attuazione nella vita, non con gesti eclatanti, con miracoli e prodigi, ma con opere di carità, di giustizia, di misericordia, di pace, cioè nella verità e nella carità.

       L’Emmanuele è con noi non per chiederci di estraniarci dalla realtà o di viverla subendone la sua presenza, ma per viverla rinnovandola e alimentandola con la forza del suo amore.

      Accogliere il segno del Signore, la sua presenza con noi, significa fare della nostra esistenza il segno e la presenza Sua.

      Prepararsi a celebrare la memoria dell’Incarnazione, della presenza del segno di amore di Dio nel dono del suo Figlio, Gesù Cristo, deve essere per noi l’impegno ad essere per questa società, che vive “la magia del Natale”, il segno della “presenza di Dio” con la nostra testimonianza viva ed operosa nella verità e nella carità.

      Se la nostra società si limita a vivere “il sentimento del Natale”, “la magica atmosfera dove tutti siamo più buoni”, noi cristiani dobbiamo essere il “segno” vero e operante della redenzione di Cristo con la nostra vita!

Terza Domenica di Avvento – Anno A

“La costanza nell’attendere”


 

(Is 35, 1-6a.8a.10; Sal 145; Gc 5, 7-10; Mt 11, 2-11)

 

       Se dovessimo descrivere lo stile di vita della nostra società credo che il termine più adatto sia la “fretta”.

       Un esempio dove verificare che la fretta connota le nostre giornate sicuramente è il traffico: caotico, arrabbiato, dove ognuno cerca di “sguizzare” per raggiungere prima la meta, come se ogni giorno partecipassimo al “gran premio di formula uno”.

       Là dove c’è la fretta, che caratterizza le giornate, difficilmente può esserci pazienza, calma e costanza, atteggiamenti propri dell’attesa del Signore.

       Nel nostra società, di fatto, non è assente Dio perché rifiutato, ma perché manca il tempo o meglio la “sapienza del tempo”, cioè ciò che permette di cercare quello che dà valore e senso alla caducità della vita.

      Non c’è spazio per Dio in un cuore che rincorre emozioni e sentimenti diventati sempre più labili e mutevoli, con la stessa rapidità con cui si cambiano le cose seguendo la logica del “usa e getta”, regala principe del consumismo.

       Il tempo dell’Avvento ci ricorda che la fede è un attendere con pazienza e costanza la “parusia” del Signore, che si compie nelle scelte del quotidiano.

       L’apostolo Giacomo esorta i fratelli nella fede a vivere la costanza dell’attesa avendo come esempio l’agricoltore, che attende il maturarsi del frutto della terra irrorato dalle “prime e le ultime piogge”, cioè con la pazienza di saper attendere lo sviluppo, la maturità della persona, di sé stessi e degli altri, attraverso le esperienze della vita che si fanno.

       Presi dalla logica della fretta, perdiamo sempre più la sapienza di saper leggere le vicende della vita comprendendone senso, motivazioni e finalità. Giudichiamo con superficialità, impulsività, istintività, lamentandoci gli uni degli altri.

       L’apostolo Giacomo ci esorta a non lamentarci per non essere giudicati a nostra volta da Dio.

       Per questo l’esempio da seguire è quello dei profeti, come ci indica l’apostolo, i quali come noi hanno sperimentato la difficoltà dell’attesa, la sopportazione e la pazienza per le prove della vita, ma anche che Dio non delude e conduce coloro che si affidano a lui a comprendere la sua volontà da compiere proprio quando tutto sembra avverso.

       L’attesa della parusia del Signore, dell’avvento del suo Regno si compie operando il bene nelle piccole vicende del nostro quotidiano. Seguendo il sentiero, la strada chiamata “via santa”, come dice il profeta Isaia, che è vivere nella giustizia, nella pace, nel rispetto del prossimo.

       L’invito di questa domenica è quello di “rinfrancare i nostri cuori”, “irrobustire le mani fiacche”, “rendere salde le ginocchia vacillanti”, cioè fare della nostra esistenza una vita carica di speranza e di carità per testimoniare la nostra fede con opere volte a cooperare per lo sviluppo integrale di ogni persona.

        Se impariamo a vivere così, la gioia e la felicità diventeranno i segni caratteristici del nostro essere perché acquisiremo la sapienza, per discernere le situazioni; la pazienza, per sopportare le prove della vita; la costanza, per conservarci nell’amore di Dio e compiere la sua volontà.

      

Solennità dell’Immacolata Concezione

“Con Maria il nostro si al Signore per essere puri di cuore”


 

 

       “Purezza”, “Pudore”, “Castità” sono termini che non appartengono più al vissuto quotidiano. Altrettando dicasi per la categoria di “peccato”. Al più si comprende ed accetta il “senso di colpa”.

       Il senso morale è ridotto a ciò che ciascuno ritiene buono e valido. Si comprende il “bene” e il “puro”, ma di fatto tutto è sottoposto al piacere personale e alla libertà dell’individuo.

       Celebrare l’Immacolata Concezione della Vergine Maria in tale contesto culturale è antitetico al senso comune di pensare, ma necessario per ribadire qual è il valore di essere “figli di Dio”.

       San Paolo, nell’inno della sua lettera agli Efesini, afferma: “In lui [Cristo] siamo stati fatti eredi, predestinanti … a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato in Cristo”.

       Predestinati ad essere figli adottivi, a partecipare alla gloria di Dio e tutto questo non per nostro merito, ma per volontà di Dio.

       Per questo mistero di salvezza Dio ha voluto che Maria fosse concepita senza peccato originale, Lei che doveva dare al mondo il Signore della vita.

       Quello che è un privilegio per Maria di fatto è un dono per l’umanità, un invito a realizzare in noi la chiamata alla “santità”, allo stato di purezza a cui ci ha predestinati.

       Tutto questo è possibile impegnandoci a dire il nostro “si”, il nostro “fiat” alla volontà di Dio, vivendo guidati dalla sua Parola.

       Può sembrare arduo, difficile o addirittura irreale e riservato solo a coloro che si estraniano dal mondo, invece non è nulla di più naturale e possibile perché significa cercare il bene.

       Ovviamente non il bene inteso come ciò che piace o ciò che ci interessa, ma come realizzazione di sé in quanto “figli di Dio” e degli altri in quanto “fratelli”, coeredi di Cristo!

       Ogni ricerca di bene egoistico, centrata all’interesse e piacere personale è di fatto un male perché esclude il prossimo.

       Il peccato quindi è tradimento dell’amore prima di essere trasgressione di una legge, di un precetto.

       I comandamenti non sono limitazioni o divieti, ma indicazioni di vie di amore da realizzare.

       In questa prospettiva si comprende che celebrare l’Immacolata Concezione significa vivere in purezza di pensieri, parole e azioni attuando nella nostra vita relazioni di “agape”, di amore.

       Contemplare l’opera di Dio realizzata nella Vergine Maria e accogliere il suo esempio di obbedienza al Signore ci stimola a impegnarci a realizzare il nostro “si” all’amore di Dio, ci spinge a conservarci nella purezza del cuore e della mente e a testimoniare che l’amore vince sull’egoismo.

       Con Maria diciamo a Dio Padre: “si compia in noi il tuo progetto di amore”.


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