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La Luce Negli Occhi

Viaggio nell'anima attraverso la Sacra Scrittura
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01 novembre

“Contempliamo la Gloria di Dio”


 

 

       “Santità” una parola oggi che non sentiamo appartenente alla nostra esistenza.

       I credenti parlano di santità, credono nella santità di alcune persone verso le quali hanno particolare devozione ed amore, ma difficilmente vedono la loro vita di fede come un cammino di santità da compiere.

       Di fatto con il battesimo tutti i credenti sono già nella condizione di “santità”, perché partecipano alla vita di Dio, attraverso la vita sacramentale, ma che devono portarla a pienezza lasciandosi convertire dalla Grazia di Dio.

       “Santità” non indica perfezione, ma partecipazione alla perfezione di Dio per il dono del suo Amore.

       Non ci santifichiamo per le opere che compiamo, ma per essere uniti a Dio e cercando in ogni nostra opera di compiere il suo volere. Non solo le buone opere in sé che ci santificano, ma fare tutto nella fedeltà al Signore.

       Vivendo il quotidiano, cercando sempre ciò che è gradito a Dio, progrediamo in quel cammino iniziato con il battesimo di partecipazione alla vita del Signore, raggiungendo alla fine della vita la meta del nostro vivere, che è la partecipazione alla Gloria di Dio.

       L’Apostolo Giovanni, nel brano della seconda lettura, esprime chiaramente questo concetto: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato … noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro” (1Gv 3, 1-3).

       La speranza è certezza, per il credente, che tutto ciò in cui crede si compirà per la promessa di amore di Dio. Di conseguenza l’impegno del credente è di “conformarsi” alla volontà del Signore, e liberarsi da tutto ciò che ostacola la vita secondo Dio: questo è il cammino di santità, che si raggiunge lasciando che la Grazia di Dio abiti sempre più nel proprio cuore.

       La santità è l’abitazione dello Spirito di Dio nel cuore del credente, che si ottiene per il dono della fede nel Battesimo, ma si completa nell’agire in noi attraverso la volontà personale di conversione.

       La santità è l’azione in noi, esseri perfettibili, di Colui che è perfetto, ma questa azione è possibile solo nella nostra volontà.

       Siamo, dunque, eletti alla santità, ma la possiamo raggiungere solo con un atto fermo e costante della nostra volontà.

       La volontà aderisce al Signore in un costante esercizio di allenamento attraverso l’ascolto attivo della Parola di Dio, la meditazione dell’amore gratuito di Dio e l’impegno di adesione attraverso il “discernimento” per aderire al bene massimo e possibile in ogni situazione.

       In altre parole è la condizione di Beatitudine del discorso della Montagna (Mt 5, 1-12a) a cui Gesù ci invita ad aderire con la nostra vita. I beati del Vangelo non sono, certamente, quelli secondo la logica del mondo e, in particolare di questa nostra società, ma non sono neanche da considerare degli eroi o dei “superman” o “wonder woman”.

         I beati del Vangelo sono solo coloro che hanno fatto della proposta di Amore di Dio la regola della loro esistenza. Solo coloro che, nella fatica del vivere, nelle tribolazioni e cadute, trovano costante ristoro in Gesù Cristo, Via, Verità e Vita e Legge nuova da seguire.

         I Santi sono uomini e donne che nella loro personale esperienza di vita, nelle fragilità del loro essere, hanno accolto l’Amore di Dio ed hanno fatto di esso la ragione del loro vivere!

      Ognuno di noi, in quanto cristiano, è inserito in questa comune vocazione alla santità. Con la mente, il cuore e la volontà orientati e alimentati dall’amore di Dio, lasciamoci abitare da esso e impegniamoci a valutare, decidere ed agire secondo l’amore incontrato ed accolto, consapevoli di essere figli di Dio, destinati a partecipare della sua Gloria! Amen!

31 ottobre

“In cammino verso la Gloria”


 

 

       È arrivata la tanto attesa giornata o festa di “Halloween”, per alcuni da celebrare, per altri contestarla e contrastarla.

       Resta di fatto una realtà che ha una lunga tradizione e che sta sempre più prendendo piede nella vita di ogni generazione.

       Di fatto, se andiamo a scavare nelle tradizioni popolari dei nostri paesi, scopriamo che in modalità diverse appartiene anche alla tradizione cattolica.

       La questione, a mio avviso, non è tanto quella di opporsi, cercando il male in questa, ormai, radicata tradizione, ma di recuperare il corretto modo di prepararsi alla Solennità di tutti i Santi.

    Se ci soffermiamo a riflettere, liberi dalla tensione della contestazione, noteremo che questa tradizione risponde al senso di sconfitta che la morte lascia nell’animo umano e al conseguente bisogno di esorcizzarla, sentito in modo particolare nella nostra società tecnicizzata.

       La cultura di oggi, che pone particolare enfasi sul progresso scientifico e sul bisogno di sentirsi eternamente giovani, vive una forte débâcle quando fa i conti con l’impotenza di sconfiggere il dolore e la malattia.

       L’efficientismo, il culto del fisico giovane e atletico, il bisogno di spensieratezza e la relativizzazione della responsabilità sono le basi su cui trova accoglienza la festa di Halloween, che altro non è che la sconfitta della morte, del dolore, della caducità dell’essere umano!

       La fede cristiana non è l’opposto di Halloween, ma il vero significato del vivere per cui Dio ci ha creati e il senso profondo della vita seppure nelle sue fragilità, contraddizioni e limiti.

       La nostra società, con la celebrazione della libertà individuale, non ha bisogno di guerre ideologiche, ma di testimonianze autentiche di senso e di speranza, che solo una fede matura può dare.

       I cristiani non hanno bisogno di fare guerra alla ideologia pagana, ma hanno la responsabilità di essere “sale e luce” per questa società e questo attraverso una matura e attenta testimonianza di fede.

     Di fronte alla malattia, alla sofferenza, alla morte i cristiani reagiscono con senso di impotenza e di limite come ogni altro essere umano, ma rispondono con sapienza e speranza a tutto questo perché hanno incontrato e vivono la relazione con la persona di Gesù Cristo, che dà senso al nostro patire e morire avendo aperto in modo definitivo la partecipazione alla vita eterna in Dio.

       Al popolo di Halloween, i cristiani rispondono con la testimonianza di una vita responsabile e serena, che fa i conti quotidianamente con il limite dell’essere, ma aperti alla certezza della vita futura in Dio a cui prepararsi vivendo il presente con la saggezza della fede e la forza della carità.

       Al “dolcetto scherzetto” i cristiani hanno da offrire molto di più: una vita di impegno nella carità, che ha come sorgente l’Eucaristia e come indicazione la Parola di Dio viva ed efficace!

       Il presente per i cristiani non è un tempo da eludere con la ricerca della “leggerezza dell’essere”, ma da valorizzare per gustarne appieno ogni istante, bello o brutto, difficile o sereno, con l’intelligenza della fede, la forza della carità e l’energia della speranza.

       I cristiani sono “viaggiatori” nella quotidianità dell’esistere verso la piena ed eterna partecipazione alla “Gloria di Dio”, di cui gustano, godono e testimoniano il dono ricevuto per la fede che hanno abbracciato!

      I cristiani sono molto altro del popolo di Halloween, basta solo vivere il presente con la gioia dell’appartenere a Dio! 

XXX DOMENICA T.O.

“Umiltà di cuore per amare Dio”


 

 

       La fede abita in un cuore umile.

      Non può esserci posto per Dio in un cuore pieno di sé, né vive la fede autentica chi ha “l’intima presunzione di essere giusto” (Lc 18, 9). Solo chi ha piena consapevolezza e coscienza del proprio limite e della propria debolezza vive il corretto rapporto con Dio.

     La fede esige una totale apertura di cuore, mente e volontà a Colui che riconosciamo Signore e Padre della nostra vita, pertanto alla domanda di Gesù: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18, 8) è responsabilità di ciascun battezzato dare risposta con la propria vita.

      La fede non è questione di osservanza di un codice morale o di pratiche di culto e di elemosina, ma una continua conversione di mentalità per “conformarsi alla volontà di Dio”.

    Per arrivare a questa conformazione, la Parola di Dio, il codice morale, la preghiera, le opere di carità sono “vie necessarie”, ma fondamentale è l’impegno a lavorare su sé stessi perché non sia sterile la vita di fede.

     Il fariseo della parabola, nonostante viveva da persona pia e fedele ad ogni precetto, non trova giustificazione, perché al centro della propria vita non aveva messo Dio, ma il suo orgoglio e vanto, che escludono dall’amore di Dio.

       Il pubblicano, pur nella sua condizione di peccatore, si apre all’amore di Dio, riconosce il suo peccato e si impegna a cambiare vita.

      Il fariseo, nel porre in sé il proprio vanto, giudicava gli altri inferiori a sé stesso, tanto da non avere relazioni per non contaminarsi, e prega stando dritto, manifestando così esteriormente l’atteggiamento superbo del suo animo.

      Il pubblicano, riconoscendosi peccatore, non osa porsi al cospetto del Signore, resta lontano e non alza neanche lo sguardo, solo implora il perdono battendosi il petto e si apre alla misericordia di Dio e ai fratelli intorno a lui.

    “Chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato” (Lc 18, 14): questa affermazione di Gesù ci fa comprendere che per vivere il corretto rapporto con Dio occorre decentrarsi da noi per centrare la nostra esistenza su Lui.

     L’umiltà è, dunque, operare con responsabilità ed impegno, ma facendo tutto per amore di Dio, dando gloria a Lui.

     Il nostro vanto deve essere nel Signore (cfr. 2Cor 10,17), che ci rende capaci di operare nel bene per noi e per gli altri; capaci di costruire relazioni interpersonali in cui l’altro non è mai visto come ostacolo alla nostra realizzazione, ma opportunità; capaci di gestire ogni conflittualità nell’amore misericordioso di Dio, ripagando sempre con il bene il male ricevuto (Rm 12, 17).

     La fede è luce per discernere, valutare e decidere per il bene, non inteso come tornaconto personale, ma come impegno a favore di tutti per vivere con dignità.

     Il corretto rapporto con il Signore si basa, pertanto, prima che “sul fare” (preghiera, culto, precetti morali, carità), “sull’essere” (siamo figli di Dio e quindi da tali occorre comportarsi).

    “Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone” (Sir 35, 15b), accoglie chi a Lui si rivolge con cuore umile e compie la sua volontà.

    Come San Paolo, a noi il compito di impegnarci nella “corsa” della fede, “allenandoci” quotidianamente per discernere la sua volontà e “conquistare” il premio stabilito a coloro che “attendono con amore la sua manifestazione”: la partecipazione alla gloria di Dio; la santità, che già ci appartiene per l’adesione della fede, ma che ancora non abbiamo raggiunto in pienezza (cfr.: 2Tm 4, 6-8; 1Corinzi 9, 24-27; Fil 3, 12-16; Fil 2, 12-18).

XXIX DOMENICA T.O.

“Parola e preghiera: vie per amare Dio”


 

 

     Credere in Dio comporta avere una relazione diuturna e profonda con Lui.

     Due sono le componenti fondamentali di questa relazione: la Parola di Dio e la Preghiera personale e comunitaria.

     La Preghiera è l’espressione della nostra risposta all’Amore di Dio incontrato ed accolto.

     Come in ogni relazione di amore sentiamo la necessità di interagire con la persona amata, così nella relazione di fede con Dio non possiamo esimerci dall’interagire attraverso la preghiera.

     La preghiera è il dialogo profondo con Dio, in cui parliamo “cuore a cuore”; è il dialogo amoroso di chi riconosce di essere stato amato per primo, senza merito, e risponde con la piena disponibilità del cuore e con un continuo e rinnovato impegno di fedeltà.

    La preghiera è ascolto, comprensione, adesione, risposta; non può essere, quindi, un semplice sciorinare parole, anche se cariche di profonda e autentica devozione, altrimenti resterebbe una preghiera sterile, forse appagante per il nostro spirito, ma senza frutto per la nostra vita di fede.

     Gesù, nel brano evangelico di Luca (18, 1-8), ci invita ad una preghiera continua, senza stancarci mai. Vuol dire fare di ogni momento della nostra giornata una preghiera, cioè fare tutto come offerta d’amore a Dio e di ogni cosa una testimonianza della nostra fede.

     Una vita di fede, però, fatta solo di momenti di preghiera, anche liturgici, ma senza ascolto e meditazione della Parola di Dio, non produrrà in noi frutti di conversione e di santificazione; sarà solo espressione di una devozione personale, di una religiosità sterile.

    Nel cammino di fede ci ritroviamo ogni giorno a fare i conti con la nostra fragilità, con i nostri difetti e limiti, con i cattivi pensieri e le passioni ingannatrici.

     La preghiera diventa il luogo dove fare i conti con la nostra realtà debole e fragile per aprirci alla Grazia di Dio.

    Ci dispone a ricevere il sostegno della Grazia e ci rende docili all’azione dello Spirito, perché senza il suo aiuto non riusciremmo a cambiare nulla di noi stessi.

     Per aprirci pienamente all’azione di Dio e prendere coscienza del cammino di conversione da compiere, abbiamo, però, bisogno dell’incontro quotidiano con la Parola di Dio, che ci fa superare le nostre fragilità, ci conforta, ci redime, ci aiuta a sentire vivo il perdono di Dio e ci “santifica”.

     L’ascolto, lo studio e la meditazione della Parola di Dio è indispensabile per la vita del cristiano, perché rende solida e salda la fede che si professa.

     La meditazione della Parola di Dio ci permette di perseverare nella fede, perché è la fonte necessaria ed inesauribile della conoscenza di Dio. La vera sapienza si acquista solo dal continuo e approfondito incontro con la parola viva. Essa è la via per giungere alla salvezza, proprio perché è la fonte della vera sapienza, ed è unione costitutiva con il Cristo.

     San Paolo esorta il discepolo Timoteo e noi a restare saldi nella fede, mediante la conoscenza delle sacre Scritture, che istruiscono “per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Gesù Cristo” (2Tm 3, 15).

     Questa esortazione è quanto mai attuale, soprattutto nel nostro contesto culturale. Si assiste ad una perdita di riferimenti chiari per la fede; si alzano da ogni dove lamentele verso la Chiesa e denunce di smarrimento e confusione nei credenti.

    Addirittura, sebbene si condanna il terrorismo di matrice religiosa islamica, si apprezza e si decanta una maggiore conoscenza e coerenza di fede dei mussulmani rispetto ai cristiani.

     Di fatto quello che manca ai cristiani è la conoscenza della Parola di Dio. Una carenza che produce smarrimento, devianza, perdita di fede. Una ignoranza che fa accettare stili di vita, comportamenti e ideali contrari alla fede.

    Oggi occorre che i cristiani siano preparati, esperti conoscitori della “verità”, perché il sentire comune non ha niente più a che fare con la fede.

     La nostra società ha bisogno di cristiani che conoscano la Parola, che sappiano discernere ciò che è bene e che diano testimonianza di una vita conforme al Vangelo.

    Oggi si ha bisogno di fedeli che preghino con parole e gesti; che le parole dette nella preghiera trovino concretezza nello stile di vita vissuto.

    La nostra vita di fede deve alimentarsi quotidianamente della Parola di Dio, per essere testimoni della “verità”, e corroborarsi con la preghiera costante, per “santificarci” e trovare forza e grazia per la testimonianza di fede.

XXVIII DOMENICA T.O.

“Rendere grazie a Dio”


 

 

    “Grazie” è una parola che genera serenità e pace interiore sia in chi la riceve, sia in chi la pronuncia. Saper dire “Grazie” è l’esercizio più difficile, ma indispensabile, che ogni persona deve imparare e compiere. Non nasciamo con questa capacità, anzi impariamo a identificarci con la comprensione del possesso. I bambini prendono coscienza di sé e sviluppano la loro relazione sociale con la comprensione di ciò che gli appartiene e lo esprimono con: “è mio”, “mamma è mia” ecc.

     Educare fin dalla tenera età a “saper ringraziare” è fondamentale per uno sviluppo sereno e maturo della personalità. Significa educare a saper riconoscere che nulla ci è dovuto, ma tutto ci è donato, a partire dalla vita; significa educare a comprendere che per vivere una vita realizzata e felice non occorre possedere, ma condividere e riconoscere che nel reciproco rispetto ed accoglienza troviamo il fondamento della vera gioia.

    Quando impariamo a comprendere che tutto ciò che siamo è un dono da valorizzare, rispettare e far fruttificare, troviamo la ricetta della vera felicità. Ansia, frustrazione, depressione, scoraggiamento, insoddisfazione ed ogni altro sentimento negativo, che oscurano e tolgono la voglia di vivere, non trovano posto in noi se viviamo nella logica della “gratitudine”.

     La fede ci educa alla “gratitudine”, perché ci inserisce in una relazione di amore gratuito con Dio.

   Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che “La fede è innanzitutto una adesione personale dell’uomo a Dio; al tempo stesso ed inseparabilmente è l’assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato” (CCC 150). L’adesione a Dio e l’assenso alla sua rivelazione chiede un impegno di vita coerente. La fede si esprime attraverso opere di amore.

   Dio ci sostiene in questo impegno di vita secondo la sua volontà, per essere figli suoi, attraverso la sua Grazia. “La grazia è il favore, il soccorso gratuito che Dio ci dà perché rispondiamo al suo invito: diventare figli di Dio, figli adottivi, partecipi della natura divina, della vita eterna” (CCC 1996). Per il dono della sua Grazia siamo guariti dal peccato e santificati.

   San Paolo, nella seconda lettura di oggi, esorta Timoteo e noi a radicarci nella Parola di Dio e a vivere con coerenza ed impegno la nostra fede.

   Riporta un inno cristologico che faceva parte, probabilmente, del patrimonio delle prime comunità ed introdotto dalla espressione «è vero, è degno di fede il detto» (pistòs ho lógos). Con la formula “SYN”, “con”, Paolo vuole porre in luce il rapporto del credente con Colui nel quale ha riposto ogni proprio interesse, Gesù Cristo. Tale rapporto ha luogo nel tempo della chiesa – indicata dal plurale usato – nella dimensione battesimale–pasquale in cui il credente è inserito.

   Il credente è “radicato e fondato in Cristo”, per questo in ogni cosa esprime questa appartenenza con un impegno di fedeltà. San Paolo ricorda che qualora il credente viene meno nella fedeltà, Dio non lo fa perché Egli è fedele.

   All’infedeltà dell’uomo corrisponde la fedeltà di Dio che non può rinnegare sé stesso. Questa è una verità indiscussa per il mondo giudaico, tanto che questa fedeltà assoluta di Dio è la caratteristica che permette al pio israelita di riconoscerlo come il vero e unico Dio.

   Questa verità di fede è stata recepita e rielaborata in ambito cristiano alla luce dell’evento pasquale, in cui all’infedeltà dell’uomo è corrisposta la fedeltà di Dio al suo progetto di salvezza, con la morte e risurrezione di Cristo.

   Anche se il neofita, come il cristiano adulto, incorre di fatto in una serie di infedeltà battesimali, alla sua fragilità viene incontro la fedeltà di Cristo.

   È il senso più autentico di “apistoûmen” (mancare di fede, essere infedele): non si tratta di apostasia né di allontanamento dalla fede, ma di quella serie di infedeltà quotidiane che appesantiscono la vita di fede del credente e ne demotivano quasi insensibilmente l’impegno iniziale.

    L’espressione della fede, in un impegno di fedeltà all’amore di Dio, è il “rendere grazie a Dio”. Fare esperienza dell’amore sanante di Dio, che rialza e infonde fiducia nel cuore dell’uomo, non può che condurre a ringraziare Dio per ciò che dona.

    Il lebbroso samaritano torna a ringraziare Gesù per la guarigione ricevuta e rendere gloria a Dio e Gesù gli dice: “la tua fede ti ha salvato”. Questa risposta ci fa comprendere che la fede conduce alla salvezza se è vissuta nella logica della gratitudine.

    Questo significa che l’adesione alla verità rivelata si traduce in una consapevolezza che tutto è dono di Dio e il culto a Lui gradito è il “rendere grazie”, come recita il versetto del Canto al Vangelo di questa domenica tratto da 1Ts 5,18.

   “εχαριστία” (eucaristia) in greco significa “rendimento di grazie”. La vita del credente deve essere una “eucaristia vivente”, cioè un saper dire “grazie” con parole ed opere.

    Questo è il vero culto gradito a Dio: il culto spirituale, come insegna San Paolo (Rm 12), di una vita tutta unita a Cristo ed offerta a Lui e al prossimo.

XXVII DOMENICA T.O.

“La fede cambia noi e il mondo”


 

 

       Avere fede non è facile. Si accetta la possibilità che esista un Dio, ma non sempre ci si identifica con la comunità dei credenti: la Chiesa. Tra i giovani è maggiormente diffuso il credere nella scienza, pur non conoscendo bene il metodo scientifico, perché dà maggiore affidabilità di verifica di ciò che afferma.

       Se puoi si considerano le guerre, i vari attentati con finalità religiose o le calamità naturali e le malattie, soprattutto infantili, diventa difficile poter accettare un Dio che permetta tutto questo. Le parole del profeta Abacuc fanno eco alle tante lamentele dell’umanità di fronte alle vicissitudini che rendono difficile credere: “Fino a quando Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido “Violenza!” e non salvi?” (Ab 1, 2).

       Di fatto chi, pur riconoscendosi credente convinto e praticante, non ha mai dubitato in cuor suo di Dio, della sua esistenza e del suo amore di fronte a momenti difficili in cui sperimentiamo impotenza e finitudine?

       Inoltre la fede è spesso confusa con le varie espressioni di religiosità popolare, o con accettare per la propria vita uno specifico codice morale di comportamento e le pratiche di culto. Il rapporto con Dio, spesso, viene inteso come un “do ut des”, “un dare per ricevere”, perciò si prega e ci si comporta il più possibile secondo i precetti morali per ottenere benevolenza e favori da Dio.

       Cosa vuol dire, di fatto avere fede?

       La fede è sequela di una Persona. Nasce dalla conoscenza di Dio che si è rivelato in Gesù Cristo. La fede è fare esperienza della sua proposta d’amore. È l’esperienza personale della misericordia di Dio.

La fede è adesione del cuore e della mente alla proposta di vita nuova da parte di Dio. Preghiera, culto, codice morale e vita comunitaria sono l’espressione di questa adesione a Dio.

       Riflettendo sulla fede, come gli apostoli ci sentiamo carenti e deboli, e con loro chiediamo al Signore: “Accresci in noi la fede!”.

       La risposta da parte di Gesù è la medesima, perché la fede non è quantificabile con misure di grandezza. Infatti Gesù usa come metro di misura il piccolo seme di senape, che nella sua piccolezza ha la forza vitale come ogni altro seme.

       La fede è questa forza vitale che ci rende capaci di ogni cosa, di saper affrontare i vari momenti della vita senza mai perdere la speranza, neanche di fronte alla morte.

       La forza vitale della fede nasce dall’esperienza dell’amore di Dio che genera vita in chi lo accoglie. La misericordia di Dio rialza chi cade e dà forza a chi devia dal cammino di amore.

       Avere fede significa smettere di confidare in sé stessi e lasciare che Dio operi in noi e attraverso noi. Avere fede è operare con tutto noi stessi, ma confidando nell’amore di Dio e valutando ogni cosa a partire da Dio.

       Per questo la logica da assumere è quella del “servo”, come ci dice Gesù nel brano di Luca (17, 5-10), perché il servo non possiede e non si appartiene. Gesù vuole indicare con questo termine che il credente è chiamato ad una relazione con il Signore di totale fiducia ed abbandono, per cui il suo interesse è tutto orientato a ciò che è gradito a Dio e secondo la sua volontà.

       In questa relazione vive nella piena libertà perché è animato dall’amore ricevuto e sperimentato. Vive nella sequela del suo Signore, che per amore “da ricco che era, si è fatto povero per noi” (cfr 2Cor 8,9).

       Il credente deve vivere nella logica della “gratuità”, del “dono”, che il Signore stesso ha insegnato a vivere.

       Da qui si comprende la conclusione del brano evangelico: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17, 10). Siamo chiamati a compiere ogni cosa al meglio, cioè a vivere in pienezza ogni momento della vita, gustandolo, facendolo fruttificare e condividendolo con il prossimo, nella piena responsabilità e ricerca del bene.

       L’espressione “servi inutili” non indica il non valore della persona, ma che non ha un guadagno. Il termine greco (ἀχρεῖος) significa senza utilità, questo vuol dire che il credente vive il proprio cammino di fede e il servizio di testimonianza senza profitto e guadagno personale, ma per dovere che scaturisce dall’esperienza di misericordia vissuta.

       Essendo stati amati per prima da Dio non possiamo esimerci dal vivere nel suo amore e donare amore, come credenti in Lui, al mondo intero.

       La vita cristiana non è un “dovere” o un “obbligo morale”, ma una “scelta di amore libera e fedele”. Chi ha fatto esperienza dell’amore di Dio sente l’urgenza di condividere questo amore con tutti.

       La fede può cambiare il mondo, se noi ci lasciamo cambiare dall’Amore di Dio, se lasciamo agire in noi questo Amore con la sua forza vitale!


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